il manifesto 27.6.18
La soffocante Rete delle passioni tristi
Saggi.
«Dieci ragioni per cancellare subito i tuoi account social» di Jaron
Lanier per il Saggiatore. Il pamphlet del pioniere delle realtà virtuali
contro l’«ideologia californiana» della gratuità. La parola d'ordine è:
disconnettersi dai social network perché minacciano la democrazia e
veicolano l’odio verso le minoranze
di Benedetto Vecchi
Limitano
la libertà di scelta, favoriscono comportamenti gregari, trasformano
uomini e donne in «stronzi», minano la verità, cancellano ogni autonomia
individuale, distruggono la capacità di provare empatia nelle relazioni
umane, rendono infelici, negano ogni dignità a chi lavora, riducono la
politica in barzelletta, distruggendo così la democrazia, odiano i
singoli e le società. Sono questi i dieci validi motivi per cancellare i
propri account nei social network. L’invito, che rimbalza da una pagina
all’altra in questo pamphlet, viene da Jaron Lanier, guru della network
culture (Dieci ragioni per cancellare subito i tuoi account social, Il
Saggiatore, pp. 211, euro 10).
SCRITTO IN UNO STILE niente affatto
accattivante o analitico, il libro sembra la stenografia di un incontro
tra due vecchie conoscenze in un bar. Tra un caffè e un drink, uno
degli interlocutori non usa mezzi termini per esprimere il disgusto e la
diffidenza verso l’ideologia della Silicon Valley. La tecnologia è una
cosa buona, così come ottime persone sono molti informatici che vi
lavorano, ma le big five (Google, Facebook, Amazon, Twitter e Apple)
hanno il potere di corrompere tutto quel che «toccano», afferma più
volte l’autore prima di lanciare grida d’allarme per uno stile di vita
messo in pericolo dai social network, variamente qualificati come
fregatura o sistema che riduce uomini e donne a feroci dementi che
tirano fuori il peggio di sé quando sono on line.
Non è la prima
volta che Jaron Lanier si scaglia contro i padroni della Rete. Pioniere
delle realtà virtuali alla fine degli anni Ottanta, venture capitalist e
imprenditore di successo nei decenni successivi è da tempo convinto che
il modello di business dominante in Rete ha portato sull’orlo
dell’abisso il capitalismo e la società americana. Per evitare che tutto
precipiti, propone di disconnettersi dalla Rete per far entrare in
crisi proprio quel modello di business.
È DAI TEMPI di Tu non sei
un gadget (Mondadori) che Lanier guarda criticamente al modello di
business dominante nella Rete, cioè a quello scambio tra cessione dei
propri dati personali e alcuni servizi gratuiti garantiti dalle imprese.
Allora, siamo nel 2010, il business model veniva criticato perché leva
usata per scardinare interi settori economici (le industrie
discografica, cinematografica, editoriale). Il «vangelo» della gratuità
veniva diffuso perché sarebbe stata la pubblicità la fonte dei profitti e
il pozzo dove attingere capitali e il denaro necessario per avere tutto
senza pagare. Temi ulteriormente sviluppati ne La dignità ai tempi di
Internet (il Saggiatore).
In questo libro, invece, da buon
liberal, Lanier trasuda empatia verso l’immagine di una classe media
laboriosa e spina dorsale della società americana, divenuta però vittima
sacrificale sull’altare della economia digitale fondata sulla gratuità.
Dopo la denuncia è però venuto il tempo di passare all’azione, scrive
perentoriamente Lanier, proponendo così la disconnessione dai social
network e social media.
Molti degli j’accuse presenti nel libro
sono condivisibili, a partire dal fatto che Facebook, Twitter, ma anche
Amazon, Apple, Google fanno della manipolazione dell’opinione pubblica
l’oggetto quotidiano della loro attività. Il software, gli algoritmi, le
tecniche di intelligenza artificiale messe in campo dai mastini della
Silicon Valley servono a condizionare, influenzare, manipolare le scelte
individuali e collettive.
NON ACCADE però solo per i consumi, ma
anche per condizionare elezioni presidenziali (negli Usa, ma non solo),
referendum nazionali (la Brexit), elezioni politiche. A farlo politici
scaltri (Donald Trump o Putin, per citare i più noti). Lanier sostiene,
facendo riferimento alle inchieste giudiziarie in corso negli Usa, che i
russi hanno usato il web per screditare Hillary Clinton, favorendo così
Trump; oppure apprendisti stregoni come Steve Bannon, che hanno
alimentato il suprematismo bianco, mentre qualcuno nell’ombra usava
account falsi di presunti attivisti afroamericani per mettere in cattiva
luce «Black Live Matter».
CONDIVISIBILE è anche la denuncia delle
«tempeste di merda e odio» scatenate contro gay, afroamericani, donne,
transessuali e lesbiche. E i migranti, come accade al di là e al di qua
dell’Atlantico. Gli imprenditori della paura sono nel frattempo
diventati presidenti degli Usa, ministri degli interni, presidenti del
consiglio, premier di paesi a est e ovest dell’Elba in Europa. Tutti
accomunati dalla capacità di muoversi e alimentare il mondo della
cosiddetta «post verità» e delle «fake news», dopo aver magari messo
all’indice i vecchi media, denunciati come bugiardi nella critica delle
élite per poi diventare spacciatori di «post verità» una volta entrati
nelle stanze del potere.
Il pamphlet affronta argomenti già noti,
ma comunque utili da ricordare per capire come funziona il business plan
della «fregatura» (i social network), a partire dall’uso di algoritmi
adattivi, la miscellanea tra software open source e algoritmi blindati
da brevetti e copyright; il ruolo rilevante delle machine learning come
leva affinché la manipolazione delle relazioni e degli scambi
comunicativi risulti oggettiva e «naturale», occultando così la non
neutralità del software.
IL LIMITE DEL LIBRO non sta nella
denuncia della grande fregatura o nell’afflato nostalgico verso la
logica economica del passato celato proprio dalla proposta di
disconnessione pensata come un ritorno ai valori di un sano capitalismo,
ma nella rimozione della precarietà dei rapporti di lavoro, nella
violenza dell’espropriazione delle capacità innovative del lavoro vivo,
nelle politiche di «cattura» a monte (le materie prime) e a valle (i
contenuti) operati dalle imprese del web e non solo. Lanier si limita
solo a una disconnessione e a indicare un business model alternativo a
quello della gratuità, cioè a quella «peak tv» di Netflix, cioè nel
pagamento di un canone mensile per i servizi che può fornire un social
network o un social media. Più o meno, cioè, del business plan alla base
di iTunes della Apple che non è certo il paradiso in terra per, ad
esempio, gli operai della Foxxconn. Secondo il modello di business
alternativo proposto, il pagamento del canone renderebbe possibile la
non cedibilità dei propri dati personal, perché i profitti non
verrebbero solo dalla pubblicità ma proprio dal pagamento dei canoni.
Verrebbe così meno il dogma della gratutità in cambio della
mercificazione della propria vita, mettendo così fine al grande
disordine del capitalismo delle piattaforme. Difficile immaginare che
due miliardi di uomini e donne si disconnettano dalla Rete o che imprese
come Google o Facebook rinunciano alla loro montagna di profitti per
diventare imprese compassionevoli. Dunque, tutto ciò è più un desiderio
che l’adesione a un principio di realtà.
AL DI LÀ DELLA
DEMONIZZAZIONE della gratuità, c’è da mettere a critica un aspetto che
percorre il libro di Lanier senza trarne le dovute conseguenze: il
business model dominante in Rete parte dal presupposto che la formazione
dell’opinione pubblica sia un settore produttivo a tutti gli effetti.
Il
monitoraggio della Rete, la tracciabilità dei comportamenti
individuali, la loro «astrazione» quantitativa sono un aspetto
fondamentale nell’accumulo dei Big Data, che vengono plasmati,
impacchettati, scomposti e ricomposti come merce da vendere per
strategie pubblicitarie mirate. Ma come hanno evidenziato le audizioni
di Mark Zuckeberg dopo lo scandalo di Cambridge Analytica, tutto ciò a
che fare con la produzione di opinione pubblica. È su questa faglia che
si gioca la partita, sbrogliando il bandolo della matassa che anche
Jaron Lanier contribuisce a definire.
NELL’OTTAVA RAGIONE per
cancellare i propri account, l’autore si pone il problema del modo di
produzione dentro e fuori la Rete. Emerge la dimensione della precarietà
diffusa, del lavoro gratuito eletto a sistema dominante dentro la
produzione di innovazione sociale e tecnologica, la concentrazione
monopolistica nel capitalismo contemporaneo. Nella costruzione di bacini
del lavoro vivo, scanditi da una alternanza e copresenza di alta
qualificazione e abissale dequalificazione, di alti salari e di working
poor. Di una totalità che vede politiche di rapine nel Sud del mondo e
intelligenza artificiale messa in produzione. È su questo elemento che
si gioca la partita. Ed è su questo crinale che c’è appropriazione
privata dei dati personali.
È questo l’arcano del business model
dominante nel capitalismo contemporaneo. Una volta svelato, il tema
della produzione dell’opinione pubblica e della sua manipolazione perde
il sapore acido di una critica moralistica per restituire la sua
dimensione materiale, dove la questione del potere e dei rapporti
sociali diventa finalmente di nuovo centrale.
Le shit storms, gli
imprenditori politici della paura, il populismo postmoderno trovano
infatti legittimità in questo totalità. Più che disconnetersi da essa,
fattore che salva l’anima e niente più, occorre semmai sabotarla, farla
deflagare. Ma qui serve un surplus di pensiero critico, quello che
occorre per immaginare una politica della liberazione.