Il Sole 12.6.18
Donald Trump e Kim Jong-un
Un dossier da non banalizzare
di Ugo Tramballi
«Non
credo di dovermi preparare molto: tutto dipende dall’atteggiamento,
dalla volontà di fare le cose», diceva qualche giorno fa Donald Trump
del suo incontro con Kim Jong-un. La semplificazione di ciò che invece è
complesso, insieme alla presunzione di essere un uomo speciale – «a
very stable genius», aveva twittato una volta – sono qualità pericolose
per un presidente degli Stati Uniti.
È la certezza di saper
risolvere un conflitto durato 70 anni; di ottenere ciò che vuole da un
dittatore più instabile di lui; di tener sotto controllo i piani cinesi;
di rispondere alle aspettative degli alleati Sud-coreani e giapponesi. È
in sostanza questa assenza di dubbi nelle dichiarazioni e nei messaggi
di Trump su cose così grandi e complesse, che preoccupa la comunità
internazionale.
Tutti i confronti diplomatici sono un dedalo in
fondo al quale si arriva, se si arriva, dopo aver fatto dolorose
concessioni e ripetutamente sfiorato il fallimento. Fra i negoziatori e
gli sherpa la più banale ma più vera delle affermazioni è che il diavolo
si nasconde sempre nei dettagli. Esattamente ciò di cui Trump sembra
non interessarsi: i dettagli. Un diplomatico che era stato nello staff
repubblicano, sostiene che il presidente «pensa che tutto quello che
serve sia chiudersi per due ore in una stanza con Kim, e che tutto possa
essere sbrigato». Come se il dittatore coreano fosse un immobiliarista
di New York, e in gioco non ci fosse la stabilità dell’area geografica
commercialmente più dinamica del mondo ma un lotto da edificare a Lower
Manhattan.
È comunque uno sviluppo storico della lunga crisi
coreana, che il presidente Usa e il leader del Nord si incontrino e si
parlino. Il nonno e il padre di Kim avevano sempre sognato di uscire
trionfalmente dal loro isolamento, stringendo la mano addirittura del
capo supremo americano. Non avevano mai ottenuto più di un segretario di
Stato. Qualcuno a Washington fa notare che Trump ha fatto questa
importante concessione senza chiedere nulla in cambio. Il sospetto –
meglio, la grande paura – è che per ottenere il successo che manca dopo
un anno e mezzo, Trump voglia raggiungere obiettivi che per tutti tranne
che per lui, sarebbero invece dei fallimenti. Il presidente potrebbe
chiedere al Nord di smantellare il suo programma missilistico
strategico, quello che potrebbe minacciare il territorio americano, ma
non anche i vettori di breve e media gittata. L’America sarebbe in
sicurezza, non gli alleati della Corea del Sud e del Giappone. In cambio
di altre concessioni Trump potrebbe mettere sul piatto anche il ritiro
dei quasi 29mila soldati Usa in Corea del Sud, aggravando ancora di più
la sicurezza degli alleati nella regione. Durante la campagna elettorale
Trump aveva consigliato coreani e giapponesi di dotarsi di arsenali
indipendenti, proponendo una proliferazione nucleare che avrebbe reso il
mondo più pericoloso ma l’America non vincolata verso gli alleati.
Tutte queste erano eventualità impensabili: fino al G7 di due giorni fa,
quando Trump ha tradito gli alleati occidentali in ogni capitolo
dell’agenda del vertice, chiamando questo terremoto “America first”. Una
bussola che potrebbe indicare la direzione anche a Singapore, nel
faccia a faccia con Kim.
A poche ore dal primo incontro fra i due,
il dubbio che non è ancora stato chiarito è se, come e quando la Corea
del Nord sia pronta a rinunciare non solo al programma nucleare ma anche
alle bombe che già possiede: forse già un centinaio. Nella storia della
proliferazione nucleare molti Paesi hanno cancellato i loro programmi
ma non gli arsenali, se li avevano già creati. Cosa farà Kim? E come
reagirà Trump a caccia di un successo, se da una trattativa sul nucleare
la Corea facesse uscire il suo nucleare?