domenica 24 giugno 2018

Il Sole Domenica 24.6.18
Il «Principe» scandaloso. Il celebre trattato ebbe enorme successo europeo, ma provocò orrore per la separazione di politica e morale
Machiavelli mezzo Satana
Uno, nessuno e centomila. Un articolo su di una lettera apocrifa acclusa alla prima edizione inglese in-folio del volume Works of the Famous Nicolas Machiavel (1675), pubblicato dalla studiosa tedesca Gaby Mahlberg sulla «Intellectual History Review» induce a una ennesima riflessione sulla fortuna del nostro Segretario Fiorentino.
di Luigi Sampietro


Non si trattasse di una leggenda nera, con possibili accuse di alto tradimento, tratti di corda o anche peggio, si potrebbe pensare che le calunnie fossero solo un venticello. Ma nel caso del Principe, s’è trattato d’una tempesta, per non dire un fortunale, che si è in parte placata solamente quando è prevalsa la convinzione che sull’arte del governo Machiavelli avesse lasciato un segno simile a quello di Galileo nel campo dell’astronomia.
Prima di lui i trattati sulla politica erano stati sempre uno speculum di raccomandazioni e buoni precetti in cui dovevano riflettersi le azioni di chi deteneva il potere. Machiavelli insegnò, per usare le parole di Francesco Bacone, a tener conto di ciò che gli uomini fanno e non di ciò che dovrebbero fare, e aprì la via per una nuova scienza, la quale, in quanto tale, si sarebbe fondata sull’osservazione empirica.
Il Principe, pubblicato postumo a Roma nel 1532, ebbe un successo immenso. Ma fu un successo di scandalo. Per avere separato la politica dalla morale, divenne oggetto di obbrobrio. Vere o false che fossero le accuse, mezza Europa si strappò le vesti coprendosi gli occhi: specialmente al Nord dove, si sa, sono tutti un po’ più virtuosi.
In Francia fu attribuita alla sua nefasta influenza la strage di San Bartolomeo (1572), peraltro istigata da Caterina de’ Medici, la quale con Machiavelli non aveva niente a che vedere, ma che italiana come lui era di certo. Innocent Gentillet, un ugonotto avverso a tutti quei cortigiani venuti dalla Toscana che circolavano a Parigi, prese la palla al balzo e scrisse un libro, Contre Machiavel, che è la summa di tutto ciò che si diceva e si sarebbe ripetuto nei secoli contro di lui. Definiva il Principe come un manuale pratico per i tiranni e lo paragonava, quanto a immoralità, al Corano di Maometto.
In Italia era stato messo all’Indice nel 1558 e per tutto il periodo della Controriforma fu il bersaglio preferito nella polemica antimachiavellica condotta dai gesuiti. Ma, tra un insulto e una accusa di ateismo, la controversia si fece confusa. Il cacciatore finì nella rete e a essere accusati di machiavellismo furono spesso gli stessi gesuiti, a partire da Ignazio di Loyola.
Nell’Inghilterra di Elisabetta le cose andarono anche peggio. Una tragedia grottesca e sanguinaria che aveva come protagonista un ebreo di nome Barabba fu presentata sulla scena da un Machiavelli redivivo che recitava il prologo. E in genere il teatro e le compagnie di giro, che erano i media dell’epoca e che si rivolgevano a un pubblico che perlopiù non sapeva leggere, fecero da cassa di risonanza alla leggenda nera. Machiavelli entrò in tutte le salse e il suo nome divenne il comune denominatore per ogni sorta di delitti politici. Nei libri, sulla scena e nelle taverne.
Sulla bocca di chi nemmeno sapeva dove fosse l’Italia, le parole «Machiavellic» e «Machiavell», dopo un paio di boccali di birra tiepida, finivano per confondersi con make evil; o, anche, come ha osservato Alessandra Petrina nel suo Machiavelli in the British Isles (Ashgate) con Mitchell Wylie: figura «simile a quella del Vizio nei drammi medievali inglesi». Ma basterebbe un’occhiata alla storia d’Inghilterra e a qualche dramma di Shakespeare, magari il Riccardo III, per rendersi conto che tutto il mondo è paese; e che trabocchetti, delitti, inganni e violenza non sono una esclusiva del nostro passato. Un paio di cose vanno però precisate. La prima è che ciò che Machiavelli mise per iscritto, gli uomini di potere lo avevano sempre saputo e messo in pratica. E la seconda è che la sua orrenda fama altro non era, specie in Inghilterra, che una scusa patriottica e una valvola di sfogo. Il Principe, Machiavelli, gli ebrei, Barabba, l’Italia, Roma e l’Anticristo sono sempre stati un astratto capro espiatorio – l’Altro – su cui riversare di tutto.
La bufera vera e propria aveva avuto inizio nell’inverno del 1538, quando il cardinal Reginald Pole, un inglese fedele alla Chiesa cattolica, era andato a Firenze da Roma, dove viveva in volontario esilio dopo il divorzio di Enrico VIII da Caterina d’Aragona. Machiavelli era morto da dieci anni, ma Pole – scrive Erica Benner nel suo Esser volpe. Vita di Niccolò Machiavelli (Bompiani) – non vedeva l’ora di poter leggere il libro su cui Thomas Cromwell, il consigliere del re di cui lui sospettava, aveva profuso le proprie lodi durante il loro ultimo incontro. Il Principe lo avrebbe aiutato a capire quello che stava succedendo nel suo Paese, dove lo stesso Cromwell «aveva ordito l’assassinio di preti e di nobili» e aveva sempre trovato pretesti ipocriti per giustificare i propri misfatti.
«Quando cominciai a leggere quel libro» ebbe a scrivere più tardi Pole nella sua Apologia ad Carolum Quintum (1539) «vi riconobbi subito la mano di Satana». Personaggio che, guarda caso, in Inghilterra veniva a quei tempi chiamato con il nomignolo di Old Nick. Un tipaccio che era sempre riuscito a far credere alle menti più illuminate di non esistere nemmeno, e che finì per rovinare la reputazione di un onest’uomo che aveva scritto il Principe nel 1513, in esilio, dopo il ritorno dei Medici a Firenze, e che per occupare il tempo e per raccogliere le idee, aveva messo a frutto le conoscenze acquisite in tanti anni di attività – dal 1498 al 1512 – come segretario della Repubblica fiorentina e come diplomatico.
Dopo l’elezione a pontefice di Giovanni de’ Medici, Machiavelli ebbe l’agio di pensare in grande, guardando oltre i colli della Toscana, e in lui individuò l’uomo giusto per la redenzione di un’Italia che vedeva «spogliata, lacera, corsa» (cap. XXVI). Le cose non andarono come aveva sperato e il libro che ne venne fuori è resistito nei secoli come lettura proibita e quasi scurrile per chi volesse documentarsi sui vizi di cui gli uomini sono capaci.
Il Principe, dice infatti Machiavelli, è come «la golpe» e come «il lione». Astuto e coraggioso, rapido e temerario, e risoluto. Aggredisce e uccide, simula e blandisce, per garantire una vita operosa e tranquilla alla propria città. Spietato quando conviene e alieno da qualsiasi cedimento o passione che non sia l’amore per ciò che lui stesso rappresenta – la res publica, il bene di tutti – il Principe è il severo custode dell’interesse comune, e incarna una furibonda e raggelata volontà di rimanere a galla con la propria gente.
Libro pragmatico e patriottico, è improponibile come manuale per un futuro capo di Stato, ma perfetto per chi voglia tenere a mente – seppur sottobanco – una massima aurea del suo biografo e allievo Giuseppe Prezzolini; e, cioè, che «le nazioni che hanno dimenticato il conquistare, impareranno l’esser conquistate». Altro non v’è nella valle di lacrime in cui vige da sempre la legge del più forte. E per questo gli uomini di buona volontà, a partire dal Foscolo e, ancor prima, da Giuseppe Baretti, hanno letto nel Principe non un’apologia della tirannide ma il disvelamento dei suoi orrori per indurre i sudditi a ribellarsi.
E forse sopra ogni altra cosa è un capolavoro per la qualità della scrittura e uno di quei monumenti, come l’Amleto e il Chisciotte, il Malato immaginario e l’Avaro, Eugenia Grandet e i Fratelli Karamazov, nonché – perché no? – come i Promessi sposi, che raccontano la nostra avventura e sfidano il tempo.

Il Sole Domenica 24.6.18
Grandi classici. Antonio La Penna dispiega l’intero arco della vita e delle opere ovidiane così intimamente intrecciate fra loro. E conferma che la poesia del Sulmonese fu veicolo di diletto, emozioni e sensazioni
Ovidio s’abbandonò agli «Amores»
di Carlo Carena


Pochi poeti hanno conosciuto una fortuna così ampia e continua fra i lettori e gli studiosi come Ovidio. Vi si appassionarono gli entusiasti delle imprese eroiche e degli intrighi dei salotti, i cultori delle fantasie mitologiche e gli osservatori dei calendari, scrittori sventurati e cicisbei come lui. Pierre Bayle nel profilo che traccia in parecchie pagine del Dictionnaire historique, fra imbarazzato e insicuro in mezzo a tante cose, comincia col dirlo dedito furiosamente ai piaceri venerei e, non pago di ciò e forte di eccezionali attitudini e di vastissime esperienze personali, ad ammaestrare gli altri nell’arte di amare e di farsi amare, erigendo a sistema «una scienza perniciosa» di cui già la natura stessa impartisce fin troppe nozioni e che «ha per fine il disonore delle famiglie, principalmente dei poveri mariti».
E poiché egli fin da giovane ebbe una capacità altrettanto straordinaria di versificazione, per cui gli riusciva più spontaneo parlare in versi anziché in prosa, egli trattò altri generi poetici ancora, oltre a quello erotico-sentimentale: il lamento querulo e la triste elegia, la novella e la satira e l’immensa cupola delle favole mitologiche, nelle Metamorfosi, ritenuta da lui stesso «la sua opera più bella, e alla quale affidò principalmente l’immortalità del suo nome».
Si ripensa e si ritrova tutto ciò nelle folte pagine che al poeta di Sulmona dedica, nella prima parte del secondo volume di un panorama della letteratura latina nel regno di Augusto (il primo volume è del 2013) un maestro della poesia latina augustea, Antonio La Penna.
Il sottotitolo tradisce anche il suo imbarazzo di fronte al protagonista: Relativismo dei valori e innovazione delle forme. In Orazio e l’ideologia del principato, opera di polso straordinario, del ’63, La Penna indicava Ovidio come uno degli autori, o dei responsabili per e con la frivolezza, di quello «svuotamento degli ideali della vita pubblica» proprio del suo tempo come di altri nel corso della storia. Qui, «dopo una vita di studi», ripetutamente ovidiani (l’edizione critica dell’Ibis è del ’57), e pur riconoscendo certi eccessi nelle proprie riserve verso quella poesia, La Penna ne ribadisce la debolezza e l’inferiorità rispetto al contemporaneo Virgilio, con cui spesso è posto a confronto, per la loro visione della poesia e della sua funzione: la poesia come un bisogno irresistibile di comunicare valori morali e religiosi, sentimenti e ideali, oppure come un veicolo di diletto e di meraviglie, semplici emozioni e sensazioni. La prima schiera è anche quella di Lucrezio e Dante, Shakespeare e Leopardi, la seconda, col Nostro, di Marino e dei romanzi rosa e di avventure, una letteratura di semplice intrattenimento, del passato e di oggi, che soddisfa essenzialmente il bisogno dell’uomo, dell’autore non meno che del lettore, di diletto e svago.
Certo nell’opera ovidiana ci fu molto di nuovo e di proiettato appunto per sua natura nel futuro letterario e anzi dell’arte tout-court, pittura, scultura eccetera. Fu un’intuizione della sua sensibilità, che introdusse nell’universo plastico e tetragono del classicismo i brividi delle passioni e delle creazioni individuali. Il volume di La Penna dispiega l’intero arco della vita e delle opere ovidiane, così intimamente intrecciate fra loro da esserne un reciproco specchio e motore; le accompagna, l’una e le altre, con la critica filologica più agguerrita, con puntualità di dati e di date, e col vigore della parola descrittiva e critica. I sottotitoli dei capitoli sono essi stessi incisivi e significativi, indicando valori e difetti, certezze e difficoltà: Il tramonto dei valori assoluti dell’eros; La banalizzazione del pathos e Lo stile per una poesia moderna negli Amores; Un nuovo genere letterario e Lo sperimentalismo di Ovidio per le lettere amorose delle Heroides; Pathos e sensualità per l’Ars amatoria. A cui seguono alcune pagine amene sulla vita galante di Roma in quell’età, raccomandabili esse stesse, come La Penna raccomanda quell’opera ovidiana «a chi si annoia (per ragioni più che comprensibili) a seguire il galateo amoroso dell’Ars».
E così avanti di pari passo alle Metamorfosi in tutte le loro trame e articolazioni, frutto del piacere del novellare e dello spettacolare, del costruire e dello stupire, dell’emozione dell’orrido; poi ai Fasti, «una meravigliosa serie di arazzi» ispirati e ricamati col medesimo piacere di raccontare delle contemporanee Metamorfosi, e dove la storia di Roma – anche lì – attrae il poeta finché dura l’età favolosa, quella dei Sette Re, per incanalarsi meno sentita nel resto, della storia vera e propria. Infine, pietosa conclusione, la poesia dell’esilio fra i geli e i barbari del Mar Nero piombato come un fulmine a ciel sereno sul poeta nell’8 dopo Cristo e durato implacabilmente fino alla morte dieci anni dopo.
Quale posto assegni tutto ciò al Sulmonese nella poesia latina al suo apice è indicato da La Penna in una pagina, sintesi quasi anticipata di questa summa, negli sbrigliati Aforismi e autoschediasmi (1958-2004), del 2005. Ovidio, vi si legge, impersonò nel classismo augusteo la «fregola della modernità. Sentiva come un vecchiume la morale arcaizzante del regime, sperimentava forme nuove; ma lo svuotamento dei vecchi valori non significava affermazione di nuovi valori impegnativi, passione di lotta per il cambiamento; era il passaggio alla leggerezza, al gioco dell’ingegno, nel migliore dei casi dell’immaginazione, non lontano dalla futilità». Per cui alla fin fine ed esperito ogni tentativo, se pur Ovidio «nella letteratura dell’intrattenimento ha pochi eguali ed è stato nel suo genere un maestro per i poeti moderni, dopo aver trovato molte buone ragioni per valorizzarlo, preferisco di gran lunga leggere Virgilio». Il tutto detto in un contesto nel quale l’Autore sta parlando della modernizzazione e dei suoi slogan nel nostro tempo.
Ovidio
Antonio La Penna
Edizioni della Normale,
Pisa, pagg. 432, € 40

Il Sole Domenica 24.6.18
Dizionari
I Pensatori si sono dimenticati di Leopardi
di Armando Torno


Libro biblico di Qohélet, in greco E€cclesiaste: «Né di un sapiente né di un idiota avrà memoria il tempo» (2,16). La versione riportata è di Guido Ceronetti. Traduce con “tempo” l’ebraico yamîm ba’ îm, i giorni che verranno, o futuro che si voglia dire. Parlando di questo passo con Gianantonio Borgonovo, ebraista ed esegeta ferratissimo, notava che il testo biblico va inteso «nel senso di concretezza della vita». L’intuizione di quell’autore sapiente, che all’inizio del librino della Scrittura si finge Salomone, prosegue nelle righe successive per ripetere che tutto sarà dimenticato. Come dire: inutile illudersi, siate concreti.
È possibile rammentare cose del genere a chi crede di essere eterno? A personaggi che si sono convinti, da soli o con l’aiuto di qualche altezzoso consigliere o di libri vanitosi, di lasciare con la propria vita una traccia indelebile nel mondo? E pensare che quel mattacchione di Michel de Montaigne, chiuso nella biblioteca del suo castello come Giona nel ventre della balena, sosteneva - lo parafrasiamo – che i cimiteri sono pieni di persone indispensabili. Che menagramo, sussurrerà qualche personaggio di successo, insieme ai suoi compiacenti corteggiatori!
Tutte queste disordinate supposizioni ci sono servite per meglio comprendere le scelte di un dizionario di pensatori uscito a Parigi, presso l’editrice Honoré Champion. Gli autori, Christophe Schaeffer e Richard Escot, conoscitori del mestiere e tutt’altro che sprovveduti, hanno scelto cento figure da presentare, dall’antichità a oggi. Insomma, quel manipolo di eccellenze mentali che meritano di essere salvate dall’oblio. Ogni voce presenta vita, contesto, prospettive e ricorda l’opera grazie a cui l’immortale in questione avrebbe diritto di esserlo.
Chi scrive non se la sente di criticare l’impianto dell’opera, che tra l’altro si potrebbe condividere senza particolari sforzi. Si limita soltanto a notare che l’Italia è presente con sei figure: Tommaso d’Aquino, Guido d’Arezzo (l’ideatore della moderna notazione musicale), Cesare Beccaria (l’ultimo in ordine di tempo), Giordano Bruno, Niccolò Machiavelli, Leonardo da Vinci. Galileo è ampiamente citato ma non ha una voce tutta sua, di Croce, Gentile e Gramsci nemmeno un cenno; un ricordo (uno solo!) però se l’è guadagnato Tommaso Campanella a pari merito con Pico della Mirandola. Il silenzio avvolge Giacomo Leopardi e Giambattista Vico.
Non continueremo a elencare mancanze e presenze, anche perché dovendo salvare cento testimoni dell’umanità pensante i due autori sono stati costretti a scelte crudeli. Tuttavia, questa loro selezione potrebbe essere utilizzata come manuale per rintuzzare il proprio orgoglio o certe prospettive esagerate che si fanno con la storia delle idee. Chi conta veramente? Chi resterà? Escot e Schaeffer offrono una loro risposta, che potranno cambiare in un’altra edizione; di certo dobbiamo convincerci che tutti gli sforzi da noi compiuti per lasciare una traccia nel futuro non meritano la fatica richiesta. Louis Ferdinand Céline, impietoso con i lettori e con se stesso, nel libello L’école des cadavres ha scritto con lucida irriverenza: «Di noi se si conserverà la parola merda sarà già una gran cosa». Aveva ragione? E chi se la sente di dargli torto?
Morale della storia: un dizionario di pensatori, nato da un gioco intellettuale, ricorda che viviamo gonfi di pretese. Il futuro sceglierà, senza i nostri consigli, chi conservare e chi dimenticare. Caso mai conviene non scordare un altro passo di Qohélet (1,18): «Grande sapienza è grande tormento/ Più intelligenza avrai/ più soffrirai».
Dictionnaire des penseurs
Christophe Schaeffer
Richard Escot
Honoré Champion,
Parigi, pagg. 352, € 22

Il Sole Domenica 24.6.18
Umanesimo. Esce un’edizione del «Commentarium» sulle «Epistole di San Paolo», uno dei testi meno noti e studiati di una personalità di prima grandezza del Quattrocento
La lezione di Marsilio Ficino
di Michele Ciliberto


È un contributo importante questa edizione del Commentarium di Marsilio Ficino sulle Epistole, uno dei testi meno noti e studiati di una personalità di prima grandezza della cultura filosofica fiorentina del secondo Quattrocento sia per i suoi testi filosofici che per l’immensa attività di traduzione.
Ficino mise a disposizione degli studiosi una intera biblioteca, entro cui spiccano i nomi, tra gli altri, di Platone e di Plotino, presentati in traduzioni che erano vere e proprie interpretazioni. Una volta Eugenio Garin osservò, giustamente, che il Platone circolato nella cultura europea per molti secoli non era, semplicemente Platone, ma il Platone di Ficino.
Mettere dunque in circolazione un testo come questo, e in una edizione affidabile, è già una iniziativa importante. Ma il curatore premette al testo anche una lunga introduzione che è un vero e proprio saggio su Ficino, mettendone in luce anche aspetti meno considerati, o ignorati, come il lavoro di ordine specificamente testuale che fece nel Commentarium , proponendo lezioni che sarebbero arrivate fino ad Erasmo da Rotterdam, come avviene nel caso di Romani, 1, 29: qui è Ficino ad affiancare al Deo odibiles la lezione oseres Dei .
Conti ha anche il merito di situare il Commentarium nel quadro di una riflessione che muove da una delle opere più importanti di Ficino, il De vita coelitus comparanda , collocandolo nell’ambito della vivacissima discussione filosofica e religiosa della Firenze della seconda metà del Quattrocento, nella quale agiscono figure di primo piano. E fra esse si muove - converrà ricordarlo - anche il giovane Machiavelli che, proprio negli anni in cui Ficino lavora al Commentarium, è impegnato nella trascrizione di tutto il De rerum natura di Lucrezio, autore per lui sempre fondamentale e la cui incidenza nel suo pensiero non può essere, come a volte accade, sottovalutata.
In quell’ambiente gli interessi per Epicuro e per Lucrezio non sono però una eccezione: proprio Ficino, nel 1497, in una edizione aldina, insieme ad altri testi, pubblica il suo giovanile De voluptate, risalente al gennaio del 1458, nel quale, svolgendo una analisi precisa delle varie forme di voluptates, giunge a una considerazione positiva della morale epicurea, congiungendola a una celebrazione della metafisica platonica.
In questo contesto uno degli aspetti più interessanti dell’introduzione è l’attenta analisi dei rapporti tra Ficino e Savonarola, che furono, come si sa, assai complessi. Conti sottolinea come Ficino - e questo appare con chiarezza dalla lettera a Giovanni Cavalcanti del 12 dicembre del 1494 - fosse schierato, a quella data, dalla parte di Savonarola, riconoscendo la necessità ciclica dell’avvento dei profeti e la funzione della profezia e della religione per il buon funzionamento della società. Ma mette anche in evidenza, con buoni argomenti, che il Commentarium non deve essere visto come una replica alla polemica antiastrologica di Savonarola. Per Conti occorre ridimensionare l’«importanza del contesto savonaroliano nell’ottica di un inquadramento storico del Commentarium», recuperando «uno spettro cronologico e culturale più ampio».
Il Commentarium fu l’ultimo progetto di Ficino, e fu messo in cantiere con una serie di letture pubbliche sui testi di Paolo tenute nel capitolo della cattedrale di Firenze, rivolte ai confratelli dei Collegio dei canonici del Duomo. Avrebbe dovuto riguardare, almeno questo era il progetto originario quale risulta dal Proemio, tutte le lettere di Paolo; il suo modello di riferimento è la Lectura super Epistolam B.Pauli di Tommaso d’Aquino; non è riducibile, si è già visto, a un impulso polemico, anche se i principi della riforma del platonismo e del neoplatonismo ai quali Ficino si ispirava entravano certamente in contrasto con i principi della riforma propugnata da Savonarola.
C’è però un altro punto che va sottolineato, specie se si tiene conto del rilievo centrale delle Epistole nel dibattito, anzi nello scontro, religioso che coinvolge, e insanguina, l’Europa di lì a poco con l’esplodere della Riforma protestante.
Come è noto, le lettere di Paolo sono fondamentali nella concezione della justitia sola fide proposta da Lutero, ed è anche intorno all’insegnamento di Paolo e in modo particolare della Epistola ai Romani che si apre, e si consuma, il conflitto tra Erasmo e Lutero, come si vede leggendo da un lato il De servo arbitrio luterano, dall’altro il De libero arbitrio erasmiano.
Tutte le discussioni sulla provvidenza e la giustizia divina, sulla predestinazione, sul rapporto tra la fede e le opere, sulla giustificazione per sola fede hanno per riferimento i testi paolini, che sono il terreno principale di uno scontro durissimo intorno alla concezione dell’uomo, della volontà umana, della sua stessa libertà: in sintesi, sul piano religioso come quello antropologico, l’Epistola è al centro di tutto questo, in positivo e in negativo. Quando Bruno attacca il cristianesimo è contro Paolo che si scaglia, individuando in lui la prima radice della degenerazione del mondo che, passando attraverso Agostino, si è conclusa con Lutero: la «difformatissima riforma».
Ficino appartiene a un mondo, a un’epoca diversa, si muove in un altro orizzonte, non ha interesse per «alcuni temi centrali della teologia paolina». E lo conferma il modo con cui si confronta nel Commentarium con il concetto di sola fides, quale pure stato espresso nelle ultime righe del De christiana religione: l’«approfondimento» del concetto di sola fides, sottolinea Conti, nel Commentarium è del tutto assente.
È un dato importante, sia per verificare la concezione che Ficino ha della fides proposta nel De christiana religione - priva di riferimenti alla concezione cristiana della giustificazione -; sia per segnare le profonde differenza fra esponenti di primo piano della «spiritualità» umanistica – nel senso ampio del termine – e il mondo religioso e teologico della Riforma.
Entro pochi decenni molte cose sarebbero cambiate, ma Ficino avrebbe continuato ad essere al centro dello scrittoio dei maggiori intellettuali europei, che si sarebbero serviti lungo i secoli delle sue traduzioni, o, come si è visto nel caso di Erasmo, avrebbero ripreso le sue proposte ecdotiche.
È stata dunque un’opera meritevole aver messo in circolazione un testo importante come questo: è anche un segnale importante della ripresa di interesse per l’Umanesimo e il Rinascimento dopo un lungo periodo di crisi. Oggi il vento è cambiato: l’Umanesimo sta tornando al centro dell’attenzione. E, lo testimoniano studiosi come Conti, una nuova generazione si sta mettendo al lavoro.
Ma, per potersi sviluppare, questi studi hanno bisogno di poter contare su testi importanti e attendibili, e su istituzioni ed editori che siano disposti a impegnarsi in imprese difficili. Come dimostra questo bel volume, a volte - e in questo caso si può dire - la congiunzione degli astri può essere favorevole.

Commentarium
in Epistolas Pauli
Marsilii Ficini Florentini
a cura di Daniele Conti, Nino Aragno Editore, Torino, pagg. CDLXIV-234, € 30

Il Sole Domenica 24.6.18
Evoluzionismo e neuroscienze. Gerald Edelman teorizzò quanto le esperienze del mondo e quelle interiori modifichino le strutture nervose arrivando a una spiegazione plausibile dei meccanismi alla base dell’esistenza
Come la vita ci cambia il cervello
di Arnaldo Benini


Il libro di Edelman, del 1987, rimane un testo fondamentale sull’organizzazione morfologica e funzionale del sistema nervoso centrale umano, anche se non tutte le sue ipotesi sono state confermate. Nel 1995 fu pubblicato da Einaudi ed ora l’editore Cortina, opportunamente, lo ripropone, in una traduzione parzialmente rivista dallo stesso curatore dell’edizione precedente. Una concezione generale del sistema nervoso centrale, ammoniva la grande biologa Agnes Arber nel prezioso, ed oggi dimenticato, saggio The Mind and the Eye del 1954 (pubblicato in italiano da Vallecchi nel 1991), deve spiegare come le percezioni diventino parte delle attività psichiche e fisiche. Ciò è tanto più complesso in quanto l’integrazione comporta la conciliazione di tendenze opposte, ad esempio l’insicurezza nel prendere una decisione, i contrasti fra desideri, tendenze, opzioni, concezioni, principi, ecc.
La visione generale rigidamente riduzionistica di Edelman si basa sul principio che la natura individuale di ciascuno di noi rispetta un’organizzazione neurale geneticamente preordinata, che gli stimoli sensoriali e l’intera e poliedrica esperienza modificano nel corso della vita. Secondo il population thinking, il pensiero popolazionale, fondamento della biologia che risale ad osservazioni di Darwin e che Edelmam segue rigorosamente, ogni essere vivente pluricellulare è diverso da tutti gli altri e la selezione naturale agisce non sulla specie in astratto ma sui singoli individui. La singolarità dipende dai geni e dall’epigenesi. Come una percezione di qualsiasi natura entri a far parte della coscienza e ne modifichi i meccanismi nervosi influenzando epigeneticamente il nostro modo di essere e la mente sono il tema del poderoso studio del premio Nobel per la medicina del 1972 per scoperte fondamentali di genetica. I suoi contributi alle neuroscienze cognitive non sono meno rilevanti.
Uno dei compiti chiave del sistema nervoso è, per Edelman, di realizzare la categorizzazione percettiva e di raccordo del mondo non ancora esplorato. Già Jean-Pierre Changeux aveva avvertito che la complessità del genoma non era sufficiente a chiarire l’immensa complessità delle connessioni del sistema nervoso, che non possono non essere parzialmente attribuite ad eventi epigenetici. Lo sviluppo del sistema nervoso centrale e la sua capacità di modificarsi morfologicamente per via epigenetica secondo l’esperienza sono processi di selezione continua di gruppi di neuroni preordinati e delle loro connessioni sinaptiche in risposta agli stimoli, alle sollecitazioni, alle costrizioni, cioè agli inputs dell’esperienza. La struttura del cervello, che ci fa essere ciò che siamo, cresce, si modifica e si sviluppa entro i tralicci generali della base genetica senza un progetto predeterminato, per la duttilità del parenchima corticale di modificarsi secondo l’esperienza (neuroplasticità). Ogni percezione, per Edelman, è un processo di adattamento più che di conoscenza e veridicità. Esso seleziona all’interno di repertori primari costituiti da reti di neuroni combinazioni di gruppi neuronali la cui attività è la più congruente con ciò che è percepito. Per Edelman le percezioni sono atti creativi, perché, selezionando le strutture nervose congenite più consone all’ambiente e alle circostanze, modificano continua mente la struttura del cervello, e quindi il pensiero e la vita. La competizione selettiva che governa la natura regola l’organizzazione morfologica dei tessuti, e quindi anche la corteccia cerebrale. La selezione durante l’esperienza è principalmente dovuta ad un’amplificazione differenziata di popolazioni sinaptiche, grazie al rafforzamento di alcune di loro e all’indebolimento di altre, senza grossolani mutamenti anatomici. I gruppi neuronali più adatti all’ambiente, cioè quelli selezionati dagli impulsi dell’esperienza, si collegano più strettamente, in competizione con altri gruppi neuronali meno consoni alle condizioni di vita. Le percezioni prevalenti inducono un rafforzamento selettivo delle mappe neuronali più utili per affrontare la realtà. L’esperienza del mondo e le esperienze interiori (riflessioni, meditazioni, convinzioni, stati emotivi, ecc.) modificano continuamente la struttura cerebrale, potenziando le strutture nervose più congruenti con l’esperienza e con le sue esigenze. Da qui il nome, azzeccatissimo, di darwinismo neurale. Il modello dinamico della morfologia e del funzionamento del cervello spiega come il significato di uno stimolo sia diverso da persona a persona, dal momento che le esperienze di ciascuno di noi, che hanno selezionato gruppi neurali diversi, sono uniche. Da qui la nostra singolarità.
Lo stesso vale per la memoria, evento chiave della coscienza, che, secondo Edelman, è un’ininterrotta ricategorizzazione del passato in aree cerebrali continuamente ristrutturate dall’esperienza. Da ciò la contemporaneità con cui riviviamo il passato secondo ricordi - che sono eventi chimico-fisici - che cambiano col cambiare delle strutture in cui sono depositati. Tutto quanto facciamo, materialmente e mentalmente, è una continua riorganizzazione unidirezionale. Anche se lo volessimo con tutte le forze, non ci è consentito di cancellare il nostro passato e di ripartire da zero: ci modifichiamo continuamente rimanendo noi stessi.
L’educazione seleziona e potenzia quanto nel cervello è geneticamente presente, e non di più: chi, ad esempio, non ha talento musicale, può studiare musica fino all’esaurimento senza risultato. Il grande impatto della teoria di Edelman sulla cultura non solo scientifica è dovuto alla plausibilità delle spiegazioni di meccanismi fondamentali dell’esistenza. Non cede alla tentazione di spiegare l’autocoscienza umana: ne descrive le strutture nervose in cui essa avviene e il loro sviluppo, ma non la natura di evento biologico. Essa rimane preclusa all’umana conoscenza, perché prodotto dagli stessi meccanismi cognitivi che l’indagano.
La rilettura, non sempre agilissima, del libro di Edelman è ancora oggi un’esperienza molto proficua.

Darwinismo neurale La teoria della selezione naturale
dei gruppi neuronali
Gerald M. Edelman
Raffaello Cortina, Milano,
pagg. 534, €36

Il Sole Domenica 24.6.18
Robert Gerwarth. Alla conferenza
di Parigi si disse che il mondo era diventato
sicuro per la democrazia: non fu così
Niente pace dopo la Grande Guerra
di Emilio Gentile


«Entrambe le parti, vincitori e vinti, erano distrutte. Tutti gli imperatori e i loro successori erano stati uccisi o deposti (...). Erano tutti sconfitti, tutti duramente colpiti; tutto quel che avevamo dato era stato vano. Nessuno aveva ottenuto nulla (...). I sopravvissuti, i veterani di tante battaglie, ritornarono alle loro case, portando l’alloro della vittoria o la notizia del disastro, e le trovarono già travolte dalla catastrofe». Robert Gerwharth, berlinese di nascita e docente di Storia contemporanea nell’Università di Dublino, ha premesso questa citazione di Winston Churchill come epigrafe nella introduzione al libro La rabbia dei vinti. Ad essa segue una citazione di Ernst Jünger: «Questa guerra non è la fine, bensì l’inizio della violenza. È la forgia nella quale verrà plasmato un mondo con nuovi confini e nuove comunità. Nuovi stampi richiedono di essere riempiti col sangue, e il potere sarà esercitato con pugno di ferro».
Fra la citazione di Churchill, nello stile eloquente e drammatico dello statista britannico, e la citazione di Junger, nel sentenzioso stile profetico dello scrittore tedesco che fu giovane volontario combattente nella Grande Guerra, valoroso e pluridecorato, è la seconda la più appropriata ad anticipare il tema di Gerwarth. La citazione di Churchill, con la sua concisione drammatica nell’evocare una catastrofe che travolse tutti i popoli europei nella Grande Guerra, è certamente efficace, ma restituisce una immagine in realtà molto parziale di quella che fu l’esito della Prima guerra mondiale. Certamente, fu distrutto l’orgoglio condiviso fino al 1914 dai futuri vincitori e vinti della Grande Guerra, cioè l’orgoglio di appartenere al continente che allora dominava il mondo possedendo, sotto le bandiere delle sue potenze imperiali, oltre l’80 per cento delle terre emerse, con primati assoluti in tutti i campi dell’attività umana, dall’economia alla cultura, dalla scienza alle armi. Certamente fu distrutta la presunzione condivisa da vinti e vincitori, che negli ultimi trent’anni si erano gloriati di aver costruito una ricca, potente, splendida civiltà universale, che avrebbe guidato l’intera umanità sulla via del progresso alla luce della ragione.
Ma, a parte queste perdite comuni, solo i vinti, in realtà, furono duramente colpiti e persero tutto. Invece i vincitori, Francia e Gran Bretagna sopra tutti, anche se avevano avuto milioni di perdite umane e sperperato ingentissimi beni materiali per nutrire la Grande Guerra, ottennero moltissimo alla Conferenza della pace nel 1919: ampliarono al massimo i loro possedimenti coloniali, e imposero ai vinti la perdita delle colonie, lo smembramento dell’impero, la riduzione delle forze armate a un esercito appena simbolico, e infine infierirono sulla Germania, alla quale fu ufficialmente attribuita, con l’esibizione di una ipocrita giustizia internazionale, la colpa di aver scatenato la guerra, e la umiliarono col ridurla all’impotenza, addossandole una tale mole di riparazioni da pagare ai vincitori, che avrebbe costretto i tedeschi a lavorare per oltre mezzo secolo solo per saldare il debito imposto.
Fu detto a Parigi, nel momento di dichiarare la pace, che il mondo era diventato sicuro per la democrazia. Ma osservatori realistici, come l’economista inglese John Maynard Keynes e l’economista, nonché politico, italiano Francesco Saverio Nitti, intuirono subito che le decisioni dei vincitori avrebbero innescato gli esplosivi di nuove guerre. Con la comprensione dello storico, che non si avvale del senno del poi per ergersi a giudice, ma forse con un po’ d’indulgenza, Gerwarth riconosce che a Parigi gli artefici della pace furono spesso costretti ad accettare nuove realtà, «che erano già state create di fatto sul campo, limitandosi al ruolo di giudici fra le contrastanti ambizioni delle varie parti in causa». Resta comunque il fatto che i vincitori non riuscirono a realizzare l’obiettivo fondamentale della conferenza di Parigi, cioè «la creazione di un ordine mondiale sicuro, pacifico e duraturo».
Ma questa constatazione pone una questione cruciale: era realisticamente possibile creare un ordine mondiale pacifico e sicuro, nelle condizioni in cui, alla fine della Grande Guerra, si trovava l’Europa centro orientale, dalla Germania alla Russia, dalla Finlandia alla Grecia? Raccontando la storia d’Europa dal 1917 al 1923, Gerwarth dimostra che la creazione di un mondo pacifico e sicuro era una illusione. Con l’aggravante, aggiungiamo noi, che a renderla definitivamente tale, comprese le conseguenze tragiche che seguirono, concorse la brama imperialista delle potenze europee vincitrici. La conferenza di Parigi non portò affatto la pace in Europa. Fu una pace senza pacificazione. E ciò non solo perché tutto il continente, nei Paesi vincitori come nei vinti, fu sconvolto da disordini, tumulti, scioperi e conati rivoluzionari, dovuti alle depresse condizioni economiche e sociali provocate da cinquantadue mesi della guerra più feroce e distruttiva mai combattuta sul continente europeo. Fu una pace senza pacificazione perché, mentre l’11 novembre 1918, i cannoni avevano cessato di sparare sul fronte occidentale e sul fronte italiano, la guerra, anzi le guerre continuarono senza sosta in tutti i Paesi dell’Europa centrale e orientale. Furono guerre fra Stati, guerre rivoluzionarie, guerre civili, che raggiunsero spesso livelli di ferocia, specialmente verso le popolazioni civili, raramente raggiunti durante la Grande Guerra. Con una narrazione a tratti raccapricciante, nelle pagine che descrivono le situazioni più crudeli delle guerre del dopoguerra, Gerwarth, fa conoscere al lettore la tragedia immane che, dopo la già immane ecatombe della Grande Guerra, tenne a battesimo, nella violenza e col sangue di milioni di morti, la nascita dell’Unione Sovietica, degli Stati nazionali dell’Europa orientale, della Turchia repubblicana, degli Stati arabi del Medio oriente. Per le popolazioni di questi Stati, dall’inizio della rivoluzione bolscevica in Russia fino alla firma del trattato di Losanna, il 24 luglio 1923, fra le potenze dell’Intesa e la Turchia di Mustafa Kemal, la guerra iniziata nel 1914 finì soltanto nove anni dopo.
Siamo per questo tentati di pensare che non sia stata la citazione di Churchill, ma la citazione di Junger a suggerire allo storico di esplorare le guerre del dopoguerra dal 1917 al 1923, per arrivare a constatare alla fine come, per «una certa tragica ironia della storia», nel centenario del primo conflitto mondiale, vi siano nel mondo attuale «questioni sollevate ma non risolte dalla Grande guerra», le cui «immediate ripercussioni ci accompagnano ancora oggi». Accade, forse, perché la storia è sempre ironica, sebbene qualche volta possa non esser tragica.
La rabbia dei vinti. La guerra
dopo la guerra 1914-1923
Robert Gerwarth
traduzione di David Scaffei, Laterza, Roma-Bari, pagg. XXIV, 421, € 28
Iniziato nel 1914, il conflitto si concluse solo 9 anni dopo con la firma del trattato di Losanna

Il Sole Domenica 24.6.18
Eva Cantarella. La lezione di Omerosulla capacità di autodeterminazione
Tra libertà dagli dèi e volontà umana
di  Eva Cantarella


Potrà sembrare singolare che per parlare del potere della libertà ci si rivolga a Omero, tornando indietro di alcuni millenni. Ma per rendersi conto di quale sia la rilevanza di quel potere nelle nostre vite è necessario tornare col pensiero al momento in cui la libertà nacque. E l’unica possibilità per farlo è rivolgersi ai poemi omerici, che documentano quando e come, nella cultura occidentale, quel momento si verificò. Ma prima di farlo si impone una premessa.
Che Omero sia storicamente attendibile è cosa già implicita in quanto scriveva Giovan Battista Vico nella Scienza nuova, definendolo «il primo storico della gentilità», e che è oggi comunemente riconosciuta. Beninteso, intendendo per storia non quella degli avvenimenti, ma quella dell’intero patrimonio culturale di un popolo: nella specie, della Grecia arcaica. Come è ben noto, infatti, nei 26mila versi di cui Iliade e Odissea si compongono sono confluiti i canti orali con i quali i famosi aedi o rapsodi intrattenevano il pubblico nei secoli in cui la Grecia era ancora totalmente preletterata, e come tutte le culture di quel tipo disponeva di un solo strumento per comunicare e trasmettere la sua cultura di generazione in generazione, vale a dire i poeti: gli aedi e i rapsodi. E questo fa sì che grazie all’Iliade e all’Odissea sia possibile ricostruire il processo che portò i greci alla scoperta della prima fondamentale libertà dell’essere umano: quella dagli dèi e dal fato. Cosa che accadde partendo da un momento nel quale essi davano per scontato che tutto quel che accadeva fosse determinato dagli dèi. A ben vedere, infatti, tanto nell’Iliade quanto nell’Odissea si svolgono parallelamente due azioni: una nel mondo dei mortali e una nel mondo degli dèi, e a decidere quel che accade, in cielo e in terra, sono sempre e solamente gli dèi: come Apollo, che aveva mandato la peste con cui ha inizio l’Iliade; o come Zeus, che aveva mandato ad Agamennone un segno ingannevole per promettergli la vittoria e indurlo alla battaglia.
Ma se questo è il punto di partenza, ci sono nei poemi dei passaggi che segnalano lo slittamento verso l’idea che anche la volontà umana ha un ruolo nel determinare gli eventi: parlando del viaggio nel corso del quale Telemaco spera di avere da Nestore notizie del padre, Atena lo incoraggia dicendogli che i numi gli suggeriranno come comportarsi, ma qualcosa «penserai tu nel tuo animo» (Od., 3, 26 27). E quando grazie allo stratagemma del cavallo i Greci riescono a entrare a Troia, Elena è felice, e se ne rallegra perché, come dice, «l’animo s’era già volto a tornare indietro, in patria, e piangevo la colpa che Afrodite mi spinse a commettere...»(Od., 4, 260 264). Se non la fuga a Troia, la decisione di tornare dal marito dunque è sua, ed Elena la rivendica come tale. E ci sono anche passaggi nei quali l’umanità appare totalmente libera e capace di determinarsi, come quello nel quale Zeus rimprovera agli uomini di incolpare ingiustamente le divinità dei loro dolori. In realtà questi sono causati dai loro «folli delitti», tra i quali il dio cita quello di Egisto, l’amante di Clitennestra, che insieme a questa aveva ucciso Agamennone al ritorno dalla guerra di Troia. Gli dei, in quell’occasione, avevano mandato Ermes, il loro messaggero, a dirgli di non farlo. Ma Egisto non lo aveva ascoltato e aveva agito contro la moira, vale a dire contro il destino superiore, al quale l’uomo non doveva sottrarsi (Od., 1, 32 34.).
E per finire ci sono casi nei quali gli uomini sono capaci non solo di autodeterminarsi, ma anche di autocontrollarsi, come più di una volta riesce a fare Ulisse: una prima volta quando, chiuso nell’antro del Ciclope che aveva appena divorato due dei suoi compagni, avrebbe voluto d’impulso uccidere il mostro, ma lo aveva trattenuto il pensiero che se lo avesse fatto sarebbe sicuramente morto. Mai e poi mai lui e i compagni avrebbero avuto la forza di spostare la roccia con la quale il Ciclope, da lui accecato, aveva chiuso l’imboccatura del suo antro (Od., IX, 299-300). E poi, ancora, quando, tornato a Itaca ed entrato nella sua reggia in veste di mendicante, aveva scoperto che alcune delle sue ancelle lo avevano tradito, passando dalla parte dei proci. Anche in quel caso era stato tentato di reagire immediatamente, uccidendole, ma era riuscito a contenersi ricordando che, dopo aver subito oltraggi ancora peggiori dal Ciclope, si era salvato trattenendo i suoi impulsi e aspettando il momento in cui avrebbe potuto farlo grazie alla sua astuzia (Od., 20,10-23).
Questi episodi rappresentano il variare della percezione di sé dei greci: il primo passo della strada che li avrebbe condotti alla nascita della distinzione tra atti volontari e involontari e all’inizio della individuazione di alcune delle cause della involontarietà, quali la volontà degli dèi, la necessaria obbedienza a un ordine superiore, divino o umano, e la necessità determinata da una violenza fisica o psichica. E sulla base di questa distinzione si era affermato il principio che era colpevole solo chi aveva agito volontariamente, e che si rispondeva solo di quegli atti, come dimostra il comportamento di Ulisse quando, dopo aver sterminato i proci, punisce i suoi dipendenti infedeli. Ma solo quelli che hanno agito volontariamente: e quindi risparmia Femio, l’aedo che ha cantato per i proci, ma contro la sua volontà: come conferma Telemaco, era stato costretto a farlo dal loro numero e dalla loro tracotanza. Grazie alla conquista e alla consapevolezza della propria libertà dagli dèi e dal fato i greci avevano elaborato il principio della responsabilità morale e i concetti etici e giuridici tut tora a fondamento della nostra civiltà.

Questo testo è tratto dalla lezione
di Storia che l’autrice terrà a Milano
a Santa Maria delle Grazie
il 27 giugno alle 21,
nell’ambito del progetto ideato da Laterza e dedicato al «Potere degli antichi»

Il Sole Domenica 24.6.18
Scelte di vita
Anche l’ateo vuole il suo monastero
di Stefano Brusadelli


Spazi dove si compie la scelta estrema di dimenticare il mondo per consegnarsi a Dio, i monasteri, i conventi e le abbazie hanno sempre affascinato anche chi ha preferito restare a lottare in mezzo al clamore del mondo. L’ex sindaco di Firenze Giorgio La Pira visse a lungo nel Convento di San Marco, e un altro grande democristiano, Giuseppe Dossetti, morì nell’Abbazia di Monteveglio, sull’Appennino emiliano, dove da anni si era ritirato. Persino colui che ha finito per diventare l’incarnazione della dissolutezza, François Rabelais, aveva immaginato come luogo ideale l’utopistica abbazia di Thélème, dove non esisteva alcuna autorità e ciascuno poteva fare ciò che più gli piaceva.
Da molti anni, anche lo psichiatra Vittorino Andreoli si spende per la riscoperta del monastero come risposta ai bisogni della contemporaneità. E non solo perchè lì si trova il bene sempre più raro del silenzio ma perchè esso costituisce un’ultima oasi «di serenità, di rispetto, di aiuto reciproco, dove è bandita la proprietà che è la maschera del potere, e domina invece l’eterno, che finisce per sminuire gli interessi legati puramente a un tempo che si ridicolizza». Solo che il monastero di Andreoli, essendo oltre a tutto ciò anche altro, è ancora da inventare, è un’utopia come la la Thélème di Rabelais; che però magari, a forza di parlarne, e di scriverne, potrebbe diventare realtà.
Si tratta infatti del «monastero per i non credenti», dove chi entra in forza di una transitoria scelta di solitudine non debba sentirsi di rango inferiore rispetto a chi crede in Dio, e dunque come una sorta di «ritardato della fede» bisognoso di aiuto. Un posto nel quale chiunque avverta il bisogno del sacro, ed è pronto ad accogliere delle risposte, «non necessariamente del Dio di Abramo ma anche di altre religioni che interpretino diversamente la vita del singolo e del mondo», possa intraprendere un viaggio dentro se stesso; nutrito però dalle esperienze altrui, perchè secondo Andreoli «sono gli altri il primo luogo dove si incontra Dio». E come nell’idea rabelaisiana, lì non può esserci regola nè autorità, giacchè ogni autorità implica obbedienza, e in questo caso non è prevista alcuna regola, o testo sacro, al quale si deve obbedire.
In Italia esistono 401 tra monasteri, conventi e abbazie tuttora abitati. Il primato è del Lazio con 51, seguito da Toscana con 47 e Marche (dato abbastanza singolare considerata l’esigua popolazione) con 43. La maggioranza di questi complessi è ormai occupata da pochissimi religiosi. Eppure il «monastero dei non credenti» cerca ancora il suo tetto. Il che però non è neppure troppo sorprendente, considerato che non si può chiedere ad un Ordine cattolico di spossessarsi di un bene a vantaggio di un’entità che non programmaticamente non è disposta a professarsi cristiana. Un esperimento, a dire il vero, ci fu. Nel 2004 il superiore dell’Opera dei Buoni Fanciulli, fondata all’inizio del ’900 a Verona da San Giovanni Calabria, concesse a Andreoli l’uso dell’antica abbazia benedettina di Maguzzano, sul Lago di Garda. La concessione valeva per il sabato e la domenica, compresa la possibilità di pernottare e usare il refettorio. La tappa successiva doveva essere il reperimento di una struttura disponibile tutto l’anno, ed esclusivamente destinata alla nuova comunità. Finora questo non è stato possibile; e difficilmente lo sarà senza l’intervento di qualche finanziatore privato. Nel frattempo l’esperienza di Maguzzano non si è interrotta, seppure limitandosi a soli quattro fine settimana l’anno, e ha preso il nome (non approvato da Andreoli) di «monastero dei credenti e non credenti».
Lo psichiatra non si è arreso. E nella sua incredibile casa da lui stesso progettata nei boschi sopra Verona (un enorme cubo di cemento armato alto 17 metri poggiato al suolo su uno dei vertici, a suo dire metafora della follia), scrive che «osservando il mondo, vicino o lontano, così rumoroso, inquieto e così folle, mi viene voglia di silenzio».
Beata Solitudine.
Il potere del silenzio
Vittorino Andreoli
Piemme, Milano, pagg. 284, € 18,50