giovedì 28 giugno 2018

il manifesto 28.6.18
Chichita Calvino, gli affetti di una ragazza d’altri tempi
Scomparsa qualche giorno fa a Roma, all'età di 93 anni, la vedova dello scrittore di cui fu traduttrice finissima
di Ginevra Bompiani

Chichita Calvino è morta il 23 giugno scorso. Ci conoscevamo da moltissimi anni. Lei diceva che ci eravamo conosciute a Parigi, nei primi anni ’60, e che io portavo un vestito di mia madre. Non lo ricordo e mi sembra strano: mia madre era più piccola di me. Ma lei ricorda tutto alla perfezione, voglio dire che il suo ricordo era perfetto anche quando non era giusto. Me lo ha detto recentemente, quando sono riuscita finalmente a rivederla. Per anni, dopo la morte di Calvino, ci eravamo perse di vista, e da anni chiedevo agli amici di portarmi da lei. Finalmente Goffredo Fofi lo ha fatto e così l’ho ritrovata. Era nella sua casa di Campo Marzio, dove sono stata tante volte negli anni ’80, confinata a una piccola camera da letto, che non era la sua, dove la sua vita si svolgeva interamente.
VIVEVA seduta sul letto, non semidistesa, ma come se stesse per alzarsi, con le gambe verso il pavimento dove non arrivavano, quasi senza appoggio perché la schiena dolorante non glielo permetteva. Sul letto teneva il computer, tutt’intorno aveva un tavolino con sigarette e portacenere, ripiano con televisore, il mobile delle medicine, i ritratti.
Eravamo tutt’e due, credo, imbarazzate e un po’ commosse. Ma lei cominciò subito a parlare, e quando Goffredo si alzò e andò via, continuò con me, come se ci vedessimo tutti i giorni da sempre. Raccontava episodi della sua vita, della mia, la morte di Cortazar, il Che che apre la porta e la fa entrare, Italo che la prima sera a Parigi, dopo una cena con amici, la prende sotto braccio e dice: «Io vado con Chichita», e poi mi fa leggere sul pc altri pezzetti di vita, finché anch’io mi alzo e faccio per andarmene.
Allora astutamente tira fuori i suoi aneddoti più suadenti, quelli che non possono non fermarmi, un piede sulla porta, e io mi risiedo, e poi mi rialzo, e poi oscillo da un piede all’altro, finché con un piccolo strappo che graffia più me di lei, vado via. E così è stato per gli ultimi mesi, con l’aggiunta di messaggi e missive notturne, quando lei è sempre sveglia e io prima o poi.
Mi racconta quel che mangia: tre midolli al giorno (scivolano nella gola) e un panino al salmone frullato. Non può inghiottire altro. Gli amici provano a variare la sua dieta, io le porto un foie gras che rimane a sciogliersi sul comò, provo a suggerire una poltrona a rotelle, suggerisco di andarla a provare. Mi dice: «Sei meglio di una parente, sei un’amica». Ma forse scherza, perché lei scherza sempre. È la persona meno sentimentale che conosca. Ma i suoi affetti, specialmente quello per la nipotina Violette, arrivano all’entusiasmo.
QUALCHE VOLTA, seduta accanto al suo letto, mi domando: «Ma che vita è questa?..»: senza mai uscire dalla stanza, né alzarsi dal letto, senza trangugiare veramente altro che il fumo della sigaretta, sola per lo più, soprattutto la notte, i figli lontani, a volte perfino la magnifica Vicky che la assiste si allontana.. Che vita è, mi chiedevo. Stupidamente.
Ora che non c’è, quel flusso continuo e fascinoso di parole, ironico, pungente, quella voce che cade come un uccello sulla preda e vola con la parola palpitante nel becco, quella ricchezza sciorinata in disordine, non solo mi manca, ma mi pare una forma di vita fastosa e irriproducibile. All’inizio avevo pensato di raccogliere i suoi racconti come in un’intervista, ma presto ho capito che non era possibile, perché non rispondeva alle domande e non seguiva un filo. Si trattava semplicemente di ascoltare.
È femminile questa parola che non si sottrae e non si fa catturare. È la parola orale di cui la donna è maestra. È il meraviglioso «spreco» di cui la vita della donna è fatta.
Se ne può solo essere spettatori e piangerne ogni volta la scomparsa.
(E ora che siamo entrati nell’epoca delle urla e dei latrati, come ci manca la sua voce!)