Il Sole Domenica 3.5.18
Legge 180
Le parole di Franco Basaglia
di Massimo Bucciantini
Le
quattordici conferenze che tenne in Brasile a giugno e novembre del
1979 sono il testo di Basaglia più conosciuto fuori dall’Italia. E al
tempo stesso – come osserva Maria Grazia Giannichedda – sono «il modo
migliore per avvicinarsi al suo lavoro e alle sue idee e per ritrovare,
nelle sue parole, le radici della Legge 180».
Già, le sue parole.
C’è un lavoro ancora da fare sulle “parole” di Franco (di Franca e dei
«goriziani»). Perché tanto si è discusso in questi mesi dell’azione che
lo condusse allo smantellamento del manicomio, meno, però, delle sue
parole, che accompagnano e guidano quella esperienza radicale. E il
presente libro – più di altri – si presta a riflettere su questo
aspetto.
Tornando a leggerlo, sono rimasto colpito
dall’inquietudine che lo pervade. Eppure era trascorso appena un anno
dall’approvazione della legge che prese il suo nome. Non siamo cioè
all’inizio di un percorso ma a un significativo risultato di messa in
pratica del progetto a cui lui – insieme al gruppo di psichiatri che
partecipò a quella stagione irripetibile – dedicò quasi vent’anni della
sua vita.
Ma l’aria che si respira in queste conferenze non ha
niente di celebrativo. Si percepisce subito che Basaglia non si sente
maestro di alcunché, né è venuto per esportare un modello di psichiatria
o di salute mentale. Ciò che gli interessa è «organizzare qualcosa che
vada al di là di queste riunioni, qualcosa che sia come un cemento che
può unire le persone che vogliono lavorare in modo diverso». Quello che
gli preme comunicare è l’urgenza di un agire che non può limitarsi al
rapporto con i malati e con la follia, ma che deve coinvolgere «il
popolo in generale» e le sue organizzazioni sociali e politiche. Ben
sapendo che ogni conquista di libertà può tramutarsi nel suo contrario,
in una nuova forma di oppressione.
Ma questa situazione di
pericolo e di incertezza non vanifica i cambiamenti, come se gli sforzi
di trasformazione della società fossero destinati sempre e comunque
all’insuccesso perché «il potere» ha la capacità di recuperare tutto.
Scrive, al riguardo, Basaglia: «Se questo fosse vero dovremmo dire che
le Brigate Rosse hanno ragione, cosa che invece non è affatto vera
perché sono anch’esse manipolate dal potere: il terrorismo in Europa è
un’immagine speculare dello Stato».
Siamo nel 1979, a un anno
dall’assassinio di Moro, e sono parole pesanti le sue. Così come lo sono
quelle lanciate contro la psichiatria e la medicina tradizionali. Una
lotta impari, del nano contro il gigante, di una minoranza che vuole una
realtà diversa, ma che può diventare – e il nome di Gramsci ricorre più
volte – una minoranza egemonica.
Le Conferenze brasiliane sono
abitate da parole ed espressioni che oggi ci sembrano lontane, che
appartengono a un orizzonte ideologico e politico distante ere
geologiche dal nostro presente. A una prima lettura siamo quasi tentati
di trascurarle, di metterle in secondo piano, come se provenissero da un
passato arcaico. Ma che invece non possono essere cancellate, se
vogliamo provare a calarci dentro quella pratica antistituzionale, se
vogliamo capirne il senso. Ecco allora che brani come questo diventano
occasione di riflessione: «Penso che in un certo senso la logica
terapeutica e la logica della lotta di classe siano due cose molto
vicine, e che solamente con dei passi in avanti della lotta di classe si
potrà creare un nuovo codice per una nuova scienza, una scienza che sia
al servizio del malato». Il passaggio a una nuova scienza assume così
uno dei tratti fondamentali dell’esperienza basagliana. Ma che si
caratterizza appieno solo se la associamo al timbro e alla grana della
sua voce, inconfondibile: «Per noi il problema era quello di trasformare
la scienza in una nuova scienza, di trovare un nuovo codice che si
poteva trovare solo attraverso nuove risposte all’altra classe, la
classe oppressa, il proletariato e il sottoproletariato che popolavano
il manicomio».
Si tratta di avviare un’opera di restituzione,
anche filologica e linguistica, di quel progetto. E ciò significa, a
quasi mezzo secolo di distanza, provare a leggere quei testi pesando e
bilanciando le sue parole, all’interno di quell’originale incrocio tra
battaglia scientifica e battaglia politica su cui Basaglia ha tentato di
costruire una nuova forma di umanesimo.
Al tempo stesso, però, si
avverte la necessità di ascoltare altre voci, di entrare in quel pezzo
di storia da punti diversi. Per questo, il racconto autobiografico di
Antonio Slavich (1935-2009) riempie un vuoto e vorremmo che altri se ne
aggiungessero.
Intanto è una testimonianza preziosa, di un
protagonista. E non solo perché Slavich fu il primo allievo di Basaglia,
colui che dal 1961 lavorò al suo fianco fino al 1969, fino a quando i
coniugi Basaglia decisero di trasferirsi prima a Colorno e poi a
Trieste, ma anche perché riesce, con una scrittura in terza persona
limpida e coinvolgente, a rendere il clima di fermento e di continua
sperimentazione che si respirava nei padiglioni di uno degli ospedali
psichiatrici più periferici e insignificanti d’Italia, al confine del
mondo occidentale.
Ci si accorge subito che siamo di fronte a uno
sguardo che cattura i dettagli, anche quando vorresti che il racconto
non indugiasse ed entrasse subito nel vivo della battaglia. Anzi, in un
primo momento saresti quasi portato a saltare, ad andare al dunque. Poi
però scopri che questa andatura minimalista ha il merito di farti vedere
le persone più da vicino e di spazzare via luoghi comuni. «Il primo
incontro di Basaglia con Slavich fu sobrio, breve, cortese, nessun tu
asimmetrico fra barone e allievo implume. Da quella mattina di fine
ottobre del ’59, fino al ’68, Basaglia e Slavich si sarebbero dati
sempre del lei». E riferendosi a Basaglia: «Il francese lo leggeva bene e
molto, come l’italiano e l’inglese; il tedesco, invece, se lo faceva
tradurre; quanto a parlarle, le lingue, l’unica che orgogliosamente
usava era il veneziano, a meno che la cosa fosse proprio inopportuna».
Ma
le vicende si susseguono senza tregua, e il ricordo si fa incalzante. A
cominciare dalla «bella primavera» del 1965, quando a Gorizia, arriva
Agostino Pirella già primario a Mantova («lo sguardo era diritto,
intelligente e un po’ ironico, uno studioso serio») e subito dopo Nico,
Domenico Casagrande, e poi ancora, nell’ottobre del ’66, Giovanni
Jervis, la psicologa Letizia Comba Jervis, Lucio Schittar. I sette
goriziani, come li chiama Slavich. Il settimo era Leopoldo Tesi arrivato
nel novembre del ’62. E attorno a questo sparuto, e a volte
conflittuale, gruppo si formano in quegli anni tanti operatori, allora
studenti e giovani laureandi, che diventeranno il motore della
preparazione della Legge 180.
Slavich racconta la genesi del libro
collettivo Che cos’è la psichiatria?, curato da Basaglia e stampato
dall’Amministrazione provinciale di Parma, «con il disegno autoritratto
di Hugo Pratt in divisa da matto in copertina». E subito dopo affronta i
nodi concettuali che portarono all’uscita dell’Istituzione negata.
Rapporto da un ospedale psichiatrico. È uno dei capitoli più belli del
libro, con la discussione delle contraddizioni che emersero all’interno
del gruppo e provocate dalla presenza degli ultimi due reparti ancora
chiusi, i reparti C uomini e donne.
Il libro uscì nel febbraio del
’68. E fu un successo. Slavich ricorda così la commozione di Basaglia
al momento della consegna del dattiloscritto a Einaudi: «I primi di
dicembre, un pomeriggio, Franco aspettava pazientemente in biblioteca la
consegna degli ultimi dattiloscritti. Li impilò in bell’ordine in un
faldone da ufficio, di quelli grigi con i nastrini neri subito legati a
fiocco; sollevò felice il faldone stringendolo al petto, salutò tutti,
guardandoci uno a uno con uno sguardo mite carico di affetto e
gratitudine: poi di scattò si girò e scendendo le scale a grandi balzi
s’infilò in macchina, grattò la marcia, e si precipitò a Torino».
Un’immagine fulminante.
Franco Basaglia, Conferenze
brasiliane. Nuova edizione , a cura di Franca Ongaro Basaglia e Maria
Grazia Giannichedda, Raffaello Cortina, Milano,
pagg. XI, 232, € 15
Antonio
Slavich,All’ombra dei ciliegi giapponesi. Gorizia 1961 , Edizioni
Alphabeta Verlag, Merano (BZ), pagg. 271, € 16 (Collana 180. Archivio
critico della salute mentale)