Corriere La Lettura 10.6.18
Pericoli Un’antologia di testi di George Orwell sembra parlare profeticamente dell’era della rete
Disprezzare l’autorità senza credere alla libertà
di Giulio Giorello
«Le
bombe atomiche si ammassano nelle fabbriche, le polizie si aggirano
minacciose nelle città, le menzogne piovono dagli altoparlanti, ma la
Terra continua a girare intorno al Sole, e né i dittatori né i
burocrati, per quanto profondamente ostili alla cosa, sono in grado di
impedirglielo». Così scriveva nel 1946 Eric Arthur Blair (1903-1950),
noto al pubblico come George Orwell. Eppure, ci sono voluti secoli per
capire e far accettare il moto del piccolo globo che noi abitiamo. Ciò
significava, per Orwell, che è necessaria «una vigilanza costante» per
vedere «ciò che abbiamo sotto il naso». Ma non è solo passione per la
verità; è amore per la libertà. Perché l’assenza di tale incessante
attenzione consegna la vittoria a vecchi e nuovi despoti. Costoro
incarnano quella che si potrebbe chiamare la perversione della politica,
la quale, da invenzione per favorire la sopravvivenza degli esseri
umani in un ambiente ostile, si è tramutata in rischio subdolo, che ci
minaccia di estinzione più di quanto facciano catastrofi o disastri
naturali.
Orwell avrebbe voluto tenersene lontano per dedicarsi
alla letteratura; ma, forse fin dai banchi di scuola, si era reso conto
che la fuga dagli onnipresenti rapporti di potere era impossibile. Si
era sentito come «un pesciolino rosso in una vasca di lucci»; e ora
Vittorio Giacopini intitola così una bella antologia di scritti
orwelliani per la casa editrice Elèuthera (Milano). Nato nell’India
britannica ma formatosi in Inghilterra, Orwell, non ancora ventenne, si
era trasferito in Birmania e si era arruolato nell’Indian Imperial
Police. Ma non doveva trattarsi di un incarico troppo congeniale, visto
che gli insegnò «a odiare l’imperialismo».
Dimessosi nel 1927,
cominciò a scrivere «racconti e romanzi che nessuno voleva pubblicare», e
gli ci vollero quasi dieci anni per riuscire a campare dei suoi libri.
L’orrore per lo sfruttamento coloniale e per le discriminazioni sociali
nella «progredita» Inghilterra lo portarono tra le file del socialismo.
Con lo scoppio della guerra civile in Spagna, Orwell si recò in
Catalogna con la moglie a difendere la Repubblica. Ma l’entusiasmo
iniziale era destinato a spegnersi man mano che emergevano i contrasti
interni alle forze che avrebbero dovuto battersi contro il fascismo di
Franco. Quelle vicende sono state poi raccontate in Omaggio alla
Catalogna (1938). I comunisti staliniani si misero a braccare sia
anarchici sia seguaci di Trotzky: «Questa caccia all’uomo in Spagna
avveniva in simultanea con le Grandi Purghe in Urss e ne costituiva il
complemento». E ciò, commenta Orwell, «mi insegnò con quanta facilità la
propaganda totalitaria può influenzare l’opinione pubblica nei Paesi
democratici», ove le accuse staliniane erano accettate persino negli
ambienti «progressisti».
Orwell avrebbe poi dedicato parecchi
sforzi a mostrare come Stalin avesse finito per capovolgere il sogno di
Lenin nel suo opposto: una società gerarchica, autoritaria e repressiva,
non molto diversa dai regimi di Hitler e di Mussolini. Contro i
totalitarismi di ogni sorta, che mirano a cancellare le differenze
individuali, Orwell si guardava bene dall’abbandonare la difesa delle
leggi. C’è infatti anche una «tendenza totalitaria inerente alla visione
anarchica o pacifista della società», ove «l’unico possibile arbitro
del comportamento» resta l’opinione pubblica. Solo che «quando si
presume che gli individui siano governati dall’Amore (...) il singolo è
sottoposto a una pressione costante per comportarsi e pensare in modo
esattamente identico a tutti gli altri».
Oggi, nell’epoca nella
rete che Orwell non fece in tempo a conoscere, chi «disprezza l’autorità
senza credere alla libertà» ha i mezzi per imporre un conformismo così
generalizzato da rendere superflua ogni forza di polizia. D’altra parte,
chi ancora crede alla propria libertà dev’essere disposto a resistere e
contrattaccare anche in difesa di quella altrui.