Il manifesto 26.6.18
Il ruggito turbo-nazionalista del Sultano
Patria
e religione. Il consenso a Erdogan non viene meno, mentre cresce quello
al'ultradestra dell'Mhp, i Lupi Grigi. Al presidente poteri quasi
assoluti in un paese sempre più diviso dove il nazionalismo diventa lo
strumento di gestione e mantenimento del potere
di Alberto Negri
«Voglio
sentire il vostro ruggito per un governo forte», aveva urlato alla
folla di Istanbul nell’ultimo comizio sulle rive del Bosforo, innescando
l’orgoglio popolare e il turbo-nazionalismo.
Per capire la
popolarità di Recep Tayyip Erdogan, presidente con pieni poteri, capo
quasi assoluto della Turchia, noi giornalisti (e forse pure i
sondaggisti) dovremmo frequentare meno la brillante e intellettuale
borghesia di Istanbul e un po’ di più la Turchia profonda: una
considerazione che mi veniva alla vigilia del voto conversando qui a
Istanbul con Ferzan Ozpetek, il regista di Napoli Velata e di altri film
eccellenti, quasi tutti ispirati alla tradizione italiana, come lui
stesso sottolinea con orgoglio.
Dal 2002 il partito islamico Akp
ha vinto 12 elezioni e comunque in un decennio i turchi hanno
raddoppiato il loro reddito medio pro capite: per quanto il concorrente
più serio di Erdogan, Muharrem Ince del partito repubblicano Chp, abbia
rivitalizzato l’opposizione con comizi oceanici, da quasi una
generazione i turchi sono inclini a dare più fiducia a Erdogan che a
chiunque altro.
E ancora di più – soprattutto dopo il fallito
colpo di Stato del luglio 2016 – una maggioranza è disposta anche a
passare sopra a centinaia di migliaia di arresti di gulenisti e non,
perché il Reìs assicura continuità e il proseguimento di un sogno di
modernizzazione ed emancipazione economica e sociale delle fasce più
tradizionali della popolazione che i secolaristi non sanno assolutamente
rappresentare alle masse turche.
Non è il confortevole
cosmopolitismo borghese che vince in Turchia ma un forte e talora
esasperato nazionalismo. Anzi un turbo-nazionalismo, come dimostra
l’alleanza elettorale vincente forgiata da Erdogan e dall’Akp, partito
islamico e tradizionalista, con la formazione di ultra-destra Mhp, i
famosi Lupi Grigi fondati dal colonnello Arsplan Turkes negli Sessanta e
Settanta, il cui esponente più noto da noi fu Ali Agca, l’attentatore
di Papa Woytila.
Oggi in Turchia festeggiano il Rèis Erdogan,
Develet Bahceli, capo dell’Mhp, e i curdi di Diyarbakir che hanno
accolto con entusiasmo l’ingresso in parlamento del partito Hdp, il cui
leader Selahattin Demirtas per altro è ancora in carcere.
Il dato
forse più inatteso e interessante di queste elezioni è stata proprio
l’affermazione alle urne dell’Mhp, il Partito del movimento
ultranazionalista, ferocemente anti-curdo, euroscettico, guidato da
Bahceli. Alla vigilia era dato a meno del 6-8% e sembrava che Erdogan
fosse la sua àncora di salvezza per sopravvivere: superando l’11% ha
invece regalato all’Akp la maggioranza in parlamento.
È questo il
partito dei Lupi Grigi, esponenti di quel Derin Devlet, lo «Stato
Profondo», che storicamente sa come nuotare e manovrare nelle acque più
torbide della politica turca: sono i Lupi Grigi gli eredi dell’alleanza
negli anni Settanta e Ottanta con la Cia, erano loro i membri delle reti
clandestine anti-comuniste Stay Behind (Gladio) della Nato.
Ultranazionalisti
ma con una componente religiosa: il fondatore dell’Mhp, il colonnello
Alparslan Turkes, affermava che «il nazionalismo rappresentava la
politica del suo partito e l’Islam la sua anima». Un movimento fedele a
una visione turco-centrica delle relazioni internazionali, favorevole al
ripristino della pena di morte, promessa che ogni tanto Erdogan rinnova
sollevando i brividi dell’opposizione e dell’Europa.
Il
turbo-nazionalismo, ancora più della religione, è diventato così il vero
carburante elettorale di Erdogan che prima ancora di convocare queste
elezioni anticipate ha scatenato l’offensiva contro i curdi nell’enclave
siriana di Afrin e ha poi fatto leva sul nazionalismo per oscurare i
cattivi risultati dell’economia.
Ora per il Sultano si profila un
mandato di cinque anni con poteri quasi assoluti, ma in un Paese sempre
spaccato a metà, diviso tra religiosi e laici, tra nazionalisti e curdi,
con un’economia che batte in testa e una lira vulnerabile sui mercati.
Per questo si attende da Erdogan un governo forse meno strettamente
legato alla cerchia del clan Akp e con qualche elemento più presentabile
sulla scena internazionale per guadagnare credibilità sui mercati.
Cosa
farà in politica estera? L’avvicinamento alla Russia e i rapporti con
l’Iran per il momento non sembrano in discussione. Il vero nodo è il
rapporto con Stati uniti e Nato, di cui la Turchia è un membro storico:
la recente consegna ad Ankara del primo caccia F-35, che per altro resta
negli hangar americani, è un segnale di distensione come pure le
operazioni militari congiunte con gli Usa nel Nord della Siria. Ma il
fatto che l’imam Fethullah Gülen, ritenuto l’ispiratore del fallito
golpe, resti in esilio negli Stati uniti costituisce un motivo di
tensione latente.
Quanto all’Europa resta importante: Erdogan è il
guardiano ben pagato di tre milioni di profughi siriani, quasi il 50%
dell’export turco va in Europa mentre il 70% del debito delle imprese è
contratto con banche europee. Ma l’Europa come approdo politico appare
sempre meno attraente, soprattutto questa Unione sempre più litigiosa e
disunita.