il manifesto 29.6.18
Pechino è «soddisfatta» ma rimane scettica
La
pace mediatica. Xi Jinping e Kim si sono evitati per anni e nel giro di
pochi giorni si sono incontrati tre volte. Il Pcc punta a inglobare
Pyongyang nella via della seta
di Alessandra Colarizi
Il
12 giugno alle 13.41, al secondo piano del lussuoso Capella Hotel di
Singapore, Donald Trump e Kim Jong-un suggellavano lo storico meeting
con la firma di un comunicato congiunto dai toni nebulosi.
Alcune ore
prima che la Casa Bianca pubblicasse una copia dell’accordo su Twitter,
una traduzione in lingua cinese ne aveva anticipato fedelmente i
contenuti.
Ogni dettaglio ha la sua rilevanza nella ricostruzione di
quel frenetico lasso di tempo in cui l’attenzione mediatica si è
spostata rapidamente a Pechino. Lì, riaffermando in conferenza stampa il
sostegno al processo di pace, il portavoce del ministero degli Esteri
Geng Shuang salutava il vertice ancora in corso come una vittoria
dell’iniziativa «suspension for suspension», la ricetta sponsorizzata
nell’ultimo anno dal governo cinese – e in passato rifiutata
categoricamente dall’amministrazione americana – che prevede il
congelamento del programma nucleare e missilistico nordcoreano in cambio
dell’interruzione delle esercitazioni militari congiunte tra Washington
e Seul.
Letteralmente: «i fatti hanno dimostrato che l’iniziativa
della doppia sospensione proposta dalla Cina si è materializzata e ora
la situazione sta procedendo anche nella direzione di un approccio
dual-track».
Per «fatti» s’intende la decisione inattesa con cui
Trump ha proclamato l’interruzione delle operazioni militari con Seul,
spiazzando tanto la Casa Blu quanto il Pentagono. Ma parlare di
«materializzazione» è improprio considerando che l’annuncio sarebbe
stato fatto soltanto circa un’ora più tardi in un incontro con i media,
quando ormai Kim era già in fase di rimpatrio.
Considerata la
cronologia degli eventi, le doti profetiche di Pechino sembrerebbero
rivelare una conoscenza particolarmente approfondita di quanto negoziato
a porte chiuse dai vertici americani e nordcoreani negli scorsi mesi,
spiegabile solo alla luce di una comunicazione costante con
l’establishment di Pyongyang.
In cerca di una sponda amica nelle
trattative con Trump, da marzo a oggi, l’ultimo discendente della
dinastia Kim ha deliziato la leadership cinese con tre visite
(«informali») oltre la Muraglia in soli 100 giorni, un primato senza
precedenti tra la diplomazia mondiale.
Pochi giorni fa, accogliendo
il giovane leader, il presidente Xi Jinping ha lodato l’esito «positivo»
del summit di Singapore in riferimento all’impegno comune nel processo
di pace e denuclearizzazione della penisola.
«A prescindere dai
cambiamenti nella situazione internazionale e regionale, la posizione
risoluta del partito e del governo cinese riguardo alla necessità di
consolidare e sviluppare le relazioni sino-nordcoreane non cambierà mai»
ha sottolineato Xi, dando la propria disponibilità a collaborare con la
Corea del Nord nel perseguimento di «un futuro più bello per i progetti
socialisti dei due paesi». Chiaro riferimento alla creazione di
possibili sinergie in ambito economico attraverso l’introduzione di
riforme di denghiana memoria. Non a caso a stretto giro dal vertice il
ministero degli Esteri cinese ha ricordato come le risoluzioni Onu
prevedano «la pausa e la rimozione delle sanzioni» nel caso in cui
Pyongyang rispetti gli impegni presi.
A seguire, un riferimento
puntuale e perentorio sull’imprescindibilità di un coinvolgimento cinese
nella riscrittura degli equilibri regionali una volta firmato un
trattato di pace necessario a mettere fine “de jure” alla guerra nella
penisola (“nessuno può dubitare del ruolo estremamente unico e
importante della Cina. E questo ruolo continuerà”).
La riaffermazione
della fratellanza tra i due vecchi alleati comunisti arriva dopo anni
di tensioni, aggravate dall’esecuzione per «alto tradimento» dello zio
filocinese di Kim, Jang Song Thaek, che stando agli analisti ha coinciso
con il congelamento di una serie di progetti economici sino-coreani e
il conseguente allontanamento dalle riforme.
Le passate ostilità e i
timori di una possibile emarginazione di Pechino dai negoziati sono
tutt’ora riscontrabili nella cauta copertura riservata dai media statali
all’indomani del summit.
Le prime pagine dell’agenzia Xinhua e del
quotidiano ufficiale People’s Daily sono state monopolizzate dall’ultima
edizione della Shanghai Cooperation Organization, celebrata a mezzo
stampa come contraltare a un G7 agonizzante.
Più audace il Global
Times che, alla prospettiva di una Corea del Nord aperta ai capitali
esteri, da mesi invita gli investitori cinesi alla prudenza, ricordano
le molte insidie del fare affari a Nord del 38esimo parallelo, arrivando
persino a titolare «I benefici dell’unificazione coreana saranno
verosimilmente interni».
Messaggio dissoltosi nell’etere a giudicare
dall’entusiasmo con cui il Dongbei (il Nordest della Cina) ha già
parzialmente ripristinato i commerci in barba alle sanzioni.
Al
quotidiano della politica estera cinese va anche la paternità di
un’analisi particolarmente disillusa sulle ripercussioni del summit
nell’Asia Orientale: «una volta che la penisola coreana si sarà
stabilizza, il Mar Cinese Meridionale e Taiwan diventeranno le due
principali aree di crisi In breve, anche in caso di una sospensione
delle esercitazioni militari congiunte Usa-Corea del Sud, la riduzione
delle forze statunitensi o il loro ritiro totale dalla regione rimane
un’ipotesi piuttosto irrealistica».
La riservatezza degli organi
ufficiali scolora davanti alla loquacità della pancia del paese. Come
spesso accade in Cina, è in rete che si misurano veramente gli umori del
popolo.
Nonostante le maglie strettissime della censura, su Weibo
l’hashtag «North Korea-US Summit» ha ricevuto oltre 30 milioni di
visualizzazioni.
I commenti spaziano dalle ironiche allusioni alle
pettinature e alla stazza di Kim e Trump fino alle osservazioni
titubanti sull’esito evanescente del meeting. «Non sarà troppo presto
per definire il vertice un successo?» si chiede un utente ricordando
come in fin dei conti «si tratta di due persone che hanno quasi
scatenato la Terza Guerra Mondiale».