il manifesto 27.6.18
Il voto come un’antica festa crudele. Vince la cattiveria
Destre.
La cifra del cambiamento è un’inversione morale, che gli elettori hanno
approvato. Come scriveva Luciano Gallino, per Pd e 5Stelle vale, a pari
merito, « il trionfo della stupidità»
di Marco Revelli
Domenica
il mondo è andato giù di nuovo. In modo più radicale, però, più
definitivo, se possibile, rispetto al 4 marzo (il mondo della sinistra,
intendo). Per un fattore simbolico, con la scomparsa della cosiddetta
“zona rossa”.
Che ancora, pallidamente, a marzo s’intravvedeva sia
pur slabbrata, e le roccaforti della Toscana, dell’Umbria, dell’Emilia
consegnatesi senza colpo ferire all’avversario di sempre. Gomene
d’ancoraggio tagliate dal colpo di scure di Matteo Salvini e dei suoi
bravi. E poi perché questo secondo crollo viene dopo più di tre mesi di
gestazione del nuovo governo. Tre mesi in cui tutti i protagonisti si
sono esibiti en plein air, illuminati dalla luce cruda dei riflettori
mediatici.
LA GENTE ORA SAPEVA benissimo chi votava. Sapeva di
votare la “cattiveria” di Salvini, la sua politica della “crudeltà” (lo
vota proprio per quello). Sapeva di votare la guerra alle navi che
salvano, quelli che ne invocano la messa al bando e magari, nei casi
estremi, che ne richiedono l’affondamento. Sapeva di approvare
quell’”inversione morale” che già Minniti aveva sdoganato lo scorso anno
(con la benedizione di quasi tutti, compresi i “nemici” del Fatto) e
che ora diventa pratica conclamata del governo del cambiamento. Anzi, la
cifra del cambiamento. In questa seconda “prova” il voto ha assunto il
profilo dell’antica “festa crudele”.
C’È UN INSEGNAMENTO
drammatico in tutto questo. Ed è che la “narrativa” intorno a cui si è
strutturata in questi tre mesi l’opposizione al nascituro governo che
oggi imperversa, non solo non ha funzionato. Ma si è rovesciata nel suo
contrario: carburante nel motore “populista”. Per ottanta giorni e passa
i pallidi dirigenti del Pd ma soprattutto la stampa mainstream non
hanno smesso un secondo di irridere, stigmatizzare, denunciare il
pressapochismo, il dilettantismo, la “mancanza di cultura di governo” (o
di cultura tout court) dei “vincitori-non vincitori”, sfoderando
sorrisetti di superiorità, senz’accorgersi che così non li si
delegittimava ma al contrario li si rafforzava. Che ogni derisione dei
congiuntivi mancati di Di Maio gli portava sporte di voti. Che ogni
sarcasmo sul curriculum di Conte lo nobilitava anziché diminuirlo.
Perché in fondo siamo un popolo senza congiuntivi. E anche senza
curriculum. Dovremo inventarci una narrativa diversa – opposta – a
quella snob del partito dei media perbene, se vorremo opporci all’onda
nera che sale, con una resistenza “popolare”.
C’è poi un altro
insegnamento in questa seconda fine del mondo. Ed è la conferma di
quello che Luciano Gallino chiamava il “trionfo della stupidità” (la
quale, purtroppo, un peso ce l’ha negli eventi storici, e anche grande
nei momenti topici). Mai come ora possiamo constatare quanta stupidità
politica ci sia stata nella scelta del Pd di non tentare tutto il
possibile per impedire la saldatura dell’asse Cinque Stelle-Lega:
l’unica strategia politica adeguata allo scenario aperto dal voto di
marzo. Cancellata con un tweet e una comparsata da Fabio Fazio del
devastatore Matteo Renzi: quello che ha impresso l’immagine del suo
volto come una maschera funeraria sul corpo del suo partito e
dell’intera sinistra rendendola respingente per chiunque.
E
DALL’ALTRA PARTE quanta stupidità politica alligni tra gli strateghi dei
5Stelle (vero Toninelli?), per non permettergli di capire che lo spazio
lasciato alla retorica del disumano di Salvini è mortale per loro. Li
espone alla cannibalizzazione da parte dell’alleato-nemico. Reintrodurre
almeno un po’ d’intelligenza nella politica sarà impresa lunga e ardua,
dopo questa regressione epocale.
MA C’È QUALCOSA CHE VA OLTRE, o
sotto, la superficie della riflessione razionale sulla politica in
questo voto impietoso (così privo di pietas) e distrattamente feroce.
Qualcosa che va oltre i nostri stessi confini, che coinvolge un’Europa
preda di nuovi nazionalismi fuori tempo insieme a un Occidente
avvelenato da nuovi egoismi fuori misura che sanno di guerra. E che ha
probabilmente a che fare con ciò che la discorsività democratica non
dice, perché affonda le radici in un livello più profondo, e torbido. O
incandescente. Un brillante politologo latino-americano, Benjamin
Arditi, in un saggio sul populismo come “periferia interna” della
politica democratica ha evocato la categoria freudiana della “terra
straniera interiore” dell’Ego, nella quale il populismo pescherebbe le
proprie pulsioni: oscure paure, frustrazioni rimosse, perdita di
naturalità e di coscienza di sé, tutto il non detto dell’edificante
narrazione liberal-democratica. Una sorta di inconscio individuale, ma
soprattutto collettivo (più junghiano che freudiano), che proietta sullo
“straniero” vero, sul corpo “alieno” che viene da fuori, i propri
terrori ancestrali che da sempre il nostro originario genera e che ora,
caduto lo scudo protettivo del benessere e dell’ascensore sociale, si
sfoga. È una sfida che parla della nostra alienazione umana (di un
disagio radicale dell’esistenza), prima che della nostra incapacità
politica. E forse, prima di metterci a ricostruire una sinistra così
sinistrata, avremmo bisogno tutti di un buon trattamento mentale, se
vogliamo esorcizzare queste baccanti feroci che minacciano di squartare
la nostra democrazia.