Corriere La Lettura 10.6.18
Socrate tradito da Platone
La sconfitta. Il destino del pensatore condannato a morte dimostra che gli uomini rifiutano gli argomenti razionali
L'allievo, impressionato dalla sorte del maestro teorizzò l’uso delle emozioni e dei miti in campo politico
Inefficacia.
Un discorso costruito su concetti ben meditati di solito non funziona
quando bisogna otterere il consenso delle masse
Polemica. Karl Popper condannò l’autore dei Dialoghi perché coglieva i gravi rischi insiti nell’appello alle passioni umane
di Mauro Bonazzi
Socrate:
il filosofo, l’unico e irripetibile esempio di quello che è e deve
essere un filosofo. Fu anche l’uomo più giusto; addirittura l’unico vero
uomo politico che Atene abbia mai avuto. Così scrive Platone, sempre
pronto a esaltare la memoria del maestro. Quasi a mo’ di contrappunto,
però, i suoi dialoghi sono attraversati anche da un altro motivo, più
discreto ma assillante, e probabilmente più interessante, almeno di
questi tempi.
Socrate è stato un maestro del pensiero; e non meno
importante è stato il suo impegno politico nella vita di Atene. Fu il
migliore. Ma il risultato fu un fallimento clamoroso, culminato nella
condanna a morte. Solo colpa del popolo? O non è forse arrivato il
momento di riconoscere che anche lui ha avuto la sua parte di
responsabilità? È la domanda che non smise di tormentare Platone.
Socrate aveva ragione: su questo non si discute. La sua verità, però, è
rimasta sterile: e anche questo è un fatto. Quale è il valore di una
parola che nessuno ascolta? E soprattutto, perché la sua parola è
rimasta muta? Domande inquietanti, e non meno inquietante è la risposta
che alla fine si diede Platone, dopo molti tormenti. Non poteva che
essere così, i problemi erano troppo importanti.
Che cosa sia la
filosofia per Socrate, e a che cosa serva, è raccontato ora da Pietro
Del Soldà nel libro Non solo di cose d’amore (Marsilio): è un invito a
usare la propria intelligenza per costruire una vita buona, per sé e per
gli altri — una vita felice cioè, che valga la pena di essere vissuta
insieme, in una città giusta. Non è facile, certo, ma la sfida è
appassionante, e il premio vale l’impegno. La filosofia è un esercizio
razionale, un dialogo in cui ognuno deve rendere conto delle opinioni su
cui fonda la propria vita. È un confronto serrato, ma con regole
chiare, a partire dalla convinzione che siamo esseri razionali capaci di
affrontare razionalmente i problemi della nostra vita. Davvero?
Tutti
sono convinti di fondare le proprie scelte su motivazioni razionali.
Che non sia così, però, non c’è quasi bisogno di ricordarlo, come ben
sanno i pubblicitari. Un dialogo socratico può funzionare tra due
persone, prendendosi il tempo e la pazienza necessari. Ma è un modello
destinato a soccombere quando la discussione si allarga al gruppo e
altri fattori — le abitudini, i pregiudizi, e soprattutto le passioni —
intervengono ad agitare le acque. Così successe il giorno del processo.
Ancora una volta, per l’ultima volta, Socrate scelse di rimanere
coerente con sé stesso, rispondendo ordinatamente alle accuse. Decise di
mantenere il discorso su un piano esclusivamente razionale, rinunciando
alle pratiche consuete dei tribunali — la ricerca di un’intesa con i
giurati o l’appello alle emozioni. Tenne un discorso grandioso, che lo
ha proiettato nei secoli: Socrate, l’eroe pronto a sfidare la morte
nella sua battaglia per la giustizia e la verità. Così facendo, però,
perse l’occasione — l’ultima occasione — di parlare con i suoi
concittadini, e magari di aiutarli. E quindi?
Quel giorno, al
processo, era presente anche Platone. Si racconta che salì sulla pedana
degli oratori e cercò di prendere la parola nel tentativo disperato di
difendere il maestro — un maestro che da solo non sapeva difendersi.
Sommerso dai fischi, fu subito fatto scendere. Difficile che l’aneddoto
sia vero. Ma è vero che quell’evento lo segnò profondamente, mettendolo
di fronte alla potenza delle passioni irrazionali. La sua filosofia
politica nasce qui, nel clima infuocato dei tribunali e delle assemblee,
come ha spiegato magistralmente Mario Vegetti in tanti lavori. Il suo
ultimo libro s’intitola Il potere della verità (Carocci): quale è il
potere della verità, quando la verità è muta? In politica non basta
stare dalla parte giusta; bisogna anche risultare efficaci se si vuole
davvero essere utili. E allora, se la filosofia vuole farsi politica, se
vuole conseguire dei risultati concreti, deve avere il coraggio di
immergersi anche nel mondo delle passioni, un mondo ben diverso dai
cieli puri del discorso razionale. Nella caverna platonica le cose vanno
diversamente. Gli uomini sono più contorti di quello che pensava
Socrate.
Platone e l’irrazionale: mentre in Europa infuriava la
barbarie nazista, esule nella lontanissima Nuova Zelanda, Karl Popper
scagliò parole di fuoco contro Platone, reo di aver tradito il suo
maestro. Al netto di alcune forzature, c’è del vero in queste accuse.
Quando teorizzava l’opportunità della menzogna o insisteva sulla
necessità, per una comunità politica, di ritrovarsi intorno ad alcuni
miti fondatori, Platone si allontanava consapevolmente dal sentiero
tutto razionale che aveva percorso Socrate. Lo sapeva lui per primo,
come testimoniano le continue giustificazioni che lascia cadere nei suoi
scritti. «Non vorrei che il discorso rimanesse solo uno pio desiderio»;
è amaro combattere da soli «in nome della giustizia», morendo «prima di
aver giovato a sé e agli amici, risultando inutile a sé e agli altri».
Platone
non teorizzava la necessità dell’inganno, si poneva il problema di come
realizzare concretamente quelle idee che Socrate non era stato capace
di spiegare alla città. La storia del suo maestro insegnava che i
ragionamenti ben condotti non bastano a difendere la giustizia. Come
affrontare, educare, la nostra parte irrazionale? Platone sapeva meglio
di tanti altri che si corrono rischi gravi quando la verità inizia a
essere nascosta, anche se il fine è la giustizia. Ma quali erano, e
sono, le alternative? Che valore ha un’idea che rimane solo sulla carta,
che non è capace di incidere sulla realtà?
O il fallimento di
Socrate o il tradimento di Platone, insomma. Da una parte c’è la
rivendicazione del valore della testimonianza; il coraggio di tenere
accesa la fiammella mentre il buio sembra avvolgere tutto; e la
convinzione che i tempi oscuri non sono destinati a durare per sempre,
la fiducia nella capacità degli uomini di parlarsi e ascoltare.
Dall’altra la presa d’atto che una testimonianza, da sola, per quanto
nobile, non può cambiare la realtà delle cose, perché troppo grande è il
disordine nel mondo degli uomini; e la decisione di immergersi in
questo disordine per cercare di controllarlo, anche a costo di
sbagliare.
«Chi cavalca la tigre non può smontare», recita un
proverbio cinese: meglio rinunciare fin da subito, rimanendo coerenti
con i propri princìpi, o rischiare? Difficile dire quale delle due
posizioni sia la migliore — o la meno peggio. Ma altre non ce ne sono, e
ognuno di noi si trova davanti a quello stesso bivio che Platone fu il
primo a vedere. Oggi non meno di ieri.