Corriere 8.7.18
Carcere e regole, i 5 stelle non si fidano più dei giudici
di Luigi Ferrarella
Il
ministro della Giustizia e dirigente del partito che in teoria più
appoggia i magistrati sembra non avere molta fiducia nei magistrati.
Almeno a giudicare il sottotesto di due annunci (nella prima intervista a
Il Fatto Quotidiano ) dell’avvocato civilista neo Guardasigilli, il 5
Stelle Alfonso Bonafede: stop alla riforma dell’ordinamento
penitenziario, perché il decreto legislativo sulle misure alternative al
carcere «mina alla base il principio della certezza della pena»
soprattutto nell’«allargamento della platea con l’estensione della
sospensione della pena ai condannati fino a 4 anni di carcere»; e
potenziamento della legittima difesa con «la cancellazione delle zone
d’ombra che costringono molti cittadini che si sono difesi a essere
sottoposti a tre gradi di giudizio».
Sul primo punto, il decreto
legislativo sulle misure alternative al carcere (alla vigilia delle
elezioni lasciato incompiuto a un passo dall’approvazione definitiva dai
governi Renzi e Gentiloni per pavidità politica, poi ugualmente punita
dal voto che ha premiato movimenti come 5 Stelle e Lega sempre contrari
al lunghissimo iter parlamentare della legge delega) in realtà non
avrebbe affatto comportato un «liberi tutti» automatico: avrebbe invece
soltanto ampliato la possibilità, anche per i detenuti con condanne
definitive o residui di pena sino a 4 anni (invece dei 3 attuali), di
domandare ai giudici di sorveglianza l’ammissione a forme di esecuzione
della pena alternative al carcere. Cioè a forme, quali l’affidamento in
prova ai servizi sociali, che hanno statisticamente dimostrato di saper
restituire alla collettività ex detenuti assai meno recidivi di quelli
che scontano la loro pena tutta e solo in carcere: basti pensare a
quanto poco sia noto che al 31 ottobre 2017 avevano già altre condanne
alle spalle 8.441 detenuti stranieri (il 43% del loro totale), e quasi 3
detenuti italiani su 4, 26.781 reclusi, oltre 6.000 addirittura con più
di 5 precedenti carcerazioni. Dunque la ragione delle progettate nuove
norme non era svuotare le carceri, bensì riempire di maggior sicurezza i
cittadini destinati prima o poi a ritrovarsi per strada a fine pena
qualunque detenuto (salvo li si voglia invece tutti all’ergastolo per
qualunque reato). E neanche c’era alcun automatismo concessivo: anzi, al
contrario, la legge ormai abortita, oltre a pretendere dall’affidato in
prova condotte volte a riparare le conseguenze del reato commesso
(compresa la possibilità di accettare di prestare lavoro di rilievo
sociale o di utilità pubblica), avrebbe abrogato la legge del 2010 che —
quella sì al solo fine di decongestionare le carceri — ha consentito
pressoché automaticamente di espiare a casa le pene sino a 18 mesi.
Ecco
dunque che affondare come primo atto di governo in tema di giustizia il
decreto sulle misure alternative, a colpi di automatismi preclusivi,
equivale a segnalare che «il governo del cambiamento» nutre una
sottostante sfiducia nella capacità quotidiana dei magistrati di
valutare, distinguere e diversamente trattare le differenti risposte dei
detenuti all’esecuzione della pena.
E quando il ministro aggiunge
comunque di «credere nella funzione rieducativa della pena, che per noi
passa innanzitutto attraverso il lavoro in carcere», viene da pensare
che, se così fosse davvero, non butterebbe nel cestino un altro dei
decreti già pronti nell’abbandonata riforma penitenziaria: e cioè quello
importantissimo proprio sul lavoro, che finalmente sembrava persino
aver trovato serie risorse finanziarie. Analoga sfiducia nell’operato
quotidiano dei magistrati, singolare proprio perché espressa nei fatti
da paladini a parole dei magistrati, emerge nell’annunciato pagamento
alla Lega di Salvini della cambiale di una legge-manifesto sulla
legittima difesa. Anche qui, infatti, a meno di immaginare una legge che
consenta sempre di uccidere a difesa del patrimonio (in palese
contrasto con la Costituzione e con l’articolo 2 della Convenzione
europea dei diritti umani), in qualunque episodio occorrerà sempre un
accertamento giudiziario (e quindi per forza una formale iscrizione nel
registro degli indagati dell’aggredito proprio per garantirgli le
facoltà di legge, ad esempio nelle perizie balistiche tante volte
decisive per il suo proscioglimento già in indagini preliminari) per
verificare se il pericolo fosse attuale e imminente; se la reazione
fosse necessaria e proporzionata all’offesa; se vi sia stato un eccesso
doloso (vendetta), o un eccesso colposo (si è sparato solo per
spaventare un ladro disarmato e invece lo si è ferito), o un eccesso
incolpevole (gli si è sparato alle gambe ma lo si è colpito in un punto
vitale), o una legittima difesa putativa (per errore si è creduto che il
ladro impugnasse una pistola e invece aveva una lampadina).
L’idea
dunque di risolvere «le zone d’ombra» con nuovi pasticciati automatismi
(tipo quello al quale anche il Pd si stava adeguando in scia alla Lega
pochi mesi fa) equivale a manifestare sfiducia nel modo con il quale i
magistrati verificano caso per caso, dinamica per dinamica, i
presupposti nei quali la reazione diventa legittima.