Il Sole Domenica 3.5.18
Goethe: «Sono nato quasi morto»
L’«Autobiografia»,
redatta dal 1809 al 1832, copre l’infanzia, l’adolescenza, la
giovinezza e la prima maturità. Mentre la scrive, lo scrittore diviene
un mito
di Piero Boitani
«Il 28 agosto 1749,
alle dodici in punto, venni al mondo a Francoforte sul Meno. La
costellazione era propizia; il sole, al culmine per quel giorno, era nel
segno della Vergine; Giove e Venere lo osservavano benevoli, Mercurio
non era ostile, Saturno e Marte erano indifferenti: solo la luna, ormai
piena, esercitava la forza della propria luce anteliale, tanto piú che
era entrata nella sua ora planetaria. Si oppose quindi alla mia nascita,
che poté avvenire solo quando quell’ora fu passata». Inizia così, dopo
la Premessa, la narrazione di Poesia e verità, l’autobiografia di
Goethe. A giudicare dai risultati, le congiunzioni astrali che
presiedettero alla nascita dello scrittore corrisposero alla realtà: mai
genio più grande e multiforme è venuto al mondo nella modernità. Se
Omero, Dante e Shakespeare regnano indisturbati sull’antichità, il
Medioevo e il Rinascimento, Goethe domina incontrastato il periodo
cruciale del passaggio tra l’ancien regime e la cultura che diverrà
nostra, tra Illuminismo, Classicismo e Romanticismo. Ma Goethe, che
sapeva molto bene, per averlo appreso da Cardano, Cellini, Montaigne e
Rousseau, come si compone una storia di sé, taglia immediatamente
l’affermazione che potrebbe suonare bombastica, aggiungendo: «Questa
ottima costellazione, alla quale in seguito gli astrologi attribuirono
grandi meriti, fu verosimilmente all’origine della mia sopravvivenza: a
causa dell’insipienza della levatrice infatti, quando venni al mondo fui
considerato morto e solo con reiterati sforzi riuscirono a farmi vedere
la luce». Precisa infine, come chi voglia essere pignolo con un
sorriso, che tale circostanza, «se procurò grande pena ai miei, risultò
però vantaggiosa per i concittadini, perché il nonno, il podestà Johann
Wolfgang Textor, colse l’occasione per assumere un ostetrico e per
introdurre o rinnovare la formazione delle levatrici; il che andò, in
seguito, a vantaggio di molti nascituri».
Poesia e verità è tutta
qui, quanto al tono, sin dalle prime righe: il racconto è abilissima e
amabilissima conversazione, affabulazione affascinante perché non
solenne, attenzione al dettaglio e all’atmosfera che circonda gli
eventi, alla congerie storica nella quale un uomo – il singolo individuo
– si trova a vivere. Dichiara la Premessa, citando una lettera fittizia
nella quale si sarebbe richiesto al poeta, dopo la pubblicazione delle
Opere in dodici volumi tra il 1806 e il 1808, di fornire, «inserendole
in un contesto, le condizioni di vita e gli stati d’animo che le hanno
determinate, i modelli che hanno agito su di Voi, e infine i fondamenti
teorici che vi hanno guidato». In prima persona, Goethe replica con la
propria concezione della biografia e dell’autobiografia, sostenendo che
l’obiettivo sarebbe quello di «rappresentare l’essere umano all’interno
del suo tempo, per mostrare sino a che punto l’insieme lo ostacoli e fin
dove invece lo favorisca, come egli riesca, a partire da esso, a farsi
un’idea del mondo e del genere umano, e come, nel caso sia artista,
poeta, o narratore, abbia rispecchiato questa idea verso l’esterno».
«Obiettivo tuttavia quasi irraggiungibile», glossa, «poiché presuppone
che l’individuo conosca se stesso e il suo secolo». «Quasi», appunto:
perché se c’è qualcuno che conosce se stesso e il suo secolo, questo è
Goethe, che mai lesina sforzi per obbedire all’antico motto di Delfi e
sparge in tutta Poesia e verità l’anelito di conoscenza.
L’autobiografia
– una delle tre, credo, nate da Goethe: il Viaggio in Italia, questa, e
le Conversazioni con Eckermann – fu composta lungo un esteso arco di
tempo, dal 1809 al 1832 (l’anno successivo uscirono postume le ultime
cinque sezioni) è divisa in quattro parti e venti Libri: copre
l’infanzia dal primo alla metà del sesto, l’adolescenza e la giovinezza
dalla seconda metà del sesto sino all’undicesimo, dal dodicesimo alla
fine la prima età matura. Mentre la redige, Goethe raggiunge l’età di
mezzo e poi la vecchiaia: diviene, gradualmente, un mito. Quando Poesia e
verità esce al completo, è morto. Ma è colui che ha scritto il Gotz e
il Werther, il Torquato Tasso e l’Egmont, le Affinità elettive, il
Faust, il Wilhelm Meister, il Divano, saggi critici, studi scientifici –
e innumerevoli, bellissime liriche. Come è riuscito, Goethe, a
diventare tutto questo? A essere il patriarca supremo della letteratura
tedesca e di tutta la cultura europea? Il primo a concepire una
letteratura “mondiale” o universale, una Weltliteratur vera e propria,
che travalica i confini non solo nazionali ma anche continentali?
Vivendo
intensamente, leggendo voracemente, scrivendo con una facilità
portentosa. Si prenda il Werther, questa storia di amore e malinconia
che termina nel suicidio: Goethe coglie lo “spirito del tempo” e crea
con esso il primo romanzo di formazione dell’era moderna, il quale fa
subito il giro d’Europa. Un’invenzione spettacolosa, e l’icona di tutta
un’età. L’infanzia e la giovinezza sono, naturalmente, le incubatrici di
entrambe. Della prima, sceglierei, per le differenti potenzialità, due
momenti cruciali. Il primo, quando l’autore ricorda, nel Libro I, che
«all’interno della casa, a richiamare piú di ogni altra cosa la mia
attenzione era una serie di vedute di Roma con le quali il padre aveva
decorato un’anticamera... Qui ogni giorno vedevo piazza del Popolo, il
Colosseo, piazza San Pietro, la basilica, dall’interno e dall’esterno,
Castel Sant'Angelo e altro ancora. Queste immagini esercitarono su di me
un effetto profondo...». Ecco, qui è la radice della folle corsa di
Goethe, attraversate le Alpi, per l’Italia: per giungere, con il minor
numero possibile di soste, a quella “capitale del mondo” che ha sognato
sin da bambino. È il nucleo del Viaggio in Italia, il classico dei
classici: di tutti i resoconti del gran tour. Il secondo, nel Libro IV,
sono le lezioni di ebraico e la lettura della Genesi: le vicende dei
patriarchi catturano subito «l’infantile vivacità» di Goethe: il quale
dedica ad essa una quindicina di pagine di Poesia e verità,
concentrandosi sulle figure di Abramo, Giacobbe e Giuseppe. Quest’ultima
gli appare come «un racconto naturale pieno di fascino, che tuttavia
appare troppo breve, tanto che ci si sente chiamati a raffigurarlo nei
dettagli». Detto, fatto: il ragazzo, sulle orme di Klopstock, si dà a
comporre, prima in versi poi in prosa, la storia di Giuseppe, che poi
abbandona. Ebbene, sarà proprio da queste pagine che un secolo e mezzo
dopo Thomas Mann prenderà esplicitamente spunto per concepire la
tetralogia di Giuseppe e i suoi fratelli: interrompendo a un certo punto
la composizione per creare il romanzo di Lotte in Weimar, cioè una
narrazione che vede protagonisti Charlotte von Stein e la grande ombra
del predecessore di lei un tempo innamorato. Del resto, proprio Poesia e
verità costituirà per Mann il modello sul quale costruire la parodia
delle Confessioni del cavaliere d’industria Felix Krull.
Più
tardi, nei Libri X e XI, il giovane Goethe incontra tra gli altri Herder
e Shakespeare. Il primo è figura dall’aspetto sacerdotale, tutto
vestito di nero e capelli incipriati raccolti in ciocca tonda. I suoi
occhi, sotto sopracciglia nere, sono neri come la pece, sebbene uno
appaia sempre arrossato e infiammato; il suo comportamento gentile e
delicato, salvo quando è in possesso dell’umor nero. Non concede molto
al poeta nuovo, ma questi apprende da lui un modo di pensare e di
guardare alla letteratura. Quando Goethe incontra Shakespeare, è al
saggio di Herder che rimanda. Ma, ancor più, alla reazione contro la
“francesità” proprio “al confine della Francia”: «Il loro modo di vivere
ci sembrava troppo regolato ed elitario, la loro poesia fredda, la loro
critica distruttiva, la loro filosofia astrusa e ciò nonostante
inadeguata». Viene in soccorso Shakespeare, che inizia a «godimenti
spirituali e modi di considerare il mondo più elevati, più liberi, al
contempo veri e poetici». Goethe si sente in preda alla «gioiosa
consapevolezza di un qualcosa di superiore» che aleggia sopra di lui:
con i suoi amici, si dedica a riprodurne i quibbles, a gareggiare con
l’inglese. Chi pronunciava, nel 1771, il discorso Zum Schäkspears Tag,
chi diceva «Shakespeare per sempre», era trafitto dai drammi
dell’inglese: al punto di introdurre negli Anni di apprendistato di
Wilhelm Meister una misteriosa e memorabile scena nella quale il
protagonista recita Amleto a colloquio col fantasma del padre.
Tutta
Poesia e verità è allo stesso modo piena di figurazioni e meditazioni
che anticipano il futuro rispecchiando il presente: così gli anni dello
Sturm und Drang, e gli intensi amori della giovinezza e della prima
maturità, colorano tutta l’autobiografia. Egualmente vi sono menzionati
in maniera obliqua Il Viandante e il Canto di Maometto, due delle
liriche maggiori di Goethe. A pieno titolo avrebbe potuto comparirvi il
Canto degli Spiriti sulle Acque («Anima dell’uomo, / come somigli
l’acqua! / Destino umano, / come somigli il vento!”), e soprattutto la
brevissima parabola di Ein Gleiches, Un altro: «Su tutte le vette /
regna la calma, / tra le cime degli alberi / non avverti / spirare un
alito; / nel bosco gli uccellini stanno silenziosi. / Aspetta un poco!
Presto / anche tu avrai riposo». È e non è un requiem, questo ?ber allen
Gipfeln. Goethe ha animo molteplice, e credo che ci sia una relazione
tra quello che Faust si trattiene dal dire all’attimo, «Fermati, sei
troppo bello», e le ultime parole di Goethe morente: «Più luce». La
medesima enigmatica oracolarità, lo stesso sense of an ending in
sospensione irrisolta. Ma simile, anche, alla conclusione ideale di
Poesia e Verità nelle parole di Goethe a Eckermann: «Ma se non si avesse
altro dalla vita, se non ciò che i biografi e compilatori di lessici
dicono di noi, il nostro sarebbe un gran brutto mestiere e non varrebbe
la pena di darsi tanto da fare».
La prima versione
italiana di «Dalla mia vita. Poesia e verità» di Goethe, l’autobiografia
che percorre gli anni dalla nascita nel 1749 alla vigilia della
partenza per Weimar nel 1775, venne pubblicata da Sonzogno nel 1886. Da
allora è stata periodicamente tradotta o riproposta. Ora esce una nuova
versione nella collana einaudiana de «I Millenni» (a cura di Enrico
Ganni, introduzione di Klaus-Detlef Müller, traduzione di Enrico Ganni,
Einaudi, Torino, pagg. LX-762, € 85).
Piero Boitani, lavorando
sulle bozze, ha scritto in anteprima questa recensione dell’opera che
sarà in libreria il 5 giugno. Dai primi amori alle passioni per
l’alchimia o le marionette, queste pagine di Goethe appartengono a uno
dei testi fondamentali della letteratura moderna.
Il racconto è
una amabilissima conversazione non solenne, attenta all’atmosfera che
circonda gli eventi, alla congerie storica nella quale un uomo si trova a
vivere
Gli anni dello Sturm und Drang e gli intensi amori della
giovinezza e della prima età matura colorano tutta l’autobiografia. Ed
emergela venerazione per Shakespeare