venerdì 8 giugno 2018

Corriere 8.7.18
Carcere e regole, i 5 stelle non si fidano più dei giudici
di Luigi Ferrarella


Il ministro della Giustizia e dirigente del partito che in teoria più appoggia i magistrati sembra non avere molta fiducia nei magistrati. Almeno a giudicare il sottotesto di due annunci (nella prima intervista a Il Fatto Quotidiano ) dell’avvocato civilista neo Guardasigilli, il 5 Stelle Alfonso Bonafede: stop alla riforma dell’ordinamento penitenziario, perché il decreto legislativo sulle misure alternative al carcere «mina alla base il principio della certezza della pena» soprattutto nell’«allargamento della platea con l’estensione della sospensione della pena ai condannati fino a 4 anni di carcere»; e potenziamento della legittima difesa con «la cancellazione delle zone d’ombra che costringono molti cittadini che si sono difesi a essere sottoposti a tre gradi di giudizio».
Sul primo punto, il decreto legislativo sulle misure alternative al carcere (alla vigilia delle elezioni lasciato incompiuto a un passo dall’approvazione definitiva dai governi Renzi e Gentiloni per pavidità politica, poi ugualmente punita dal voto che ha premiato movimenti come 5 Stelle e Lega sempre contrari al lunghissimo iter parlamentare della legge delega) in realtà non avrebbe affatto comportato un «liberi tutti» automatico: avrebbe invece soltanto ampliato la possibilità, anche per i detenuti con condanne definitive o residui di pena sino a 4 anni (invece dei 3 attuali), di domandare ai giudici di sorveglianza l’ammissione a forme di esecuzione della pena alternative al carcere. Cioè a forme, quali l’affidamento in prova ai servizi sociali, che hanno statisticamente dimostrato di saper restituire alla collettività ex detenuti assai meno recidivi di quelli che scontano la loro pena tutta e solo in carcere: basti pensare a quanto poco sia noto che al 31 ottobre 2017 avevano già altre condanne alle spalle 8.441 detenuti stranieri (il 43% del loro totale), e quasi 3 detenuti italiani su 4, 26.781 reclusi, oltre 6.000 addirittura con più di 5 precedenti carcerazioni. Dunque la ragione delle progettate nuove norme non era svuotare le carceri, bensì riempire di maggior sicurezza i cittadini destinati prima o poi a ritrovarsi per strada a fine pena qualunque detenuto (salvo li si voglia invece tutti all’ergastolo per qualunque reato). E neanche c’era alcun automatismo concessivo: anzi, al contrario, la legge ormai abortita, oltre a pretendere dall’affidato in prova condotte volte a riparare le conseguenze del reato commesso (compresa la possibilità di accettare di prestare lavoro di rilievo sociale o di utilità pubblica), avrebbe abrogato la legge del 2010 che — quella sì al solo fine di decongestionare le carceri — ha consentito pressoché automaticamente di espiare a casa le pene sino a 18 mesi.
Ecco dunque che affondare come primo atto di governo in tema di giustizia il decreto sulle misure alternative, a colpi di automatismi preclusivi, equivale a segnalare che «il governo del cambiamento» nutre una sottostante sfiducia nella capacità quotidiana dei magistrati di valutare, distinguere e diversamente trattare le differenti risposte dei detenuti all’esecuzione della pena.
E quando il ministro aggiunge comunque di «credere nella funzione rieducativa della pena, che per noi passa innanzitutto attraverso il lavoro in carcere», viene da pensare che, se così fosse davvero, non butterebbe nel cestino un altro dei decreti già pronti nell’abbandonata riforma penitenziaria: e cioè quello importantissimo proprio sul lavoro, che finalmente sembrava persino aver trovato serie risorse finanziarie. Analoga sfiducia nell’operato quotidiano dei magistrati, singolare proprio perché espressa nei fatti da paladini a parole dei magistrati, emerge nell’annunciato pagamento alla Lega di Salvini della cambiale di una legge-manifesto sulla legittima difesa. Anche qui, infatti, a meno di immaginare una legge che consenta sempre di uccidere a difesa del patrimonio (in palese contrasto con la Costituzione e con l’articolo 2 della Convenzione europea dei diritti umani), in qualunque episodio occorrerà sempre un accertamento giudiziario (e quindi per forza una formale iscrizione nel registro degli indagati dell’aggredito proprio per garantirgli le facoltà di legge, ad esempio nelle perizie balistiche tante volte decisive per il suo proscioglimento già in indagini preliminari) per verificare se il pericolo fosse attuale e imminente; se la reazione fosse necessaria e proporzionata all’offesa; se vi sia stato un eccesso doloso (vendetta), o un eccesso colposo (si è sparato solo per spaventare un ladro disarmato e invece lo si è ferito), o un eccesso incolpevole (gli si è sparato alle gambe ma lo si è colpito in un punto vitale), o una legittima difesa putativa (per errore si è creduto che il ladro impugnasse una pistola e invece aveva una lampadina).
L’idea dunque di risolvere «le zone d’ombra» con nuovi pasticciati automatismi (tipo quello al quale anche il Pd si stava adeguando in scia alla Lega pochi mesi fa) equivale a manifestare sfiducia nel modo con il quale i magistrati verificano caso per caso, dinamica per dinamica, i presupposti nei quali la reazione diventa legittima.