il manifesto 8.7.18
La pena, signor ministro, per i detenuti è certissima
Vecchie ricette. La giustizia secondo il nuovo governo giallo-verde
di Patrizio Gonnella
Più
carceri da costruire, più carcere per tutti, più certezza della pena. È
stato questo in estrema sintesi il passaggio dedicato al carcere
all’interno del discorso in Parlamento del presidente del consiglio,
Prof. Giuseppe Conte. Una ricetta generica, nota, costosa, che, se
realizzata, produrrà gravi danni umani e sociali. Una ricetta che viene
rinforzata dalle dichiarazioni del ministro di Giustizia Alfonso
Bonafede il quale ha preannunciato il ridimensionamento del sistema
delle misure alternative al carcere. Un grave errore concettuale che
consiste nell’identificare la pena con il carcere. La sicurezza si
costruisce favorendo il reinserimento sociale e non rinchiudendo i corpi
in prigioni da cui un giorno o l’altro usciranno.
«Bisogna aver
visto», affermava il grande giurista Pietro Calamandrei nell’invocare
nell’immediato secondo dopoguerra una commissione di inchiesta sulle
carceri italiane. Insieme a lui c’era l’azionista e radicale Ernesto
Rossi. Il carcere va visto, va ascoltata la sofferenza che contiene.
Vanno visti i volti e sentite le voci che lo abitano. Per conoscere un
carcere bisogna starci ore, giorni. Solo chi lo ha visto sa quanto il
carcere sia selettivo, quanto sia di classe.
La certezza della
pena non ha nulla di scientifico. È uno slogan. Per i tanti, troppi
detenuti reclusi nelle prigioni italiane la pena è più che certa, anzi
certissima. Solo andando in carcere e parlando con i detenuti si potrà
capire che il problema della giustizia penale non è quello della
prescrizione (possiamo mai tenere in eterno una persona prigioniera del
processo?) o della legittima difesa (norma già più volte modificata
proprio dalla Lega) ma della durezza e selettività sociale della
risposta repressiva. In carcere si incontrano persone che stanno
espiando 20 di pena per un cumulo di piccoli furti. Si incontrano
ragazzini stranieri tristi e soli ignari del motivo del loro
imprigionamento. Nei loro confronti la pena è certissima, mentre la
giustizia è ingiusta. Il 34% dei detenuti in Italia è dentro seppur
presunto innocente. Per loro l’esito del processo è incerto ma la pena è
di fatto già in corso.
Il carcere bisogna averlo visto, proprio
come fece Henry Brubaker, nell’omonimo film. Lui era direttore di
carcere e si finse detenuto per comprendere le tragiche e violente
condizioni di vita nelle prigioni dell’Arkansas. Solo chi visita le
carceri sa che in esse operano straordinari professionisti – direttori,
poliziotti, educatori, assistenti sociali, medici, psicologi– grazie ai
quali la vita penitenziaria è scandita nel pieno rispetto della dignità
umana. Alla loro lealtà costituzionale dobbiamo molto. Hanno tenuto in
piedi il sistema anche nei momenti bui.
Nel contratto M5S – Lega,
allo scopo di assecondare qualche organizzazione sindacale autonoma, si è
scritto che deve essere eliminata la sorveglianza dinamica, ossia la
possibilità per i detenuti di trascorrere parti della giornata fuori
dalla cella, ma pur sempre in galera. In questo modo i detenuti saranno
trasformati in persone abbrutite, la violenza aumenterà, i reclusi
torneranno a essere chiamati camosci e i poliziotti toneranno a fare i
girachiavi. È questo il grande cambiamento di cui si parla?
Infine
uno sguardo critico all’evocazione della solita ricetta edilizia. La
costruzione di nuove carceri è una proposta non innovativa, ripetuta
come un mantra, ma culturalmente, criminologicamente ed economicamente
sbagliata. Ci sono pene ben più utili rispetto alla prigione. Ci sono
reati che andrebbero depenalizzati. Ma non era il M5S a favore della
legalizzazione della cannabis? Un carcere è un’opera pubblica. Costa.
Costruire nuove galere significherà imporre nuove tasse ai cittadini.
*Presidente Antigone