Il Sole Domenica 10.6.18
Italiani sull’orlo della guerra civile
Prove tecniche di rivoluzione. L'attentato a Togliatti, luglio 1948
Fuori
dalla leggenda. A 70 anni dall’attentato a Togliatti, documenti inediti
dei servizi segreti dell’epoca fanno luce sulla reale consistenza
dell’apparato paramilitare clandestino del Partito comunista
L’esame critico delle “forze” comuniste rivelò una consistenza inferiore alle attese
di Giuseppe Pardini
Il
14 luglio 1948 un giovane di destra sparò contro Palmiro Togliatti,
segretario generale del Partito comunista italiano; il Migliore cadde
gravemente ferito, a rischio della vita per alcune ore. Nel Paese si
scatenò una violenta ondata di scioperi, manifestazioni, proteste,
violenze che in alcune province presero sembianze di moti prettamente
insurrezionali, con l’occupazione di stazioni ferroviarie, assalti a
carceri, sedi di partiti avversari, uffici istituzionali, con un
drammatico bilancio di 31 morti e oltre 500 feriti. Per fare luce su
queste complesse vicende, ho effettuato una lunga e meticolosa ricerca,
basata sul ritrovamento di una vasta documentazione inedita, che
affronta molti nodi storici ancora irrisolti. I risultati di questa
indagine sono raccolti nel volume Prove tecniche di rivoluzione.
L’attentato a Togliatti, luglio 1948 (Luni editrice, in uscita il 13
giugno), di cui qui anticipo le tesi in esclusiva per la Domenica del
Sole 24 Ore.
Si tratta di materiale prodotto dal servizio segreto
militare dell’epoca, chiamato Ufficio Informazioni “I” e posto sotto
l’egida dello Stato maggiore dell’esercito. Erede del Servizio
informazioni militare (Sim) e precursore del più noto Servizio
informazioni forze armate (Sifar), l’Ufficio operò nel cruciale periodo
1945-1949, con 11 Centri di Controspionaggio nelle zone geopolitiche e
strategiche più importanti. Aveva infiltrati in ogni partito e numerosi
erano pure i confidenti reclutati all’interno del Pci, attraverso i
quali l’Ufficio monitorava con acume l’evoluzione politica in atto e i
potenziali pericoli eversivi. Al vertice della struttura militare
stavano uomini di provata capacità e fedeltà alle istituzioni
repubblicane, tanto che avrebbero raggiunto poi i maggiori gradi di
comando delle forze dell’ordine del Paese. Del resto i temi di cui si
doveva occupare l’Ufficio “I” erano delicati e per questo le operazioni
di intelligence venivano svolte senza badare troppo a spese e risorse
(un fiduciario all’interno del Pci poteva intascare anche 30mila lire,
oltre ai passaporti per gli Usa per sé e famiglia...). Per queste
ragioni la documentazione prodotta da quei servizi appare oggi molto
attendibile e in grado di illustrare la vera percezione del Pci, del suo
apparato paramilitare clandestino, dell’ipotesi insurrezionale (il
leggendario “Piano K”), e di tutto quanto veniva definito, insomma,
“pericolo rosso”. Si tratta della documentazione che probabilmente
avevano cercato Viktor Zaslavsky e la Commissione parlamentare
d’inchiesta sul terrorismo in Italia, nel tentativo appunto di fare
anche luce sull’apparato paramilitare del Pci.
Altre carte
inedite, poi, che hanno permesso di disegnare un quadro diverso da
quello tradizionale, sono state rintracciate nel fondo Ordine Pubblico,
una sezione della Direzione generale di Pubblica sicurezza adibita al
controllo dei movimenti e dei partiti nonché delle manifestazioni di
carattere politico, e altre ancora nel Gabinetto del Ministero
dell’Interno, tra cui la rilevante cronologia degli avvenimenti redatta
dal Comando generale dell’Arma dei carabinieri sulla base dei vari
rapporti dei comandi provinciali, nonché una serie di relazioni
ispettive di alti funzionari, spesso “compromessi” col regime fascista
ma impiegati proficuamente in funzione anticomunista.
Purtroppo
continuano a essere escluse dalla consultazione, invece, altre
significative carte che avrebbero potuto precisare interrogativi ancora
aperti, e cioè i fascicoli conservati nell’Archivio Riservato del
Gabinetto della Presidenza del Consiglio dei Ministri (per tacere di
quelli dell’Archivio Segreto): sebbene siano passati 70 anni da quei
difficili giorni e da quelle vicende politiche, tali interessanti
fascicoli giacciono purtroppo ancora “secretati” all'interno di armadi
ministeriali. La documentazione reperita appare per certi aspetti di
grande rilevanza, non soltanto perché fornisce una nuova interpretazione
degli episodi connessi allo sciopero generale e alle proteste per
l’attentato a Togliatti (queste le forme ufficiali che il Fronte
popolare e la Confederazione generale del lavoro vollero utilizzare
contro il governo De Gasperi), ma anche per comprendere la prassi
politica insurrezionale ipotizzata dal Pci e il ruolo del suo braccio
armato, l’Apparato per l’intelligence militare. Fuori dalla leggenda,
l’apparato clandestino non era un complesso unitario, organico e ben
definito, ma aveva un senso soltanto se inteso come sommatoria di varie
strutture paramilitari (ex partigiane) di alcune regioni, in particolare
di quelle di Liguria, Piemonte e Lombardia, con le strutture emiliane e
toscane cui si attribuiva peso minore, e con poco altro a livello
locale da concorrere a definire l'intero apparato. Al riguardo uno dei
documenti più interessanti (a pag. 186):
«L’esame critico portato
sulle posizioni-chiave dell’Apparato comunista (perché è di questi che
specialmente si discorre) ha posto in luce che la sua consistenza è
nettamente inferiore a quella che generalmente gli viene attribuita. Le
due grandi masse di manovra di cui si compone l’Apparato sono: a) quella
della regione Emilia/Toscana, b) quella del triangolo
Milano/Genova/Torino. Senza riportare i dati sulla scorta dei quali si è
proceduto, basterà tenere presente che le forze reali di cui dispongono
i comunisti nella prima sono state valutate con sufficiente
approssimazione fra i 25mila e i 30mila uomini inquadrati, armati e
dotati di munizionamento sufficiente. Il computo riesce assai più
difficile per la seconda, ma essa non può essere di molto superiore, in
maniera che le forze sufficientemente organiche dislocate nell'Italia
settentrionale non dovrebbero distaccarsi molto dai 60mila uomini.
Questa massa notevole si completa di diverse formazioni partigiane
(Anpi) efficienti in altre regioni, fino a raggiungere un totale di
100mila uomini circa. Vale la pena di notare che le informazioni più
recenti e più attendibili vengono a confermare indirettamente la
valutazione sintetica che venne già fatta in passato. Senza
sottovalutare il valore di queste forze, si può però affermare che esse
possono essere controllate con sufficiente sicurezza dalle formazioni
O[rdine] p[ubblico] della polizia e da quelle mobili dei carabinieri, il
cui inquadramento, armamento e efficienze tecnica e morale cono in
costante miglioramento. Le forze di cui dispongono le sinistre appaiono
bensì in grado di creare delle situazioni locali tali da dare ai
rispettivi partiti il controllo di determinati centri, se non
addirittura di determinate regioni (per esempio l’Emilia e la Liguria),
ma tale controllo sarebbe certamente di breve durata e l’isolamento dei
centri di resistenza relativamente agevole. Le sinistre hanno perduto
l’occasione favorevole nell’estate/autunno 1945. Dopo di allora la
conquista del potere con la forza è diventata in Italia praticamente
impossibile. Questa impossibilità deriva in via primaria dagli sviluppi
della situazione internazionale (passata gradualmente sotto il controllo
Usa), ma anche in via secondaria dalla ovvia considerazione che
l’Apparato ha un valore politico fintantoché non viene adoperato, perché
una volta messo allo sbaraglio ed esauritane le possibilità, sarebbe un
elemento negativo. Un movimento insurrezionale che terminasse con un
insuccesso liquiderebbe praticamente le sinistre sul terreno politico e
ricondurrebbe il comunismo italiano sulle posizioni di partenza che esso
aveva vent’anni fa».
Considerando che almeno il 90% degli agenti
di polizia si era detto pronto, inoltre, a sparare contro i comunisti in
caso di insurrezione, il quadro appariva fosco per le ipotesi di
abbattere il governo di De Gasperi e della Dc con la forza. Anche per
questa ragione uno dei maggiori esponenti del Pci avrebbe confidato che
«il potere non lo conquisteremo mai con le elezioni e in questo momento
fare un atto di forza sarebbe una pazzia», ma la situazione era comunque
incerta e in continua evoluzione, e a detta di molti attenti
osservatori sarebbe bastato un qualsivoglia “pretesto” per poter dare il
via all’insurrezione, come invocavano i settori più rivoluzionari del
comunismo italiano. Il 14 luglio quel pretesto, col grave ferimento del
Migliore, a molti apparve arrivato...
Docente di storia contemporanea, Università degli Studi del Molise