Il Sole 28.6.18
La minaccia di un paese senza opposizione
di Pietro Paganini
L’ultima
tornata elettorale conferma che in Italia potrebbe esserci un problema
democratico. Non è il governo Giallo-Verde e i suoi componenti come
molti analisti vogliono farci credere (per mascherare la loro precedente
insensibilità) . È l’opposizione (che negli ultimi due decenni fu
maggioranza) che non c’è più. I partiti che dovrebbero rappresentare
l’altro 40% degli elettori o provare a rispondere ai problemi del 100%
dei cittadini, si stanno sciogliendo tra le banalità dei grossolani
errori tattici e strategici che continuano a compiere.
Viene a
mancare di fatto il pluralismo tipico delle liberaldemocrazie a
fondamento della Società aperta. Senza il conflitto democratico
l’ossigeno per la convivenza tra cittadini diversi si affievolisce, si
riduce la libertà individuale, rallenta l’innovazione e quindi lo
sviluppo economico.
Il populismo riempie un vuoto. Come la
gramigna germoglia dove non cresce l’erba buona. I populisti reagiscono
alle amnesie dell’establishment finanziario e burocratico rispondendo ai
problemi dei forgotten, di quella parte della popolazione che è rimasta
esclusa o è vittima – mai protagonista – dei processi decisionali. Chi è
stato ed era convinto di essere la guida costruttiva del futuro dei
cittadini, sta sbagliando tutto, e oggi rischia di sparire
nell’irrilevanza danneggiando se stesso e tutti noi.
Dove è chi
dovrebbe contrastare il populismo? Il problema non è solo italiano, è
europeo, e americano. In Italia il Partito democratico (Pd) sta
confermando di non avere un progetto da presentare al Paese. Ha perso la
sua identità. Ha inseguito (sarebbe stato giusto) la voglia di mercato
globalizzato, ma dimenticandosi totalmente dei cittadini (e quindi del
mercato). Il centro-destra e l’area così detta moderata vorrebbero il
potere senza idee.
I governi precedenti dicevano di voler
proiettare l’Italia nel futuro, di digitalizzare l’economia e
modernizzare la società. Hanno però evitato con cura il metodo
sperimentale tipico delle liberaldemocrazie, cioè lo strumento che
avrebbe loro consentito di diagnosticare i problemi ed elaborare delle
soluzioni alle sfide del nuovo. Il futuro è diventato così una
religione, un obbligo ideologico (se non di mero potere), privo di
qualsiasi sostanza, cui i cittadini avrebbero dovuto affidarsi.
I
cittadini non sono sciocchi come spesso crede (si leggano i commenti di
questi giorni) chi distorce l’idea di epistocrazia, il primato della
competenza. Di fronte ai problemi di tutti i giorni i cittadini temono
il salto nel vuoto, e rifiutano quel futuro a loro oscuro.
E hanno
ragione. In quel futuro il pluralismo svaniva e con esso il conflitto
tra cittadini diversi; il mercato era un oligopolio delle élite,
inaccessibile ai più; la tecnologia, la globalizzazione, la
frammentazione del mercato del lavoro, erano diventati un’imposizione
dall’alto e non una naturale evoluzione delle cose. Le elezioni recenti
confermano questa tendenza con la crescita continua di consensi per la
reazione detta populista. Così negli Usa il presidente Trump che è un
corpo estraneo rispetti all’establishment del partito raccoglie –
secondo i sondaggi – il 90% dei consensi tra gli elettori repubblicani.
Dobbiamo
elaborare una nuova idea di futuro. Che non è quella indefinita della
reazione populista. Essa ha furbescamente risposto con la stessa
religione e ideologia dei partiti tradizionali, ma partendo dal
rassicurare emotivamente l’elettore e mettendolo davanti a tutto. Fa
proposte, a volte interessanti, ma prive di razionalità. La gramigna può
essere sradicata, ma va sostituita con l’erba buona, altrimenti
ricresce. I cittadini vanno inclusi e stimolati a contribuire al
progetto del futuro, anche e soprattutto quando è complesso e faticoso.
Le reazioni alla disfatta del Partito democratico perpetuano
incredibilmente gli stessi errori: ignorare i cittadini (salvo chiedere
il voto), evitare di stimolare il conflitto democratico, pensare il
futuro senza il metodo sperimentale, rassicurare i cittadini con
risposte ideologiche e religiose, senza renderli consapevoli che
problemi nuovi richiedono risposte diverse.
Si insiste nel
tentativo di convincere gli elettori che non servono le idee ma bastano
le sigle e, i contenitori, e lo scimmiottamento incondizionato delle
élite estere (la Francia è di moda).
L’opposizione deve ripensarsi
nei contenuti (le sigle conseguono) sfruttare questo fallimento dei
vecchi gestori come un’opportunità per reniventare il futuro ma
coinvolgendo i forgotten, non ignorandoli. La diversità di genere, per
esempio, o l’accoglienza, sono un tema tra i tanti per un liberale. Se
dovessero diventare, come in Italia, o negli Usa per i Democratici, il
punto principale dell’agenda, allora cadremmo nuovamente nello
storicismo ideologico tipico delle élite radicali da salotto. La Società
aperta deve puntare alla pluralità degli interessi dei cittadini
dimenticati, e non alle questioni di una sola parte. La sconfitta
elettorale può essere salutare. Ma il male va prima diagnosticato e poi
curato con le medicine giuste. Chi ripete il medesimo errore di sempre, è
destinato a sparire. Svegliati opposizione. Non servono nomi o volti,
ma idee su come concretamente favorire una società più libera e prospera
dei cittadini.