Il Sole Domenica 10.6.18
Marrani. L'altro dell’altro, di Donatella Di Cesare
Marrani.
Nel 1492 in Spagna si decretò l’espulsione o la conversione forzata
degli ebrei. Costretti a ripudiare la fede, vissero scissi in un sé
duale rappresentando «l’altro dell’altro»
Quelle anime in esilio
di Remo Bodei
Nel
1096, in occasione dell’imminente partenza dei cristiani per le
Crociate, gli ebrei renani, in particolare quelli di Magonza, furono
uccisi «come animali da macello» per aver rifiutato di convertirsi.
Anche in altri luoghi e occasioni, accettando il martirio, molti,
morendo, «santificarono il Nome». Non così, sostanzialmente, accadde
nella Spagna e nei suoi domini (compresa l’Italia meridionale, la
Sicilia e la Sardegna). Infatti, dopo che nel gennaio del 1492 venne
decretata la cacciata degli ebrei o, in alternativa, la loro conversione
forzata, piuttosto che essere costretti all’emigrazione o al martirio,
una parte consistente di loro preferì la conservazione della vita,
insinuando così il dubbio sul valore di una verità testimoniata dalla
morte. Per necessità molti accettarono, dunque, formalmente il
cristianesimo, pur conservando in segreto la loro fede. Avendo perso nel
tempo ogni rapporto con l’ebraismo militante, i suoi insegnamenti e i
suoi rituali, la religiosità di coloro che venivano popolarmente
chiamati marrani (o, nel linguaggio ufficiale, «nuovi cristiani» o
«conversi») finì per diventare sempre più «atrofizzata» e legata a una
memoria che si assottigliava e si frammentava di generazione in
generazione. Il loro si trasformò in un «ebraismo per sottrazione», che
conservava la speranza del ritorno alla religione dei padri e aveva il
suo punto di riferimento in Ester, «simbolo umile e insieme potente del
ritorno»che aveva persuaso Assuero a desistere dall’annientamento del
popolo ebraico.
La condizione di questi ebrei rinnegati, che
vivevano nella «cripta» di un esilio interiore, era precaria ed esposta
al pericolo di rivelare la loro condizione. Per questo esercitarono il
virtuosismo dell’autocontrollo, aiutati nelle loro tribolazioni dalla
speranza di un ritorno alla fede degli avi, qualora le circostanze
diventassero favorevoli (cosa che accadrà in città come Ferrara,
Venezia, Ancona, Livorno, Amsterdam o Anversa). Come sostiene Donatella
Di Cesare, la loro era «una identità lacerata, tragicamente scissa fra
due apparenze inconciliabili: una esteriore e ufficiale, l’altra intima e
nascosta». Non erano più ebrei, ma nemmeno cristiani. Per i primi,
rappresentavano dei traditori, per i secondi, individui essenzialmente
inaffidabili. Non erano però «né eroi né martiri».
Traditori di
due fedi, diventarono con il tempo inassimilabili rispetto a ogni rigido
sistema di credenze, a ogni fondamentalismo. In questo senso, essi
rappresentano gli esponenti di una modernità dissonante, scissa, non
conciliata o armoniosa: «I marrani portano con sé il seme del dubbio, il
fermento dell’opposizione. Dissidenti per necessità, danno avvio a un
pensiero radicale». In essi «si frantuma il mito dell’identità», sono
scissi in se stessi, provvisti di un «sé duale». Se l’ebreo è l’altro,
il marrano è, appunto, «l’altro dell’altro». Inutilmente gli spagnoli
tentarono di assimilarlo con la forza, ponendolo di fronte
all’alternativa di essere inglobato nello Stato nazione o di esserne
espulso, dichiarato nemico. Non riuscendo a penetrare nel suo intimo,
inventarono la prima forma di razzismo, quella che chiedeva ai propri
cittadini la limpieza de sangre, poiché sospettavano che l’acqua del
battesimo non avesse cancellato nei marrani la loro alterità.
Tra i
conversos e i loro discendenti s’incontrano per noi gli opposti: Tomás
de Torquemada, il primo Grande Inquisitore dell’Inquisizione spagnola è
accanto a Teresa d’Avila, proclamata da Paolo VI dottore della Chiesa
nel 1970. Della granitica fede cattolica di Torquemada è difficile
dubitare, mentre nella mistica di Teresa e, soprattutto, nel suo
Castello interiore, è ben presente la tradizione marrana del sottrarre
l’io a ogni unità monolitica, del considerarlo ignoto e inaccessibile
anche a se stesso, del custodire il segreto: «l’altro abita nel sé, il
sé nell’altro. Nessuna identità integrale. Tu sei altro da te stesso
[...] è grazie alla separazione che l’anima può ospitare, può far posto
all’infinito. Questa è la scoperta delle Indie di Dio». Pur nel suo
geometrico razionalismo, anche Baruch Spinoza, di famiglia marrana
portoghese, sottoposto all’herem, alla scomunica da parte della comunità
ebraica, rivendica nel Trattato teologico-politico il diritto al
segreto quando formula l’idea di una libertà per cui non si può
prescrivere a nessuno cosa sia vero.
Il marranismo non è finito,
segue un percorso carsico che non si può cancellare e che sottende un
segreto così profondo da sfuggire agli stessi interessati. Derrida,
scherzando, ma non troppo, ha dichiarato negli ultimi anni della sua
vita di essersi sempre più spesso sentito come un marrano a causa della
«ricerca clandestina di un segreto più grande e più vecchio di me». In
situazioni più angosciose, il marranismo riaffiora nel Novecento, specie
all’avvento del Terzo Reich, quando diversi ebrei, al pari di Husserl o
Edith Stein, si convertirono al cristianesimo: «Certo è sconcertante
che, dopo aver in tutti i modi costretto gli ebrei a integrarsi nella
cristianità, a fondersi con il corpo politico della nazione, una volta
che siano assimilati, simili al punto da non essere più riconoscibili,
si proceda a una rinnovata discriminazione basata sul sangue e
consacrata dalle leggi statali».
Il volume di Donatella Di Cesare,
con il suo terso e incalzante stile, scopre e illustra con acume una
storia ritenuta erroneamente minore o esaurita, ma che ha, invece, una
considerevole incidenza sulla genesi della coscienza moderna: «Nella
notte della clandestinità, in assenza di ogni testimone storico, i
marrani testimoniano il segreto in una esasperata anacronia, una
disperata resistenza al tempo del calendario dominante, lottando
nell’attesa per una controstoria che, da quel segreto, avrebbe potuto
riprendere”.
Eppure i marrani, sebbene più numerosi e sottoposti a
condizionamenti più drammatici, non sono i soli nella modernità a
essere obbligati a fingere per sopravvivere. A prescindere dai
libertini, per i quali vale il motto Intus ut libet, foris ut mos est,
qualcosa di simile accadde a quanti, per sfuggire all’assolutismo e
all’Inquisizione, furono indotti alla «dissimulazione onesta», di cui
parla Torquato Accetto nel 1641 (è significativo il fatto che Benedetto
Croce facesse ristampare nel 1928, in pieno fascismo, il Della
dissimulazione onesta per lasciare una via d’uscita al dilemma tra
l’acquiescenza completa al regime e il suo frontale ripudio). Se, come
dice Accetto, «non è permesso di sospirare quando il tiranno non lascia
respirare», allora non resta altra possibilità che far mostra di
un’esteriore obbedienza per resistere alle vessazioni dell’«ingiusta
potenzia». Sarebbe riduttivo (e riporterebbe a un arcaico cliché
ermeneutico) considerare il fenomeno della dissimulazione sotto il
profilo puramente moralistico. Presupponendo, infatti, un ideale
metastorico di autenticità nelle relazioni tra gli uomini, si finirebbe
per infliggere ai soggetti agenti un’esplicita censura, quasi avessero
arbitrariamente deciso di complicarsi la vita. Si dimentica così non
solo che la «dissimulazione onesta» viene concepita quale ombra che
mette in risalto la luce e dà «riposo al vero», ma anche quale forma di
resistenza razionale e creativa all’oppressione di un potere che
cominciava allora a infiltrarsi direttamente nelle coscienze (anche per
colmare il vuoto di egemonia interiore lasciato dagli scismi teologici e
dalle guerre di religione che allora dissanguavano l’Europa).
Marrani. L'altro dell’altro di Donatella Di Cesare
Einaudi, Torino, pagg. 120, € 12