Il Sole Domenica 10.6.18
Il vero Robespierre
Rivoluzione francese. È lui che si processa per lo spargimento di sangue, è nel suo nome
che si vuole combattere contro le ingiustizie: la biografia di Martin gli restituisce autenticità
di Luigi Mascilli Migliorini
«Se
soltanto aveste visto quei suoi occhi verdi…». Non sembra saper trovare
altri argomenti Merlin de Thionville, uno dei protagonisti di
Termidoro, quando prova a raccontare quella terribile giornata. Nel
colore morbido e freddo allo stesso tempo degli occhi di Robespierre
egli ritrova il sogno di assoluto che aveva ad un tratto preso quella
che era stata anche la propria Rivoluzione e la vertigine nella quale
essa era, inseguendo quel sogno, precipitata. L’immagine, che piacque
molto anche a un grande storico come Johann Huizinga, riusciva a
esprimere quello che era accaduto (compresa l’inattesa caduta
dell’idolo, al vertice del suo potere) assai più di un minuzioso
resoconto dei giorni che erano trascorsi fino alla fine. Quel verde, che
si dice essere il colore della speranza, era diventato quello che pure
esso può essere, il colore della paura, una paura che aveva reso vili
uomini prima coraggiosi, feroci uomini prima miti.
Non era stato
sempre così, non era, soprattutto, cominciato così. Lo scrive molto bene
Jean-Clement Martin, uno tra i più originali e sensibili storici della
Rivoluzione francese, in questa sua biografia di Robespierre, così
attenta, così paziente nel voler restituire alla autenticità della
vicenda storica, e dunque anche della vicenda biografica, una figura che
il mito ha impietosamente sovrapposto alla idea stessa della
Rivoluzione. Per Robespierre, scrive Martin, la Rivoluzione non è
ancora, non è mai terminata, perché ogni volta che su di essa si torna a
discutere (e questo accade praticamente ogni giorno, persino in tempi
così poco “rivoluzionari” come i nostri) è sempre a lui che ci si
rivolge. È lui che si processa quando si sostiene che la Rivoluzione è
solo un inutile spargimento di sangue, l’avventura solitaria di pochi
allucinati. A lui si chiede, al contrario, di rivivere sotto le bandiere
di chi è pronto, in un mondo che non ha mai smesso di conoscere
ingiustizie e sopraffazione, a tornare a combattere, ma questa volta
fino alla fine, fino a che l’ultima ingiustizia e l’ultima sopraffazione
non siano state definitivamente sradicate alla storia.
Peso
affaticante, deformante, per un uomo che, come e più della Rivoluzione
nella quale si incarna, cominciò a muoversi nel mondo in maniera assai
discreta, praticamente invisibile. Avvocato di una melanconica provincia
nel nord della Francia, Arras, egli conquista un brandello di
periferica celebrità vincendo una causa a proposito dell’uso del
parafulmine nella quale trova il modo di valorizzare la recente scoperta
dello scienziato e filosofo americano Benjamin Franklin. Indizio sicuro
di un destino nel segno delle novità più eclatanti del suo tempo,
racconta qualche biografo troppo zelante. Normale routine di un uomo di
legge di tardo Settecento che, come tanti altri, allora cercava di
rovesciare nelle sue arringhe quotidiane qualche frammento delle idee o
degli avvenimenti che si producevano intorno, replica Martin. Che
insiste, poi, a spiegare come tante altre “premonizioni” del destino
dell’Incorruttibile, come la durezza della sua vita infantile, in un
Collegio al quale lo aveva costretto la perdita precoce della morte
della madre, altro non fossero che le diffuse condizioni nelle quali
poteva capitare di trovarsi in un’epoca nella quale perdere un genitore,
o altre disavventure del genere, erano piuttosto la norma che
l’eccezione.
Anche i primi passi della sua vita politica,
l’elezione agli Stati generali, la partecipazione alle battaglie
parlamentari nell’Assemblea Costituente, la tribuna del circolo
giacobino, non hanno niente di particolarmente diverso da quello che si
può dire e scrivere di tanti uomini della Rivoluzione, la maggior parte
dei quali, anzi, da Mirabeau a Danton, da Roland a Pétion raggiungono e
mantengono assai prima di lui la notorietà. Non è violento (come si vede
bene nei giorni della Bastiglia e poi della marcia delle donne di
Parigi su Versailles) quando molti cominciano già ad esserlo, non è
repubblicano quando molti hanno già perso ogni fiducia nella lealtà di
Luigi XVI. Eppure arriva un momento nel quale, se ci si guarda intorno,
Robespierre è l’uomo che racchiude in sé la forza politica del processo
rivoluzionario.
Sul filo delle pagine del libro si potrebbero
anche indicare le date in cui questo accade: già nel maggio del 1791,
forse, o più probabilmente nel 1792, tra l’agosto e il settembre, ma
questo non è molto importante. Martin ci spiega, in maniera splendida,
che Robespierre diventa Robespierre perché poco alla volta, ma con
puntualità egli appare l’uomo che sa meglio comprendere quali siano le
attese del popolo, quello di Parigi certo, ma poi anche di Francia.
Robespierre diventa colui che rappresenta meglio i principi democratici
della Rivoluzione nel momento in cui la Rivoluzione, nata essenzialmente
su un principio di libertà, scopre la democrazia.
La democrazia,
si badi bene, non il socialismo, perché – a dispetto di qualche
forzatura novecentesca di storici pronti ad assimilarlo a un precursore
di Lenin - Robespierre non ha come orizzonte il superamento della
proprietà privata, della cui fondatezza egli rimane sempre convinto.
Capisce, però, prima di ogni altro, che quel gran movimento che si
chiama Rivoluzione ha oltrepassato i limiti ideali e le aspettative
concrete dalle quali e per le quali era nato. Se il popolo è sceso in
piazza combattendo per la libertà, vi rimane, in piazza, per continuare a
contare, a decidere, a governare, per non ritornare negli armadi della
storia, come si farebbe con qualche buon fucile usato al momento giusto e
poi riposto perché non serve più. Come governa un popolo, con quali
regole, limiti, forme che non siano una mascheratura di élites
politiche, ma non siano nemmeno l’ubriacatura della folla in strada? La
domanda – così attuale - non era all’origine della Rivoluzione francese,
ma lo diventa nel suo farsi. Robespierre lo comprende, ha il coraggio
di non arretrare di fronte ad essa, ne viene alla fine travolto.
«Volevate
una Rivoluzione senza rivoluzione?» lancia ai suoi avversari in una
Convenzione ruggente, quando è in gioco la sorte di Luigi XVI. Come non
vedere che le incisive, educate rimostranze che uomini vestiti in neri
abiti di buoni borghesi rivolgevano al loro sovrano nei giorni degli
Stati generali erano diventate, in meno di tre anni, pagine ingiallite?
Occorreva ascoltare le parole d’ordine che nascevano da un mondo nuovo,
come avrebbe detto Majakovskij nei giorni della sua Rivoluzione.
Robespierre lo sapeva e provava a forgiarle, ma non era un poeta, non
aveva neppure l’audacia di Danton o l’intelligenza di Condorcet. La
paura, il Terrore, di cui diventa arbitro è, forse, la paura che si
portava dentro via via che capiva la verità di quello che lui per primo,
lui probabilmente solo, aveva intuito. Per una parola assoluta come
democrazia, non c’era una risposta assoluta. Le risposte parziali erano,
ai suoi verdi occhi di Incorruttibile, falsificazioni che la storia
sbriciolava una dopo l’altra.