domenica 24 giugno 2018

Il Fatto 24.6.18
“Fermiamo la Brexit”, ma Corbyn non si vede
Regno Unito - Nella Capitale manifestazione imponente: chiesto un referendum sull’accordo finale dell’uscita dall’Ue
di Sabrina Provenzani


Nel secondo anniversario del referendum che ha deciso l’uscita del Regno Unito dall’UE, Londra si colora, per un giorno, del giallo e del blu della bandiera europea. Sono decine di migliaia – per gli organizzatori 100 mila – i manifestanti che sfilano dal Pall Mall al Parlamento in un sabato di sole, slogan e speranze. Attivisti anti-Brexit, tanti europei, qualche britannico residente al di la della Manica e tornato per l’occasione.
È una marcia attesa da mesi: a organizzarla, un gruppo eterogeneo di associazioni e gruppi anti Brexit raccolti sotto l’ombrello People’s Vote. Il voto della gente. La gente, per la verità, su Brexit ha già votato a favore, seppure con un margine ristretto. Ma i Remainers di tutti gli schieramenti chiedono un nuovo referendum, stavolta sull’accordo finale, se mai il governo May e Bruxelles riusciranno a emergere da uno stallo che, a nove mesi dalla data ufficiale di uscita, non sembra avere soluzione.
Sul palco si avvicendano Vince Cable, anziano e carismatico segretario dei Lib-Dem; Gina Miller, che per prima, in forma privata, ha sfidato in tribunale il governo sull’articolo 50; Anne Soubry, che sul fronte anti-Brexit è la più coraggiosa e determinata parlamentare Tory. E i ragazzi di Our Future Our Choice, gruppo di pressione nato a febbraio scorso da una considerazione di buon senso: i giovani sono il gruppo demografico che più degli altri ha votato contro Brexit, ma anche quello che ne subirà gli effetti più pesanti. Brexit can be stopped, Brexit può essere fermata, è lo slogan centrale. Da chi? Dalla volontà popolare, che dovrebbe imporsi, con la forza dei numeri e dei fatti, sul governo e su un Parlamento che però, solo la scorsa settimana, ha bocciato un emendamento che avrebbe garantito ai legislatori un certo controllo sugli esiti del negoziato. Di fronte a prospettive economiche da incubo per decenni, 65 milioni di britannici non possono affidarsi ad un governo irresoluto e a poche centinaia di parlamentari: devono potersi esprimere direttamente su un accordo che determinerà il loro futuro. Problema: per quello che valgono, i sondaggi non fanno pensare che una nuova consultazione invertirebbe la rotta: gli ultimi segnalano un timido trend anti Brexit.
Per cambiare le cose ci vorrebbe l’appoggio del Labour di Jeremy Corbyn, che invece non solo alla marcia non si fa vedere – dov’è Corbyn? gridano i manifestanti – ma continua a punire ogni fuga in avanti dei suoi parlamentari anti-Brexit.
Quanto agli scenari economici, venerdì un colosso come Airbus ha anticipato che, in caso di uscita da mercato unico e unione doganale senza alternative potrebbe lasciare il Regno Unito, con le immaginabili ricadute sui 14 mila dipendenti e i 100 mila dell’indotto. Non è l’unica società a minacciare il trasloco.
La risposta dei ministri del governo? Liam Fox, al commercio con l’estero, ha chiarito che Londra non sta bluffando quando sventola lo spettro della rottura dei negoziati. David Davis, del dicastero per Brexit, ha assicurato che il governo sarà pronto in caso di mancato accordo. Quando al solito Boris Johnson, in un editoriale sul Sun ha scritto che Theresa May deve garantire una full British Brexit. E, secondo il Telegraph, la scorsa settimana, ad un evento pubblico per il compleanno della Regina, avrebbe liquidato i timori degli industriali britannici con un oxfordiano Fuck business. “Che vadano a farsi fottere”.