Corriere 28.6.18
Comunista, nonostante tutto. La parola che dannò Berlinguer
Novecento
In un volume a più voci edito da Pendragon, Domenico Del Prete
ricostruisce le contraddizioni del leader del Pci che si distaccò, ma
non abbastanza, dall’Urss
di Marco Ascione
C’è
Biagio de Giovanni, che sentenzia: «Neanche Berlinguer si è mai posto il
problema di salvare il Pci dal suo destino, quello di non potersi
liberare del 1917». E poi Claudio Petruccioli, il quale ricorda che
Alessandro Natta, il successore di Berlinguer, davanti al crollo del
Muro di Berlino restò muto per alcuni minuti e poi alzò gli occhi al
cielo e disse: «Ha vinto Hitler». O Massimo D’Alema, che di fronte
all’obiezione sul perché il Partito comunista del compromesso storico
non ruppe con Mosca per diventare una forza occidentale, così replica:
«Il Pci era una forza comunista che faceva parte del movimento comunista
internazionale. Il comunismo era una visione del mondo che nasceva con
la Rivoluzione d’ottobre. Certo, uno poteva sentirsi comunista e non
riconoscersi in questo movimento. Ma sarebbe stato un gioco puramente
intellettuale».
Prove d’accusa, testi a discolpa. Sul banco degli
imputati è Enrico Berlinguer, icona alta e intangibile della sinistra
italiana. E, infatti, sebbene si tratti di un tema ormai antico, ci
vuole un certo coraggio a scrivere un libro intitolato L’inganno di
Berlinguer (edizioni Pendragon). L’autore è Domenico Del Prete,
giornalista e scrittore, certo per storia personale non sospettabile di
pregiudizio, già autore di libri che hanno cercato di gettare un po’ di
luce sulla storia della sinistra italiana, lì dove c’erano ombre.
Il
libro su Berlinguer è una polifonia. Osservatori e protagonisti di
quella storia raccontano. Ricostruiscono. Ciascuno con i propri accenti.
Ma l’intento dell’autore è chiaro. E suona appunto come un capo di
imputazione: la mancata svolta verso una sinistra di governo. Ossia
verso la costruzione di un partito socialdemocratico che avrebbe
consentito un’alternativa di governo con la Democrazia cristiana.
Berlinguer,
quindi, che certo aveva infine scelto l’ombrello della Nato e che
indubbiamente ai sovietici proprio non piaceva, ma che ancora nel 1976
«definiva l’Urss un Paese socialista con alcuni tratti illiberali». Si
domanda con rispetto Paolo Mieli: «Insomma, noi oggi cosa diremmo di
qualcuno che, senza voler fare paragoni, sostenesse che il fascismo era
un regime politico tutto sommato buono, ma con alcuni tratti
illiberali?».
La sintesi di Del Prete è questa: «La sua non fu
mancanza di coraggio ma di visione. Non avrebbe mai ingannato
consapevolmente il suo popolo. Ma era convinto che non si dovesse
diventare socialdemocratici e bisognasse restare ancorati al campo del
comunismo. La sua ostinazione a non passare il Rubicone facendo
diventare il Pci un partito di governo in Occidente fece pagare un
prezzo molto salato al partito e più in generale al popolo italiano
rinviando all’89, quando ormai era inevitabile, quello che poteva essere
fatto dieci anni prima per libera scelta e con altra efficacia».
Viene
da chiedersi, venendo all’oggi, se una certa sinistra, al di là dei
suoi meriti e demeriti, non riesca a perdonare a Renzi proprio questo:
di aver reciso per sempre il cordone ombelicale che ancora in qualche
modo collegava il Pd a quella parola. Comunista.