il manifesto 22.6.18
Quell’ospite inquietante
«Popolocrazia. La metamorfosi delle nostre democrazie», di Ilvo Diamanti e Marc Lazar per Laterza
di Francesco Antonelli
Alla
svolta del XIX secolo la società borghese, lo Sato liberale e la
«democrazia limitata» per censo entrarono in crisi irreversibile, sotto
la pressione della seconda rivoluzione industriale e l’avvento della
società di massa. Partendo da Tarde, Le Bon, Rossi, Sighele, arrivando a
Ortega y Gasset e Freud, quasi tutti i grandi intellettuali e studiosi
di scienze sociali dell’epoca interpretarono la nuova fase come trionfo
dell’irrazionalismo politico e culturale che rompeva con l’ideale
illuminista e positivista dell’individuo razionale.
Un nuovo
protagonista, un «ospite inquietante», blandito da capi demagogici e
ambiziosi, occupava ora il centro della scena: la folla. Una folla che
era sinonimo di «nuovi barbari». Soggetti non assimilabili nei vecchi
schemi istituzionali che premevano alle porte della città e che, anzi,
erano cresciuti al suo interno, mettendola definitivamente a soqquadro.
LA
BARBARIE: da destra e poi, soprattutto con la scuola di Francoforte, da
sinistra, questa fu la diagnosi e la profezia realizzata dalle grandi
tragedie della prima metà del Novecento, dalle due guerre mondiali alla
crisi del Ventinove, ai regimi totalitari. Il mondo nato nel secondo
dopoguerra fu ricostruito avendo sempre presente l’obiettivo di evitare
il barbarismo. Un fine politico condiviso da democratici, progressisti e
liberali in tutto il mondo occidentale e che diede vita al patto
fordista e keynesiano. Il libro di Ilvo Diamanti e Marc Lazar
Popolocrazia. La metamorfosi delle nostre democrazie (Laterza, pp. 176,
euro 15) si muove tutto all’interno della consapevolezza che oggi quel
«barbarismo» stia di nuovo mettendo radici nel nostro mondo. Che cos’è
la «popolocrazia»? Un neologismo che gioca evidentemente con la radice
greca del termine democrazia, a sottolineare che la base del sistema non
sarebbe più il «demos» organizzato nelle forme e nelle istituzioni del
pluralismo democratico, bensì un «popolo» costruito e auto-costruito
attraverso retoriche, valori e stili di azione che, anche se gli autori
non lo dicono esplicitamente, ricordano molto le folle irrazionali,
anti-liberali e manichee dell’inizio del Novecento. Gli attori politici
che danno corpo e rappresentanza a tutto questo sono i famigerati
«populisti» alla cui analisi – o meglio all’analisi dei casi italiano e
francese – è dedicata la gran parte del libro.
SE LO STUDIO di
Diamanti e Lazar si fermasse qui non sarebbe certo molto originale.
Anche perché i presupposti espliciti e impliciti dell’analisi
riproducono spesso quella idealizzazione intellettualistica di un mitico
«demos» razionale e disciplinato (in altrettanto mitici partiti e
sindacati) dei tempi passati che, forse, non è mai esistito. Il merito,
l’originalità e il grande interesse di Popolocrazia sta invece nella
sintesi.
In primo luogo, il nuovo sistema politico nascerebbe
dalla confluenza di cambiamenti strutturali, di lungo periodo e da
fattori «precipitanti», più contingenti. I primi fanno riferimento
all’ascesa di una società nella quale sono declinate (forse
irreversibilmente) tutte le forme di intermediazione sociale e politica:
il crollo dei corpi intermedi, dai partiti ai sindacati
all’associazionismo.
Ai quali si aggiunge l’ascesa dei media
digitali che rendono possibile comunicare direttamente le proprie
opinioni, atteggiamenti, istanze. Questa società «im-mediata» si basa
sulla solitudine del cittadino globale, sulla diffusa sensazione di
essere marginali e irrilevanti rispetto ai processi decisionali (la
periferia come categoria esistenziale e non solo come luogo fisico) e
sulla personalizzazione delle relazioni politiche e sociali.
IN
UNA ESPRESSIONE su quel «declino dell’uomo pubblico» già ampiamente
analizzata da Richard Sennett nell’omonimo libro del 1974. Ciò che
avrebbe fatto definitivamente precipitare la situazione, introducendo
mutamenti radicali nel funzionamento della democrazia, sarebbe la crisi
economica e finanziaria del 2007. Questa avrebbe diffuso marginalità,
sfiducia sistemica, delegittimazione delle classi politiche, nuove
fratture politico-sociali in particolare tra «centri» (ormai
identificati non solo con lo Stato-nazione ma anche con l’Unione
europea) e «periferie» nuove e vecchie, simboliche e fisiche. L’ipotesi
più interessante e contro-intuitiva è che tutto questo non avrebbe
generato un rigetto della democrazia (ideale) a favore di un
neo-autoritarismo; al contrario, avrebbe rafforzato il valore di una
democrazia ideale e diretta, im-mediata, magari promossa e tutelata da
un leader al di là delle istituzioni consolidate.
NE DERIVEREBBE
che il conflitto sociale attivato dalla crisi e dai cambiamenti
strutturali delle società occidentali non si esprimerebbe più nel
sociale, nei movimenti o tramite i corpi intermedi ma direttamente nella
politica e nelle sue forme elettorali. Nonostante tutto, l’unico
vettore rimasto di espressione degli interessi e delle opinioni dei
cittadini. L’interessante diagnosi di Diamanti e Lazar coglie dunque una
contraddizione centrale del presente: da una parte le forme della
rappresentanza con i suoi meccanismi di intermediazione sono fortemente
criticati e avversati.
Dall’altra, è solo attraverso di esse che
il conflitto ha trovato un’espressione. Senza tuttavia la possibilità
certa che possa giungere anche ad una ricomposizione, soprattutto
progressiva per la società. Ed è su questo crinale che si giocheranno in
futuro i destini delle nostre società e della stessa sinistra.