domenica 24 giugno 2018

il manifesto 24.6.18
La crisi del sistema Erdogan
Turchia. Oggi si vota, mezzo mondo con il fiato sospeso: dalla Nato all'Unione europea, da Mosca a Teheran. Sullo sfondo un'economia drogata che mostra ormai tutte le sue crepe
di Alberto Negri


Convocate in stato d’emergenza e di guerra aperta ai confini del paese, quelle in Turchia sono elezioni che tengono con il fiato sospeso. Non solo l’opposizione ed Erdogan ma anche la Nato, un’Alleanza che da tempo va stretta al Reìs, la stessa Unione europea che ne ha fatto il guardiano di tre milioni di profughi e lo ha dotato di una temibilissima arma di ricatto.
Ma pure la Russia e l’Iran seguono con grande attenzione gli sviluppi: Mosca e Teheran contano sul patto con Ankara per stabilizzare la Siria, tenere sotto controllo i jihadisti, contenere la presenza americana e occidentale e mantenere al potere Bashar al Assad.
Nella politica degli equilibri tra gli tre ex Imperi, persiano, russo e ottomano, Erdogan è diventato un attore protagonista che tiene in scacco Occidente e Oriente.
Erdogan dovrebbe confermarsi alla presidenza, che si gioca su due turni – nel caso venisse costretto al ballottaggio dal candidato repubblicano Muharrem Ince – ma il partito Akp potrebbe trovare un ostacolo nel peggiore nemico degli iper-nazionalisti turchi, ovvero i curdi.
La partita si gioca nell’Anatolia del sud est: secondo la legge elettorale turca se il partito filo-curdo Hdp non supera la soglia del 10%, l’Akp si aggiudica la stragrande maggioranza dei seggi; in caso contrario il partito del presidente va incontro a una sonora sconfitta, cioè perde la maggioranza assoluta in parlamento.
Per questo ci si aspetta di tutto dalla macchina elettorale di un regime che dopo il fallito colpo di Stato del 2016 ha messo tutto sotto controllo, dalla forze di sicurezza ai media, epurando centinaia di migliaia di funzionari con l’accusa di essere seguaci di Fetullah Gülen.
Non è un caso che le forze armate di Ankara abbiano sferrato in queste settimane un’offensiva senza precedenti in Iraq sulla montagna di Qandil: i turchi sperano di mettere le mani sui capi della guerriglia del Pkk per dare in queste ore una svolta clamorosa alla propaganda nazionalista di Erdogan, alleato dei Lupi Grigi dell’Mhp.
Anche queste elezioni anticipate sono state annunciate in aprile immediatamente dopo che le forze turche e quelle alleate arabo-siriane hanno preso il controllo dell’enclave curda di Afrin, nel nord della Siria, nell’evidente tentativo di fare leva sull’entusiasmo nazionalista e oscurare la realtà di un’economia turca che ormai batte in testa, drogata per anni dal denaro facile a basso costo, dalle colossali opere pubbliche con finanziamenti e prestiti che hanno indebitato lo Stato e il paese.
Con il risultato che l’inflazione aumenta, la disoccupazione pure e la lira ha perso un terzo del suo valore: è il sistema Erdogan che è andato in crisi. Lui, con la legge referendaria votata l’anno scorso, che assegna pieni poteri al presidente, potrà forse restare il padrone del paese ma il suo «gregge», quel popolo turco che in buona parte continua a osannarlo, è stato tosato dalla crisi.
Gli investimenti stranieri latitano, le agenzie di rating, la «lobby dei tassi di interesse» così odiata da Erdogan, manifestano la loro sfiducia: all’orizzonte potrebbe profilarsi l’ennesimo intervento del Fondo monetario. Il Reìs piace ai nostri sovranisti, meno alla direttrice del Fondo monetario Christine Lagarde, che gli rimprovera di avere messo il guinzaglio alla Banca centrale. Erdogan oggi considera la Lagarde un nemica della nazione alla stregua dei curdi.
Anche se Erdogan non smette di far sognare i suoi turchi lanciando un piano per tagliare in due la parte europea del Bosforo per collegare il Mar di Marmara al Mar Nero: una sorta di canale di Panama dell’Oriente.
Pensando a questo delirio di cementificazione che ha arricchito molti e stravolto il profilo di Istanbul arrivo alla fine di Istiqal Caddesi: qui si schiude piazza Taksim dove è stato da poco demolito il Centro culturale Ataturk, un altro schiaffo di Erdogan a un simbolo della laicità.
A ogni tornante della storia turca di questi decenni sono passato da qui. Nel 1994 quando il sindaco Tayyip Erdogan, ancora sconosciuto, già voleva ricostruire a Taksim le vecchie caserme ottomane; nel 2003 quando mi esplose sulla testa una delle bombe che fecero saltare il consolato britannico con una dozzina di morti; nel 2013 ero qui per le manifestazioni di Gezi Park, tra un turbinio di manganellate e lacrimogeni.
Di fianco a Taksim sono passati i jihadisti per disintegrare la discoteca Raia e mettere le bombe allo stadio del Besiktas, proprio qui sopra hanno sorvolato i jet la notte del tentato golpe del 15 luglio 2016. La mattina dopo un banale carroattrezzi della polizia urbana rimuoveva l’ultimo tank abbandonato dai golpisti in fuga.
Meno di un anno dopo il fallito colpo di Stato qui festeggiavano, nell’aprile 2017, la vittoria nel referendum che dava pieni poteri al presidente. Questa piazza, con il monumento ad Ataturk di Pietro Canonica, è un totem irrinunciabile per tutta la Turchia, laici, secolaristi e musulmani tradizionalisti.
Qui convergono i militanti dell’Akp di Erdogan ma anche quelli dell’opposizione e per farsi coraggio strimpellano «Bella Ciao», le prime strofe in italiano, le altre in turco. Tra oggi e domani vedremo se porterà fortuna.