Corriere La Lettura 10.6.18
La razza è solo un inganno. Ma troppi ancora ci credono
di Paolo Valentino
Le
razze umane non esistono. Non ha alcuna seria base scientifica la
divisione del genere umano in diversi tipi razziali, a partire dagli
aspetti esteriori come il colore della pelle, la struttura corporea, la
lingua. In realtà l’idea razziale è un costrutto, un’ideologia emersa
nell’età dell’Illuminismo, che per due secoli è servita a giustificare
schiavismo, sottomissione e saccheggio, usando a lungo gli strumenti
della scienza. Ma oltre a essere un’ideologia del passato, rifiutata e
disprezzata nella narrazione maggioritaria delle moderne società, il
razzismo è anche una pratica quotidiana, che vede milioni di persone
discriminate o oggetto di violenze.
Parte da questa premessa,
sollevando discussioni, polemiche e anche reazioni scomposte, la mostra
Razzismo, l’invenzione delle razze umane, aperta fino al prossimo 6
gennaio al Deutsches Hygiene-Museum di Dresda. Curato da Susanne
Wernsing, forte di oltre 400 tra strumenti, calchi di gesso, filmati,
fotografie, disegni, documenti pseudo-scientifici come le tavole di
Cesare Lombroso, l’allestimento non è solo il racconto puntuale di
metodi, protagonisti e passaggi storici attraverso i quali la grande
bugia razzista ha acquistato vita propria, esercitando un potere funesto
e diffuso. Ma anche una sofferta riflessione sull’attualità, che
solleva quesiti ancora senza risposta: che cosa ci separa? Che cosa ci
unisce? Come vogliamo vivere insieme?
Quella di Dresda è una
mostra difficile. Per la città dove si tiene e per l’edificio che la
ospita, prima di tutto. La capitale della Sassonia è infatti il luogo di
nascita di Pegida, il movimento anti-islamico e anti-immigrazione che
ogni lunedì raccoglie grandi folle sulla Theaterplatz ed è diventato
riferimento culturale e prepolitico obbligato di quanti in Germania
rifiutano la società aperta. Di più, il Land è la roccaforte
riconosciuta di AfD (Alternative für Deutschland), il partito
dell’estrema destra xenofoba che alle ultime elezioni federali qui ha
raccolto oltre il 27 per cento dei voti, seconda forza politica dopo la
Cdu della cancelliera Angela Merkel. Ma terreno sdrucciolevole alla
mostra offre lo stesso Deutsches Hygiene-Museum, aperto nel 1912 in
epoca imperiale per educare il popolo sui temi della salute e in realtà
sin dall’inizio votato al perseguimento dell’igiene razziale. Al punto
che, quando i nazisti andarono al potere nel 1933, divenne
immediatamente e senza grandi traumi strumento privilegiato
dell’insegnamento razzista e antisemita del regime hitleriano, teatro di
mostre come Sangue e razza o Il popolo eterno. In questo senso, quella
sul razzismo è anche una riflessione critica sul proprio passato.
Quanto
il clima sia pesante è apparso chiaro fin dall’inizio. Quando nello
scorso dicembre il direttore del Museo, Klaus Vogel, presentò in
televisione il progetto pronunciando la frase «le razze umane non
esistono», venne investito da un’ondata di insulti e minacce sui social
network. Eppure, insiste Vogel, la mostra non è una sfida a chi protesta
in piazza con Pegida o a chi vota AfD, ma «il tentativo di rendere
chiaro ai visitatori che il razzismo è qualcosa di profondo ancora oggi
nella nostra società e di farli riflettere sulle ragioni del proprio
rifiuto degli altri». Divisa in quattro parti, l’esposizione parte dagli
esordi della ricerca sulle razze nel XVIII secolo. Ci sono le tavole
sulle «varietà umane» di Johann Friedrich Blumenbach, che si inventò la
divisione tra caucasici, mongolici, etiopici e via continuando. In cima
alla scala ovviamente gli europei bianchi, il tipo caucasico, una
definizione ancora oggi usata negli uffici dell’immigrazione americani.
Anche la triade libertà, eguaglianza, fratellanza della Rivoluzione
francese valeva solo per una porzione limitata del genere umano, quella
bianca del Nord: così il ritratto a olio dell’unico nero che partecipò
alla Convenzione del 1793, l’ex schiavo del Senegal Jean-Baptiste
Belley, lo raffigura in abiti eleganti da deputato, appoggiato al busto
di uno scrittore, ma con la mano destra sulla patta, dove si vede un
grosso gonfiore, segno inequivocabile della sua inciviltà.
Dedicato
al Museo e alla sua storia non gloriosa, il secondo spazio è
un’autocritica spietata sul ruolo avuto nel diffondere il mito della
superiorità razziale. Fu da Dresda che nel 1933 partì la prima mostra
itinerante sull’«arte degenerata», di cui qui si può ammirare lo
splendido ritratto a olio di Oskar Schlemmer, dipinto nel 1914 da Ernst
Ludwig Kirchner. E fu in queste sale che nel 1939 venne organizzata la
Deutsche Kolonial-Ausstellung, impressionante sintesi delle ambizioni
colonialiste e suprematiste della Germania. Proprio l’età coloniale è il
focus della terza parte della mostra. Non solo quella tedesca,
naturalmente, visto che nella seconda metà del XIX secolo l’ideologia
razzista acquistò dimensione geopolitica, diventando uno dei tratti
fondamentali dell’ordine mondiale. C’è l’intero armamentario delle
teorie pseudo-scientifiche, delle rappresentazioni, delle
classificazioni etnologiche, delle ricerche, che accompagnarono e
giustificarono il dominio del mondo da parte dell’Occidente bianco, in
nome della sua superiorità. Perfino le carte geografiche venivano
redatte al servizio dell’imperialismo, con l’Europa disegnata più grande
delle sue dimensioni reali e le terre vicine all’equatore quasi
miniaturizzate.
Infine, l’attualità o se si vuole la banalità del
razzismo quotidiano, dove video e filmati raccontano esperienze di vita
vissuta. Come l’intervista di John e Joshua Kantara a Theodor Wonja
Michael, 93 anni, afro-tedesco, che ripercorre un secolo di razzismo in
Germania dalla sua originalissima prospettiva. O come la
video-installazione di Barbara Lubich, artista italiana di Dresda, che
mette i visitatori a confronto con i propri cliché. Lubich mostra le
foto (in tre pose diverse) di cinque persone di diversa provenienza e
separatamente offre tre ipotesi di biografia per ognuna di queste. Solo
una è esatta. Quale biografia appartiene a quale persona, è la domanda.
Il mistero è risolto alla fine. Quasi tutti sbagliano. «Voglio che si
misurino con le proprie attese e i propri pregiudizi».
Ambizione
della mostra è naturalmente contrastare il razzismo, non esporlo. Ma non
è mai facile mostrare gli stereotipi (e le sale del Deutsches
Hygiene-Museum ne sono zeppe) in modo critico, evitando di riprodurli. A
Dresda il rischio era presente, tanto più che nessuno del gruppo
iniziale degli organizzatori aveva avuto esperienze personali di
discriminazione o era originario di Paesi africani. Così, nella fase
finale della preparazione è stato creato un comitato scientifico fatto
di attivisti, ricercatori e artisti extracomunitari, che hanno rivisto
criticamente l’allestimento, decidendo modifiche e commenti aggiunti in
varie forme a molti degli oggetti esposti o perfino eliminandone alcuni
come i resti di ossa umane. Ma soprattutto suggerendo tutta la parte
dedicata all’attualità. Anche il titolo hanno cambiato: quello
originario era Razzismo. Un fantasma. Razzismo e basta, hanno suggerito.
«Per loro — dice Susanne Wernsing — non è uno spettro, quando la
mattina prendono l’autobus e sentono i commenti o gli insulti alle loro
spalle».