Corriere 28.6.18
Il frontismo non risolverà la crisi dei democratici
di Antonio Macaluso
Tu
chiamale, se vuoi, emozioni. Non basterà un magistrale verso di Mogol a
un Pd in coma farmacologico da troppo tempo. Ma certo è proprio di
emozioni che avrebbe bisogno il suo popolo, quel poco che è rimasto
fedele a un simbolo vuoto e quello assai più numeroso che una dolorosa
diaspora ha portato chi a destra, chi nel M5S, chi al non voto.
Il
punto è che emozionare è difficile, esige testa, cuore, gambe. Tre
virtù che da molto tempo non riescono a entrare in uno stesso corpo di
leader progressista. Abbiamo visto quindi alternarsi alla guida del Pd
quelli che si sono poi rilevati — senza offesa — mezzi leader: chi ha
avuto cuore e gambe ma poca testa, chi testa e gambe, ma cuore
deboluccio e così via. I risultati, del resto, questo ci dicono. Come
nello sport, sarà pure che ultimamente il partito ha trovato avversari
più forti, più in forma, ma questo non giustifica il calo impietoso di
rendimento. Calcisticamente, per dirla con l’ex ministro Carlo Calenda,
che paventa ormai il rischio irrilevanza, potremmo parlare non più di
serie B ma di zona retrocessione in C. Calenda rilancia dunque l’idea di
un Pd che si faccia guida di uno schieramento più largo, che torni a
recuperare i pezzi che ha perso a sinistra. Il reggente del partito,
Maurizio Martina, invoca un cambio di persone e di idee. Verrebbe da
dire: complimenti, ci siete arrivati.
E comunque né la soluzione
«frontista», né quella di un cambio di pelle tutto interno al Pd sono
semplici. In comune hanno che un leader tutto nuovo e che funzioni va
comunque trovato e rapidamente. Ma si sa che i numeri uno non sono
quelli costruiti in un’assemblea o in un congresso sulla base di giochi
di corrente o convenienze personali. Al contrario, gli organismi
collegiali dovrebbero investire leader un uomo o una donna che abbiano
già mostrato in modo chiaro e inequivocabile di avere le doti necessarie
o che le abbiano ma non del tutto espresse. Matteo Salvini è il capo
indiscusso della Lega perché si è imposto — dentro e fuori il partito —
come leader. L’investitura ha formalizzato una situazione di fatto. E
così dovrà essere per il Pd se vorrà metter fine a giochetti di potere
di piccolo cabotaggio.
Ci si interroga oggi, con qualche anno di
ritardo, se quella fusione «a freddo» tra ex comunisti e mondo della
sinistra cattolica che diede vita all’Ulivo non sia stata un errore o se
— buone le intenzioni — ci siano stati errori umani di gestione. Come
in un disastro aereo, ci vorrebbe una «scatola nera» che desse delle
risposte incontrovertibili. Ma quella scatola non c’è e le testimonianze
dei sempre meno sopravvissuti — davvero ne hanno l’animo — sono, come
spesso accade, incerte, lacunose e contraddittorie.
In queste ore,
in questi giorni è cominciata la sagra delle parole, delle accuse, dei
rimpianti, delle buone intenzioni. Ogni tanto sibila qualche idea, ma ci
vuole ben altro per dare un segnale forte di vitalità. Ed è assai
dubbio che ciò possa avvenire andando a ripescare esperienze frontiste
di cui al momento si avverte più il rischio anacronistico di una
impaurita trincea che non la costruzione di una snella sinistra moderna.
Il rischio è che quel fronte raccolga una buona parte dei reduci e dei
fuoriusciti in uno spirito di disperata resistenza. Una linea del Piave
buona per giocare con i soldatini, non per affrontare uno schieramento
mixato populista-sovranista in una battaglia vera e internazionale.
La
via maestra per il rilancio — se mai verrà individuata — appare ancora
lontana, ben nascosta, impervia. Né è alle viste — tra i volti di una
classe dirigente squalificata da tante sconfitte — l’immagine di un
leader operaio che possa appassionare, unire, stupire, perfino. Siamo
certi che da qualche parte sia, che già esista — magari senza saperlo — e
bisogna solo trovarlo. Forse è un dirigente locale, o solo un
«simpatizzante», un giovane, un ragazzo o una ragazza pieni di passione e
di idee pulite, con una carica umana che riesca a ricreare emozioni.
Emozioni a sinistra. Trovarlo è il compito dei Renzi, dei Martina, degli
Orlando e così via. Trovarlo e fargli largo, lanciarlo, accreditarlo.
Lasciando da parte, almeno a un passo dal baratro, le loro vanità
sconfitte.