martedì 19 giugno 2018

il manifesto 19.6.18
Razzista all’interno: «Censimento dei Rom, anzi ricognizione»
Il ministro al Viminale. Salvini rimpiange l'iniziativa di Maroni di dieci anni fa, che fu fermata dalla giustizia italiana e dal parlamento europeo. «Purtroppo i Rom italiani ce li dobbiamo tenere», dice, poi in serata spiega che non voleva proporre schedature. Solo allora i 5 Stelle prendono appena un po' le distanze: «Pensiamo agli italiani». Dura condanna della comunità ebraica
di Andrea Fabozzi


«Una ricognizione sulla situazione Rom in giro per l’Italia per vedere chi, come e quanti». Questo annuncia il ministro dell’interno a metà giornata. Richiamando il disastroso precedente del 2008, quando il governo Berlusconi dichiarò lo «stato di emergenza» in cinque regioni «in relazione agli insediamenti delle comunità nomadi» e il ministro dell’interno Maroni avviò una schedatura su base etnica con tanto di prelievo delle impronte digitali, anche ai minori. Fermata poi dalla giustizia amministrativa e civile italiana e dal parlamento europeo. Salvini cita quel precedente come un episodio glorioso. «All’epoca fu chiamato censimento e apriti cielo, allora chiamiamola “anagrafe” o “fotografia”». Ma Salvini non pensa alla statistica: «Stiamo lavorando anche sulle espulsioni dei detenuti stranieri. Purtroppo i Rom italiani te li devi tenere in Italia».
Il precedente Maroni, citato male – «risale ormai a 5, 6 o 7 anni fa, dopo nessuno ha più fatto niente», ma è del 2009 – mette subito Salvini sulla cattiva strada. Quella dei provvedimenti illegittimi, buoni solo per la propaganda. Prima il Tar, poi il Consiglio di Stato e infine la Cassazione (nel 2013) hanno già condannato l’«emergenza etnica», tanto è vero che Maroni in corso d’opera cercò di correggere l’iniziativa, parlando di «ricognizione» nei campi Rom – con la smentita però di tanti testimoni che hanno raccontato di minori costretti a consegnare le impronte e cittadini italiani con carta di identità portati a forza negli uffici di polizia per una schedatura supplementare. Episodi che fornirono gli argomenti a una clamorosa condanna dell’Italia da parte del parlamento europeo, arrivata quasi dieci anni fa: 10 luglio 2008. Salvini in serata corregge appena il tiro: «Non è nostra intenzione schedare o prendere le impronte digitali a nessuno, nostro obiettivo è una ricognizione della situazione dei campi Rom». Aggiunge la solita dose di paternalismo ipocrita: «Intendiamo tutelare prima di tutto migliaia di bambini ai quali non è permesso frequentare la scuola regolarmente perché si preferisce introdurli alla delinquenza».
La strategia di comunicazione del ministro dell’interno – la «sparata» e la ritirata che non smentisce la sostanza – lascerebbe agli alleati di governo un intervallo di sei ore per prendere almeno un po’ le distanze. Ma non succede niente. O meglio, il Pd e la sinistra condannano con dichiarazioni sempre più allarmate le parole di Salvini, Forza Italia sussurra una qualche approvazione e Giorgia Meloni è costretta agli straordinari per restare ameno in scia al capo leghista («so’ nomadi? E allora devono “nomadare”», argomenta e gesticola). Il Movimento 5 Stelle tace su tutti i fronti. L’unico segnale in stile radio Londra arriva da un tweet del senatore Morra, che copia l’articolo 3 della Costituzione, senza commento, in una misteriosa forma di autocensura. Poi, dopo la smentita – non smentita di Salvini, ecco Di Maio che ritrova la parola: «Mi fa piacere che abbia smentito qualsiasi ipotesi di schedatura e censimento degli immigrati, perché se una cosa è incostituzionale non si può fare», dichiara. Avvertendo che questo non fa di lui un terzomondista: «Prima occupiamoci degli italiani, sono loro la priorità»: gli farà piacere scoprire che sul territorio nazionale i Rom sono quasi equamente divisi tra italiani e stranieri. Interviene anche Alfonso Bonafede, cioè il ministro della giustizia, rassicurante sul fatto che «Salvini ha parlato della condizione dei bambini». «Non sarà un censimento ma un monitoraggio approfondito dei campi Rom», dichiara, citando inconsapevolmente il Maroni del 2008 (che però non aveva detto «approfondito»).
Dice Carlo Stassola, presidente dell’Associazione 21 luglio che ogni anno fa il punto sulla presenza Rom in Italia – sono solo 26mila quelli in emergenza abitativa, di cui i due terzi sistemati in campi gestiti dalle amministrazioni pubbliche – che «il ministro dell’interno sembra non sapere che un censimento su base etnica non è consentito dalla legge». Aggiunge la presidente delle Comunità ebraiche italiane Noemi Di Segni che le parole di Salvini «risvegliano ricordi di leggi e misure razziste di appena 80 anni fa tristemente sempre più dimenticate. Non c’è ricerca del consenso, non c’è ansia di ordine pubblico che giustifichi la proposta inquietante di enucleare specifiche categorie sociali di cittadini, di censirli e di sottoporli a speciali politiche di sicurezza solo a loro riservate». L’intenzione è in realtà contenuta già nel famoso «contratto di governo», che parla di «superamento dei campi Rom». E non campi nomadi. Differenza che non è sfuggita a Liliana Segre. «Mi rifiuto di pensare che la nostra civiltà democratica possa essere sporcata da progetti di leggi speciali contro i popoli nomadi. Se dovesse accadere, mi opporrò con tutte le energie che mi restano», ha detto la senatrice, sopravvissuta ad Auschwitz, durante il dibattito sulla fiducia il 5 giugno. Il governo si era alzato ad applaudire.

La Stampa 19.6.18
La Lega sorpassa il Movimento 5 Stelle
Di Maio non riesce a contenere l’alleato
di Amedeo La Mattina


Luigi Di Maio assicura di non soffrire del complesso di inferiorità nei confronti dell’alleato leghista. Eppure il ciclone Matteo Salvini lo ha oscurato e costringe l’opposizione ad inseguire la sua narrazione politica. Il ministro dell’interno pianifica le sue uscite, non lascia nulla al caso, apre un fronte dietro l’altro (ieri quello dei Rom), correndo come una lepre tra social, Twitter e comizi. Il giorno in cui si è insediato al Viminale aveva confidato che non avrebbe mai smesso i panni di capo partito, non si sarebbe ingessato e ingrigito dentro una grisaglia. Palazzo e piazze perchè c’è sempre la prospettiva di un’urna che si deve aprire, un’elezione da vincere. Salvini guarda alle elezioni europee, regionali e comunali del 2019 per trasformare le attuali intenzioni di voto in percentuali reali.
Lega primo partito
I sondaggi rilevano numeri che premiano il leghista e la sua martellante campagna contro i migranti, le Ong, i Paesi europei che non aprono i loro porti mentre lui chiude i nostri alla nave Aquarius che alla fine ha trovato un approdo a Valencia. L’uomo forte piace agli italiani e svetta, raggiunge numeri impensabili anche rispetto al quel 17% del 4 marzo. Nel sondaggio Swg per il tg La7, la Lega supera per la prima volta il Movimento 5 stelle: 29,2% contro 29%. Una frazione ma comunque un sorpasso con i grillini che perdono il 2,5% mentre il Carroccio cresce del 2,2%. Tutti consensi divorati a Forza Italia che vale il 9,2%.
Di Maio nervoso insegue
Rom, migranti, famiglie composte solo da una mamma e un papà, difesa del Made in Italy, navi da bloccare perchè carichi di riso orientale e prodotti alimentari extracomunitari: una narrazione che il Pd e la sinistra non riescono a neutralizzare. E di fronte alla quale Di Maio incontra enormi difficoltà a emergere e a far vedere il lavoro che sta facendo al ministero dello Sviluppo economico e del Lavoro. Il leader 5 Stelle tenta il contrattacco comunicativo, chiede trasparenza sulle donazioni ai partiti, andati anche alla Lega e alle fondazioni collegate, ma è costretto a spiegare i risvolti dell’inchiesta sullo stadio romano, il perchè e il per come le mele marce collaborano con il Movimento. Ieri per prima volta Di Maio ha pizzicato Salvini, «Mi fa piacere che abbia smentito qualsiasi ipotesi di censimento, registrazione o schedatura dei rom». E tira fuori l’orgoglio del suo lavoro, a cominciare dal suo impegno a superare il precariato. «Gli italiani sono la priorità, bene occuparsi di immigrazione ma prima occupiamoci dei tanti italiani che non possono mangiare».
Berlusconi, chi l’ha visto?
L’ex Cavaliere all’opposizione è afono, inviperito perché la delega alle telecomunicazioni è rimasta nelle mani di Di Maio. Ma non dice una parola, non attacca, non critica. L’altro giorno è apparso con un comunicato stampa per ricordare la tragedia dei due fratellini morti nell’incendio di Messina, ma rimane lontano dalla politica. I suoi colonnelli e le truppe azzurre sono nel panico. In un’intervista a Libero Giorgio Mulè, portavoce dei gruppi parlamentari, ha lanciato un appello amaro e drammatico: «Deve nascere per forza un soggetto nuovo, si chiami L’Altra Italia o in un altro modo, entro fine estate, assolutamente prima delle elezioni Europee. Sennò non facciamo in tempo, politicamente, a mangiare il panettone». Un altro importante dirigente di Forza Italia, che non vuole essere citato per il timore di subire conseguenze spiacevoli, aggiunge: «Di questo passo il rischio non è di arrivare a Natale per mangiare il panettone, ma di non mangiare nemmeno la granita questa estate». Per gli azzurri le europee del 2019 sono un incubo. Salvini, che ieri ha incontrato il Cavaliere ad Arcore, invece le vede come l’arco di trionfo sotto cui passare per consolidare il suo potere nel governo.
Campagna permanente
Alle europee di maggio si voterà con il sistema proporzionale e ogni partito sfiderà la sorte per conto proprio. Salvini proverà a diventare il primo partito italiano, consentendo alla Lega di mandare a Strasburgo un folta delegazione populista che andrà a sommarsi ai tanti altri populisti: l’obiettivo è spezzare la grande coalizione Popolare-Socialista che da decenni governa l’Europa. Ma nella prossima primavera ci sarà una tornata elettorale da far tremare le vene ai polsi e che costringerà le forze politiche a coalizzarsi. Andranno al voto le Regioni Emilia Romagna, Piemonte, Trentino-Alto Adige, Abruzzo, Calabria, Sardegna. E poi tantissimi comuni: 25 capoluoghi, cui 7 di regione e 19 di provincia. La stragrande maggioranza delle amministrazioni è retta da maggioranze di centrosinistra (18), mentre i comuni amministrati dal centrodestra sono 6. Solo a Livorno i 5Stelle esprimono il primo cittadino. Salvini è all’assalto di tutto questo. Lo farà con il centrodestra e il vagone fantasma di Forza Italia.

Repubblica 19.6.18
Il caso Aquarius, l’umanità perduta
di Maurizio Bettini


Ogni anno in Attica si svolgeva una cerimonia di aratura sacra durante la quale i sacerdoti, detti Bouzúgai (“ aggiogatori di buoi”), lanciavano maledizioni contro tre categorie di persone ritenute particolarmente esecrabili: coloro che negavano fuoco o acqua a chi ne faceva richiesta; coloro che si rifiutavano di mostrare la strada a un viandante; coloro che lasciavano insepolto un cadavere.
L’assoluta necessità di osservare queste norme viene ribadita più volte nel mondo antico. Cicerone le definiva communia, cioè obblighi “ comuni a tutti i popo-li”, prestazioni che è necessario fornire a chiunque: tanto a un membro della mia comunità, quanto a uno straniero. Per accedere a questa soglia elementare di diritti, insomma, bastava essere “ uomini”, non era una questione di appartenenza o di cittadinanza. Ai communia di Cicerone, Seneca ne aggiungeva anzi un altro, l’obbligo di «porgere la mano al naufrago» – ma solo per dire che questo era davvero il minimo per potersi dire “umani”.
Il fatto è che, per gli antichi, trasgredire queste elementari norme di umanità avrebbe costituito un atto empio, tale da provocare la punizione divina. Per questo Priamo, quando chiede ad Achille la restituzione del corpo di Ettore, lo esorta a «non violare il comandamento di Zeus » . La sepoltura non si nega neppure a un nemico, gli dèi non lo permettono. Questa però era l’Iliade, ossia un poema che risale all’VIII secolo avanti Cristo.
Tutto al contrario, nei giorni passati noi italiani del XXI secolo abbiamo assistito allo spettacolo di una nave che, non riuscendo a capire dove sbarcare i cadaveri che aveva a bordo, ha deciso di lasciarli in acqua; e di un’altra, carica di naufraghi, a cui si negava l’accesso ai nostri porti. In altre parole, sotto i nostri occhi sono stati disattesi obblighi che gli antichi avrebbero considerato di semplice ed elementare “ umanità”. E questo non solo perché l’attuale governo ha deciso così, ma perché molti italiani hanno trovato giusto e legittimo ciò che i nostri antenati avrebbero invece ritenuto esecrabile. Com’è stato possibile? Che cosa è successo al nostro povero paese?
Di fronte a un atto particolarmente inumano compiuto da alcuni mercenari cartaginesi, Polibio forniva la seguente spiegazione: costoro non avevano ricevuto sufficiente paidéia, mancavano cioè di “cultura”, di “ educazione”. In altre parole, ci si comporta in modo non degno dell’uomo quando non si è stati “ educati” ad esserlo, quando la “cultura” non è riuscita ad addolcire la brutalità dei costumi. Forse è proprio questo che ci sta accadendo. Decenni di progressivo degrado culturale, anzi, di esplicita e crescente ostilità verso la cultura e chi la rappresenta ( insegnanti, intellettuali, giornalisti, istituzioni…) stanno facendo sì che noi italiani troviamo normale ignorare non solo quanto sta scritto nella “Dichiarazione dei diritti umani”, ma perfino i communia di Cicerone e le maledizioni scagliate dai Bouzúgai dell’Attica. I Romani, per tradurre ciò che i Greci definivano paidéia, usavano una parola su cui varrebbe la pena tornare a riflettere: humanitas, cioè “umanità”. Questa traduzione presuppone infatti l’idea che essere “umani” ed essere “colti” – “istruiti”, “ educati” – sia in definitiva la stessa cosa. Si ritiene insomma che, per essere veramente “umani”, la cultura sia indispensabile.
A questo punto qualcuno potrebbe forse obiettare che nel corso della storia non sempre la cultura ha impedito l’inumanità e la barbarie. È vero, ma ricordiamoci anche da quanta barbarie e inumanità la cultura è invece riuscita a difenderci fin qui. Siamone certi: senza la cultura – senza paidéia, senza humanitas – può essere soltanto peggio.

Repubblica 19.6.18
Il Movimento svuotato dalla Lega
L’ira del M5S sorpassato nei sondaggi Il premier e Di Maio: così non reggiamo
di Tommaso Ciriaco


BERLINO «Questo è veramente troppo, supera ogni limite. Così non reggiamo». Lo sfogo di Giuseppe Conte prende forma mentre il premier si prepara a decollare per Berlino. Non può che chiedere una rettifica al suo vicepremier. Arriva due ore dopo, mentre l’aereo di Stato atterra in Germania. E d’altra parte stavolta Salvini ha davvero alzato l’asticella oltre le nuvole. Proponendo di schedare i rom. Oscurando ancora una volta una missione del presidente del Consiglio. Distruggendo il castello comunicativo faticosamente eretto da Luigi Di Maio. Proprio il capo pentastellato, che puntava tantissimo sul progetto di portare il reddito di cittadinanza in Europa, resta di sasso. Aveva pregato Conte di dare il massimo risalto alla trovata. E invece, di nuovo, tutto svanito di fronte a uno slogan di Salvini. «Matteo all’inizio si è dimostrato leale – è la profezia che ripete sempre più spesso il leader del M5S al suo entourage - ma non vorrei che a dicembre mandasse tutto all’aria per tornare al voto e capitalizzare il suo consenso». Dovesse farlo, giurano i sondaggi attuali segnando il clamoroso sorpasso del Carroccio sul Movimento, raccoglierebbe la maggioranza.
Svuotando i grillini.
Quando a Palazzo Chigi suona l’allarme, Conte capisce immediatamente da dove arriva il pericolo. Il problema è che ancora una volta non sa come arginarlo.
«Mi sembra chiaro che c’è una strategia dietro – si lamenta ufficiosamente il premier – non vorrei che qualcuno punti a destabilizzare il governo». Nomi non ne fa, ma è chiaro che pensa proprio al ministro dell’Interno.
Lo schema, d’altra parte, ormai si ripete puntuale come un orologio svizzero. Mentre il capo è in giro per le cancellerie europee, il vicepremier con la ruspa gli fa perdere l’equilibrio. Basta mettere in fila i viaggi di Conte, puntualmente boicottati da Salvini: oggi i rom, ieri le bordate sull’immigrazione, le ong, l’asse con l’Est d’Europa.
La strategia, a questo punto, non può che essere quella di rispondere colpo su colpo. Senza indicare il bersaglio per nome, ma iniziando a reagire. Non è un caso che ieri, faccia a faccia con la Merkel per trentacinque minuti prima della cena con le delegazioni, sia tornato ad affacciarsi lo spettro Salvini. Assai simile, a dire il vero, a quello sofferto dalla Cancelliera con Horst Seehorf. E non è un caso nemmeno che il capo del governo abbia stroncato le richieste sui richiedenti asilo avanzate dal ministro dell’Interno tedesco tanto amico del leader leghista.
Trattare con Angela Merkel, allora, per arginare l’alleato più scomodo. La via stretta di Conte è la stessa di Di Maio. Era stato il ministro del Lavoro e dello Sviluppo a mettere le truppe parlamentari in allerta nei giorni scorsi. «Se Salvini continua così, bisogna iniziare a reagire con le nostre proposte». E in serata, intervistato dall’Huffington Post, rilancia: «Bene occuparsi di immigrazione, ma prima occupiamoci dei tanti italiani che non possono mangiare».
Prendere progressivamente le distanze dal capo leghista è anche il progetto dell’“avvocato degli italiani”. Un piano in due step.
Prevede innanzitutto di rilanciare sui temi economici, sfruttando le sponde di Macron e la debolezza interna della Merkel per ottenere qualche apertura nella direzione della flessibilità, per poi smarcarsi da Salvini sui migranti.
Per Di Maio, tra l’altro, è anche un problema di tenuta interna dei gruppi parlamentari. Lo si capisce anche ascoltando Roberto Fico, sempre più ala sinistra del grillismo. «Bisogna ridiscutere il regolamento di Dublino, è fondamentale. E occorre farlo con la Francia e con la Germania, mettendo fuori le posizioni estreme. Se Orbàn non vuole le quote deve essere multato». Parla rivolto all’Ungheria, ma è chiaro che guarda verso via Bellerio. E immagina un accordo con Germania e Francia per cambiare radicalmente il trattato di Dublino. Non a caso Macron, scettico sulla revisione delle quote, ha comunque chiamato il presidente libico Serraj promettendo soldi e mezzi per controllare al meglio le coste. Un passo in avanti. Anche se nelle cancellerie si teme che non basti a frenare il partito unico di destra capitanato dai ministri dell’Interno di mezza Europa.

Repubblica 19.6.18
Se l’altro diventa malattia da estirpare
di Chiara Saraceno


I rom sono odiati e temuti più dei migranti. Li si disprezza quando vivono nei campi, ignorando che spesso non è una scelta ma una necessità per mancanza di alternative, rafforzata da politiche pubbliche che, nel migliore dei casi, sembrano ritenere che i “campi attrezzati” siano la soluzione abitativa più adatta a loro.
Si ignora che i camminanti sono una piccola minoranza e che la maggioranza dei rom e sinti sarebbe ben contenta di avere un tetto stabile sulla testa, acqua corrente per lavarsi, servizi igienici adeguati, un lavoro regolare. Ma si disprezzano e temono i rom anche quando “pretendono” una abitazione come tutti gli altri. Una indagine Istat di qualche anno fa rilevò che quasi il 70% degli intervistati non avrebbe voluto avere come vicino di casa un rom. Così che i rom e sinti che abitano in appartamenti e hanno un lavoro regolare evitano di dichiarare la propria appartenenza etnica, come se fosse un marchio vergognoso, da nascondere o negare. Una più recente indagine internazionale dell’Istituto Pew ha segnalato che, con l’82% di intervistati che esprime un’opinione negativa sui rom e sinti, l’Italia mostra il più alto tasso di antigitanismo tra i paesi industrializzati. Il ministro dell’Interno Salvini, più preoccupato di rafforzare la propria costituency che di costruire le condizioni per una società sicura perché giusta e rispettosa dei diritti di tutti, dopo la battaglia dei porti anti-immigrati ha deciso di agitare anche la bandiera della caccia ai rom, in una ennesima versione della “emergenza rom”, come se si trattasse di popolazioni comparse improvvisamente da non si sa dove, stranieri non solo o tanto perché di altri paesi, ma perché estranei “al popolo” italiano.
Quindi da respingere quando possibile perché anche stranieri dal punto di vista della cittadinanza e da chiudere in recinti, se “purtroppo”, italiani.
Questi ultimi, ha aggiunto con dispiacere, “dobbiamo tenerceli”. Come se non fossero cittadini come lui e chi vota per lui, con gli stessi diritti (e certamente non sottoponibili a censimento etnico). Diritti che come ministro degli Interni e vicepresidente del Consiglio deve proteggere e rappresentare, a partire dal diritto fondamentale ad avere una abitazione decente, con le stesse regole, criteri di priorità, che valgono per tutti. Non mi nascondo che ci possano essere problemi di integrazione ed anche di comportamenti impropri, come i matrimoni precoci, l’evasione scolastica, l’accattonaggio o i furti. Ma essi non sono condivisi da tutta la popolazione rom. Allo stesso tempo non possono che essere rafforzati da atteggiamenti, e politiche pubbliche, che continuano a trattare la popolazione rom come un corpo estraneo a quello non solo del “popolo” e dei cittadini, ma della stessa umanità. Se si continua a negare loro sia condizioni di vita decenti, sia la stessa capacità di apprezzarle.

La Stampa 19.6.18
La politica delle provocazioni
di Vladimiro Zagrebelsky


Il vice presidente del Consiglio e ministro dell’Interno Salvini ha disposto la schedatura delle persone di etnia rom per poi espellere quelle che non sono cittadine italiane. I rom italiani, «purtroppo c’è li dobbiamo tenere», come si era già rammaricato all’epoca un altro ministro leghista, Maroni. È infatti la Costituzione che vieta l’espulsione dei cittadini. Ma la Costituzione vieta anche qualunque discriminazione basata, tra l’altro, sulla razza o l’etnia. E non solo l’espulsione, ma anche la sola schedatura dei rom, in quanto tali, sarebbe una violazione della Costituzione. Non si tratterebbe di una vera e propria schedatura - come ha successivamente precisato lo stesso ministro Salvini - ma la sostanza non cambia.
Con la Costituzione entreremmo (uso il noi, tutti noi italiani) in conflitto anche con norme basilari della Dichiarazione universale dei diritti umani, della Convenzione europea dei diritti umani, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
Se cerchiamo un altro motivo di contrasto con l‘Unione, questo è il più dirompente. È recente (e preveggente) l’intervento della senatrice a vita Liliana Segre, che ha ricordato i rom chiusi nei campi nazisti, come gli ebrei. Salvaguardate tutte le proporzioni, il richiamo del vergognoso passato è ancora vivo in Europa.
Secondo il ministro Salvini i rom non italiani dovrebbero essere espulsi in blocco in quanto Rom. Non perché abbiano commesso questo o quel reato, uomini, donne e bambini. E espulsi dove? E prima ancora, come trovarli e cominciare una procedura che prevede necessariamente un controllo giudiziario, che porrebbe la questione di costituzionalità? Impossibile. Niente più che propaganda. Propaganda terribile, che indica un altro nemico: questa volta i rom, termine che nel linguaggio comune in realtà comprende popolazioni anche diverse, di nazionalità diversa o senza nazionalità. Che non si saprebbe perciò dove espellere. Una parte di loro viene dalla ex Jugoslavia, in fuga dalle guerre e dalle persecuzioni subite in quell’area. Un gesto dimostrativo tentato dalla Francia anni orsono si rivelò anch’esso un fatto di propaganda politica, senza effetti pratici.
Il governo di Lega e 5Stelle, protagonista il ministro Salvini e silenti gli altri, produce ogni giorno una raffica di provocazioni, con propositi inattuabili, se anche fossero giustificati. Il governo lancia messaggi che rispondono anche a problemi reali di convivenza, che sentono particolarmente certe aree territoriali o sociali di cittadini. Si pensi a certi accampamenti rom e ai quartieri vicini. Come per quanto riguarda spesso i migranti, si tratta di questioni reali e complesse, che richiedono saggezza e tempi e una politica rispettosa delle persone (anche di chi viene illuso da messaggi muscolari impossibili da realizzare). Le semplificazioni di sapore razzista umiliano il governo e l’Italia. Creano problemi, invece di risolverli.

Repubblica 19.6.18
“Censimento e espulsioni” Salvini scatenato sui rom Gli ebrei: siamo al razzismo
Il ministro dell’Interno: “Purtroppo gli italiani li dovremo tenere...”
Gentiloni attacca: “Poi arriveremo alle pistole”
di Goffredo De Marchis


Roma Il ministro dell’Interno può forse dire che bisogna controllare meglio i campi nomadi, quelli regolari e quelli abusivi. Il leader di un partito impegnato in una strategia che punta al consenso qui e ora, che guarda ai sondaggi del giorno invece scolpisce: « Facciamo una ricognizione sui rom in Italia per vedere chi, come, quanti sono ripetendo quello che fu definito il censimento». Così Matteo Salvini conquista la scena ancora una volta, alzando sempre di più la soglia del punto di non ritorno, proponendo una schedatura basata sulla razza.
I porti, le navi, le Organizzazioni non governative e ora i rom sono le battaglie della Lega che secondo un sondaggio del Tg La7 la proiettano verso il 29,2 per cento e certificano il primo sorpasso sul Movimento 5 stelle ( 29). C’è un tweet di Paolo Gentiloni che marca proprio questo territorio, appartenente più alla propaganda che all’azione di governo. « Ieri i rifugiati, oggi i rom, domani le pistole per tutti. Quanto è faticoso essere cattivo... » . E il riferimento alle armi, dice l’ex premier, non è una battuta: « È il prossimo passo, vedrete ».
Salvini dunque affonda il colpo: « Sto facendo preparare un dossier al Viminale sulla questione dei rom. Quelli che possiamo espellere, facendo degli accordi con gli Stati, li espelleremo. Gli italiani purtroppo ce li dobbiamo tenere » . Come si vede, non è solo l’annuncio di un’iniziativa ufficiale, è piuttosto l’idea di solleticare la pancia del Paese. Viene in mente, quando si leggono le dichiarazioni di Salvini, la lungimiranza della senatrice a vita Liliana Segre che nel suo intervento per la fiducia al governo, aveva colto un appello di Repubblica e messo in guardia dal ritorno di leggi speciali contro la comunità nomade. La premessa di una pulizia basata sull’etnia.
Le precisazioni del ministro arrivano a tarda sera: «Nessuna schedatura, semmai un’anagrafe, come feca Maroni. Non voglio prendere le impronte digitali a nessuno, voglio tutelare i i bambini rom, voglio che vadano a scuola». Sui nomadi italiani che « purtroppo » non possono essere mandati via, nessuna marcia indietro. Il chiarimento di Salvini serve a chiudere la ferita con i grillini, il loro imbarazzo nell’essere fagocitati dalle parole d’ordine del Carroccio. « Mi fa piacere la smentita di Salvini — dice Luigi Di Maio — perché se una cosa è incostituzionale non si può fare. E il censimento lo è » . Ma il clima pessimo rimane. L’Unione delle comunità ebraiche mette il dito nella piaga: «L’annuncio del ministro dell’Interno Salvini di un possibile censimento della popolazione rom in Italia preoccupa e risveglia ricordi di leggi e misure razziste di appena 80 anni fa e tristemente sempre piu dimenticate». C’è questo pericolo all’orizzonte? Santino Spinelli, responsabile europeo delle comunità nomadi, chiede l’intervento di Sergio Mattarella. La Chiesa è in allarme e sulle chat di prelati e suore gira la famosa frase di Brecht: « Prima di tutto vennero a prendere gli zingari... » . Lanciano l’allarme le organizzazioni italiane dei rom, Associazione 21 luglio e l’Opera nomadi. La presidente dell’Anpi Carla Nespolo ricorda che «i censimenti non fanno parte della storia democratica di questo Paese » . Come si capisce, i riferimenti al fascismo sono sempre meno sottintesi.
Reagiscono anche i partiti di opposizione. Maurizio Martina mette insieme i pezzi e parla di « un’escalation pericolosa e inaccettabile » definendo l’ultima uscita di Salvini «aberrante». Laura Boldrini definisce la politica del ministro dell’Interno « disumanità al potere » . Forza Italia come al solito è in difficoltà rispetto al vecchio alleato. Giorgia Meloni invece lo sostiene e rilancia una sua vecchia proposta che si può sintetizzare così: «I nomadi devono nomadare » , parole sue. Ovvero vanno accolti per pochi mesi in apposti luoghi e poi sgomberati.
Semmai, sorprende che siano proprio i rappresentanti di rom e sinti i meno emotivi, i più chirurgici nel contestare i propositi salviniani. «Il ministro — dice il presidente dell’associazione 21 luglio Carlo Stasolla — sembra non sapere che in Italia un censimento su base etnica non è consentito dalla legge. Inoltre esistono già dati e numeri e i pochi rom irregolari sono apolidi di fatto, quindi inespellibili». In effetti è così, ma la propaganda non tiene conto dei dati di fatto.

La Stampa 19.6.18
Rom, ira di Conte: ora Salvini esagera
Il ministro annuncia “un censimento”. Il premier: questo è davvero troppo
di Ilario Lombardo


Il ministro dell’Interno Matteo Salvini annuncia «il censimento dei rom» con l’obiettivo di «espellere gli irregolari. Quelli italiani? Purtroppo dobbiamo tenerli». La rabbia del premier Giuseppe Conte: «Questo è veramente troppo, supera ogni limite». E prima di imbarcarsi per Berlino fa arrivare al leader della Lega questo messaggio: «Devi rettificare». Anche Luigi Di Maio prende le distanze: «La priorità sono i cittadini che non hanno cibo». Insorge il Pd: «Ieri i rifugiati, oggi i rom, domani le pistole per tutti».  

Giuseppe Conte è arrivato a Berlino con un’idea ben precisa, sostenuta da Luigi Di Maio: ricalibrare l’agenda di governo sui temi cari al M5S per rispondere all’assedio leghista sull’immigrazione, al martellamento ormai quotidiano di Matteo Salvini.
Questa era l’intenzione. Peccato però che mentre sta ripassando i dossier internazionali in preparazione del vertice bilaterale con Angela Merkel, il leghista se ne esca con un’altra delle sue proposte bellicose. Di fronte alla schedatura dei rom però Conte è disorientato a dir poco. E questa volta non può e non vuole far finta a nulla. «Questa è veramente troppo, supera ogni limite», si sfoga. Poi, poco prima di salire sull’aereo che lo avrebbe portato nella capitale tedesca, d’accordo con Luigi Di Maio, fa arrivare a Salvini questo messaggio: «Così non reggiamo, devi rettificare».
Appena atterrato, mentre la macchina di rappresentanza lo porta nel cortile della cancelleria federale, Conte tira un sospiro di sollievo. Gli leggono le agenzie in cui Salvini ha appena corretto il tiro. «Meno male...» si lascia andare. Il segno però resta. L’ennesimo che fa sospettare Conte che ci possa essere «una strategia per destabilizzare il governo». Le coincidenze ora sono tante e pesano. Non c’è viaggio internazionale di Conte (tre in dieci giorni) che non sia accompagnato da dichiarazioni choc del leghista. Salvini gli ruba la scena, radicalizza i piani del governo, provoca un immediato stress test con gli alleati grillini.
In mano il premier ha il sondaggio della Swg che ha buttato nello sconforto Di Maio, il primo in cui la Lega è sopra al M5S, 29,2% contro 29%. In una settimana i grillini perdono due punti e mezzo. Sono i giorni del ferro e del fuoco di Salvini, cominciati contro l’Aquarius e conclusi con la paventata schedatura dei rom. All’ombra di Salvini, ora Di Maio si sente meno al sicuro, terrorizzato dal pensiero che l’alleato possa tornare al voto entro fine anno per capitalizzare il consenso crescente. L’affondo sui rom è l’occasione per smarcarsi. Lo fa con un’intervista all’Huffington Post: «Mi fa piacere che abbia smentito ogni ipotesi di schedatura e censimento… Non è costituzionale». Salvini si muove come un re in un regno che sta strappando pezzo dopo pezzo al M5S e a un premier dai modi miti, che deve subire le improvvisazioni mediatiche dell’alleato. E così che di ritorno da Parigi, nel weekend era già maturata la missione di ribaltare le priorità, e buttare al centro del dibattito in Europa la proposta di un reddito di cittadinanza europeo, attraverso l’utilizzo di fondi ad hoc da tirar fuori dalla prossima programmazione europea. Ieri il premier italiano ha portato con sé in Germania il rapporto della Coldiretti secondo il quale sarebbero 2,7 milioni gli italiani costretti a chiedere aiuto per mangiare. «La priorità deve essere la lotta alla povertà, ed è una sfida da affrontare a livello comunitario» spiega Conte. Venerdì, Di Maio aveva riunito i viceministri e i sottosegretari grillini proprio per chiedere uno sforzo in più, di fare in fretta per segnare un punto e non lasciare tutto il campo d’azione a Salvini. «Ci sta oscurando» è stata la sua lamentela. Una preoccupazione condivisa con Conte: «Parliamo troppo di immigrati e poco di lavoro e delle nostre battaglie». I timori si esplicitano ieri. Di Maio dice di non avere «complessi» nei confronti di Salvini. E che la concorrenza interna si è giocata a favore del leghista su un vantaggio oggettivo che ora cerca di ridimensionare: «Bene occuparsi di immigrazione ma prima occupiamoci dei tanti italiani che non possono mangiare».
Ecco allora rispuntare il reddito di cittadinanza, cercando di trasferire la sfida alle regole Ue sul tavolo economico. Confortato dal sostegno di Emmanuel Macron che lavora a un piano di unione bancaria e rafforzamento del bilancio comunitario, Conte parla di «condivisione dei rischi». Parole che Merkel accoglie con prudenza e tattica benevolenza. Meglio non alienarsi l’alleato italiano.

Corriere 19.6.18
La ricerca (spericolata) del consenso
di Massimo Gramellini


Dopo due settimane parlate pericolosamente, l’irresistibile linea «cattivista» di Salvini conosce il primo inciampo. Succede per colpa di un vocabolo — censimento — che ha ancora il potere di evocare fantasmi, quando viene associato a una minoranza etnica. Nella sua inesausta attività social, il ministro dell’Interno e delle interiora (intese come pulsioni profonde) ha annunciato, in singolare coincidenza temporale, il censimento dei campi rom e una sua imminente visita al Papa meno salviniano che si possa immaginare. Finora le sortite del leghista in capo avevano goduto di una certa benevolenza mediatica.
Dettavano l’agenda politica senza incontrare altri ostacoli che l’indignazione, ininfluente e scontata, della sinistra in disgrazia. Stavolta invece qualcosa è andato storto. Mentre la Santa Sede negava l’esistenza di un incontro ufficiale tra Francesco I e Matteo II, il poliministro Di Maio alzava per la prima volta la voce contro il dinamico sodale di contratto, ricordandogli che schedare le persone è una pratica incostituzionale. A stimolare l’orgoglio pentastellato non sarà stato estraneo l’ultimo sondaggio sulle intenzioni di voto degli italiani, che annunciava il clamoroso sorpasso della Lega sui grillini (29,2% a 29), al culmine di una tendenza che nei primi cento giorni trascorsi dalle elezioni ha visto Salvini crescere inesorabilmente e Di Maio altrettanto inesorabilmente calare. Fiutato il rischio di finire fuori strada, il leader della Lega ha innestato una marcia finora poco usata, quella indietro, spiegando che per censimento dei rom non intendeva certo una schedatura, ma il sopralluogo dei loro campi. Non ha potuto però smentire l’esito da lui auspicato di quel sopralluogo: l’espulsione dei rom stranieri, dato che «gli italiani purtroppo ce li dobbiamo tenere». E quel «purtroppo» conteneva l’essenza del suo pensiero. Sarà interessante vedere come evolverà il salvinismo. L’uomo che lo interpreta è in sella all’umore del Paese. Gramsci direbbe che ne ha conquistato l’egemonia culturale, premessa di quella politica. È lui, non i grillini, a dare il tono al discorso pubblico. Del reddito di cittadinanza non si parla già più, mentre la retorica nazionalista domina la scena, svariando dal tema della sicurezza a quello delle vacanze autarchiche, consigliate proprio ieri da un Salvini in versione tour operator, nell’ennesima intervista televisiva rilanciata da un tweet e ripresa in un post. Nel momento in cui la Lega diventa virtualmente il primo partito italiano, con un vento talmente in poppa da renderla impermeabile persino agli scandali, il suo leader si trova di fronte a un passaggio decisivo. Ai disagi creati dall’immigrazione di massa si può infatti reagire in tre modi. Il primo, scelto fin qui dalla sinistra, è quello di negarne l’esistenza e di irridere come insensibili o razzisti coloro che pagano sulla propria pelle le difficoltà di un’integrazione male pensata e peggio gestita. Il secondo è il metodo finora proposto da Salvini e consiste nel non limitarsi a denunciare la questione, ma nell’esasperarla, come ha spiegato sul Corriere di ieri Antonio Polito. Un vero leader non si limita a cercare il consenso, ma è disposto persino a metterlo in gioco per affrontare sul serio i problemi. E nessun problema complesso come l’immigrazione è mai stato risolto con parole a effetto. Serve un’azione lenta e paziente, a tratti noiosa, non condensabile in un tweet e nemmeno in un post. Sarebbe questa la terza strada, finora poco battuta da tutti, e si chiama politica.

il manifesto 19.6.18
Brunello Mantelli: «Nelle parole di Salvini sui Rom riemerge il rimosso della storia nazionale»
Intervista. Parla lo storico del fascismo e della deportazione verso i campi nazisti
intervista di Guido Caldiron


Studioso dei fascismi europei e della deportazione verso i campi di sterminio nazisti, Brunello Mantelli insegna Storia dei conflitti internazionali all’Università della Calabria.
Professor Mantelli, partiamo dalle parole di Salvini sui rom: a chi studia da trent’anni fascismo e razzismo, che effetto fanno?
La prima reazione è quella di dire: «sta tornado il fascismo». In realtà, a ben guardare, il fascismo fu però una sorta di imbuto per il quale passarono culture antidemocratiche ed autoritarie che negli anni Venti e Trenta, in Italia come in Germania, si trasformeranno in regimi. E oggi è alla comparsa, e in parte alla ricomparsa di simili culture che si sta assistendo nel nostro paese. Pensiamo al cosiddetto «sovranismo», in realtà si tratta di vero e proprio nazionalismo e sappiamo bene a cosa condusse tutto ciò. Allo stesso modo, la sola idea di schedare gli esseri umani in base alla loro «etnia», parola che si immagina più presentabile del termine «razza», rimanda esplicitamente al più terribile passato europeo e del nostro paese. Ciò a cui si sta assistendo oggi rappresenta perciò una sorta di riemersione di quel rimosso della storia nazionale, di quelle culture organicistiche e antidemocratiche che il fascismo veicolò e trasformò in una macchina statale.
Gli stereotipi sui rom cui attinge anche la destra al governo sono tra i più violenti e aggressivi.
Infatti, con la progressiva scomparsa dei mestieri nomadi, coloro che li esercitavano hanno finito per essere spesso equiparati a persone che vivono di espedienti. È un paradosso se si considera ad esempio che quelli che qualcuno dipinge come «ladri di bambini» sono gli stessi giostrai cui per generazioni i genitori affidavano felici i loro piccoli perché passassero un pomeriggio di festa. Oggi si oscilla tra le tesi del razzismo differenzialista che fa breccia anche a sinistra, «quelli sono così», punto e basta, e lo smantellamento delle politiche di mediazione culturale e di dialogo costruttivo, equiparate ad «inciucio e corruzione», che sono invece le uniche che in un paese civile potrebbero migliorare le cose.
Il «prima gli italiani» non è in realtà una novità visto il passato coloniale del nostro paese, eppure nessuno sembra ricordarlo.
Il problema non riguarda la storiografia, visto che si contano molti studi importanti dedicati al razzismo e al colonialismo fascista. Piuttosto è nella cultura diffusa che sembra non esserci alcuna consapevolezza del nostro passato coloniale. E su questa base si sono andati costruendo i nuovi stereotipi. Anni fa un collega afroamericano che lavorava in Italia mi fece notare inorridito come sui nostri canali televisivi passassero in continuazione spot pubblicitari che negli Stati Uniti, non certo un paese esente dal razzismo, non sarebbero mai apparsi. Rappresentazioni grottesche o mercificanti di uomini e donne nere o delle donne più generale.
I sondaggi indicano che sono in molti, anche tra gli elettori di centrosinistra, ad approvare la «linea-Salvini».
Stiamo correndo verso un punto di non ritorno e senza una sufficiente consapevolezza del pericolo. Non mi convince la lettura un po’ semplicistica per cui se la sinistra non fa più la sinistra, «il popolo» si butta a destra. Questo dice forse qualcosa della situazione, ma non spiega l’insieme e la portata del problema. Piuttosto, credo vada considerato il ruolo decisivo giocato dagli imprenditori politici dell’intolleranza, la loro capacità di trasformare, e camuffare, i discorsi da bar in interventi «politici». Inoltre, sul fondo emerge un tema: sono più di vent’anni che ci siamo abituati a veder contrapporre la cosiddetta «società civile» alla politica. Sia chiaro, combattere la corruzione è importante, ma non si deve dimenticare come i vecchi partiti di massa contribuivano alla formazione dei cittadini. Senza tutto ciò, all’inverso, dalla «società civile» si levano gli umori su cui specula Salvini.
Vent’anni di berlusconismo hanno reso il paese ciò che è ora. Il «prima gli italiani» che società annuncia?
La «cifra» dell’Italia di oggi può essere riassunta nel crescente individualismo, eredità proprio della stagione del Cavaliere. Ma anche in prospettiva mi sembra questa la sfida più importante, specie per la sinistra. Perché, come diceva Don Milani, «politica è uscire insieme dai problemi, uscirne da soli è solo egoismo».

il manifesto 19.6.18
I populisti ormai al potere e le loro disinibite pratiche
di Michele Prospero


La vicenda romana restituisce il grado della effettiva capacità innovativa dei movimenti dell’antipolitica. Quando sono veicoli di protesta, essi si fanno strada con parole d’ordine di radicale estraneità alla casta, da affidare a tribunali del popolo. Agitano anche una intransigente ricusazione del principio del negoziato politico, respinto in quanto tale. Una volta al potere, i non-partiti rivelano però la loro natura reale di organi dell’opaco compromesso permanente.
Il populismo divenuto regime si lascia sorprendere in disinibite pratiche di gestione. Si svelano così le illusioni del marketing del risentimento congegnato dal populismo-movimento per affermarsi tra i ceti popolari.
Le chiacchiere della democrazia diretta e il motto della onestà-onestà si svuotano. Dopo i partiti, è peggiorata la condizione di salute della democrazia. Una volta c’era almeno una parvenza di autonomia dei partiti dalle dinamiche aziendali. Esisteva un gioco di condizionamento reciproco, tra il mondo delle imprese e le macchine di partito. Non esisteva un controllo totale esercitato da uno dei protagonisti, l’impresa. Ora i non-partiti non sono altro che un investimento in campo politico studiato da grandi o piccole imprese che grazie al marketing elettorale conquistano l’amministrazione per reperire opportunità, risorse. La politica è diventata cioè oggetto di mercato, come i macchinari, le forniture, la forza-lavoro, il capitale.
La piccola azienda per stare nel mercato ha per due volte raccolto la microfisica della rabbia diffusa trasformandola nel primo soggetto politico nazionale. Come già accaduto con la macro-impresa berlusconiana, anche il M5S ha solo nella proprietà (la leadership è stata conferita per successione ereditaria!) il supremo grado direttivo. Emerge nelle città la contaminazione di impresa, amministrazioni controllate, manager ombra, governo locale sprovvisto di autonomia nella adozione delle politiche pubbliche e urbanistiche. Trattative private accompagnano spartizioni, tentativi di traffici di influenza, con affacci di convivialità persino nell’impulso a pratiche coalizionali che hanno condotto alla stipula del contratto di governo.
Esiste una zona invisibile di comando, selezione che fa impallidire la retorica del ritrovamento dell’agorà su una base elettronica. La trasparenza della rete è una finzione che copre trame di interessi e giochi strategici per l’accaparramento di influenza, risorse, potenza. La politica, per alcune imprese, è diventata la concorrenza economica condotta con altri mezzi. Le istituzioni sono, in questa ottica, dei semplici strumenti di accumulazione del capitale e la competizione per il voto consente ai partiti-proprietà di afferrare quote della ricchezza-potenza disponibile.
In una democrazia che si sta sempre più spegnendo, affiora la metamorfosi rapida del populismo. Nella fase di movimento, contrapponeva il basso contro l’alto. E ora, nella sua stagione di governo, si impegna in una guerra infinita contro il più basso per eccellenza, cioè il migrante. La “pacchia” contro cui il populismo-regime riesce a scagliare tutti i risentimenti è proprio quella goduta dai migranti, presentati come l’unico ostacolo al benessere, alla sicurezza, alla felicità pubblica. È chiaro che il populismo-regime è solo lo strumento dei veri piani alti della società (con gli eterni ritorni in scena di Savona o Bisignani) per continuare ad esercitare il potere dirigendo l’odio degli esclusi contro la bella vita del migrante.
La coalizione gialloverde trova una leale collaborazione proprio nella guerra santa dei sovranisti per la chiusura dei porti ai corpi dalla pelle nera. Se i migranti o i rom sono i privilegiati che vivono nella “pacchia”, i poteri reali dominano indisturbati. Riescono ad ottenere il controllo delle amministrazioni centrali e periferiche. Possono persino godere di una espropriazione legale della ricchezza sociale, attuata con la seducente flat tax. La mistificazione cognitiva in Italia ha vinto, e il populismo è lo strumento di classe per la conservazione-restaurazione. Lo scivolamento visibile nelle culture e nelle pratiche politiche potrebbe approdare in una qualche variante postmoderna di personalizzazione neoautoritaria del potere.
In questa deriva, presidenti di associazioni per la costituzione, dopo aver scelto il non-partito azienda M5S, adesso invitano all’astensione nelle elezioni di Siena e Pisa. Assurdo. Sarebbe invece molto importante che la piccola onda di resistenza avviata già alla Garbatella si estenda anche nelle città toscane. Vincere nelle vecchie zone rosse servirebbe come un incentivo per riorganizzare le forze contro la minacciosa marea nera oggi trionfante.

La Stampa 19.6.18
Vantaggi e rischi della filosofia dell’emergenza
di Marcello Sorgi


Crea indignazione, ma raccoglie anche molti consensi, la campagna permanente di Salvini. La scorsa settimana l’arrembaggio nel mare in tempesta dell’immigrazione, ieri l’uscita sul censimento dei rom, tra l’altro illegale perché sancirebbe una discriminazione razziale nei confronti di una comunità in parte apolide e avente diritto d’asilo. Il leader leghista e neo-ministro dell’Interno ha capito che governare l’Italia è soprattutto far fronte alle emergenze, e alle volte crearle, piuttosto che realizzare programmi destinati a restare chiusi nei cassetti dei ministeri.
Non avrebbe potuto dispiegare in modo così perentorio il suo diktat sui «porti chiusi», senza l’emergenza della nave Aquarius. Ed anche se l’ipotesi del censimento dei rom si rivelerà impraticabile, o sarà sepolta, come ieri s’è visto fin da subito, da una valanga di reazioni contrarie, potrà sempre dire che se non è per oggi sarà per domani, quando il territorio nazionale, promette, sarà definitivamente restituito ai cittadini italiani.
Salvini può comportarsi così per due ragioni. Prima, perché anche le sue proposte più inammissibili incontrano consenso. Lo dicono i sondaggi che, dopo avergli attribuito una quota crescente degli elettori ex-Forza Italia, lo pongono in prospettiva davanti al Movimento 5 stelle. E seconda, perché anche il suo maggior alleato, il capo politico pentastellato Di Maio, condivide pienamente - salvo la presa di distanza di ieri sui rom - questa linea d’azione e vorrebbe fare lo stesso. Sulla sua scrivania di ministro dello Sviluppo economico e del lavoro sono approdati i dossier delle maggiori crisi aperte, a cominciare dall’Ilva. Ma Di Maio ha preferito partire dalla mediaticamente più visibile categoria dei precari «riders».
In fondo, anche questa coalizione è figlia dell’emergenza della «non vittoria» dei due partner di governo. Fino a settembre, quando i conti della manovra e i vincoli della legge di stabilità cominceranno a farsi sentire seriamente, i dioscuri Salvini e Di Maio potranno continuare a scegliere i terreni per la loro propaganda, rispetto alla necessità di trovare soluzioni per i problemi del Paese. Ma presto arriverà il richiamo della realtà. E sarà più brusco di quanto si aspettano.

La Stampa 19.6.18
Rom, piccola comunità divisa in 148 campi
Il 43 per cento è italiano
Sono lo 0,04% della popolazione, la metà è minorenne Di norma hanno un’aspettativa di vita di 10 anni in meno
di Grazia Longo


Dislocazione nelle baraccopoli formali e informali - in altri termini campi rom autorizzati e no -, condizioni dell’emergenza abitativa, numeri dei cittadini italiani. La fotografia delle comunità rom e sinti presenti in Italia, viene fornita dalla «Associazione 21 luglio». I dati della onlus sono riferiti al 2017 e rivelano la presenza di 26 mila persone, tra rom e sinti in emergenza abitativa: vivono suddivisi tra aree autorizzate e accampamenti di fortuna e corrispondono allo 0,04% della popolazione italiana.
Più nel dettaglio, sono circa 16 mila e 400 quelli che abitano negli insediamenti formali, per l’esattezza in 148 campi distribuiti in 87 comuni. Mentre nei campi non autorizzati e nei micro insediamenti vengono individuati 9 mila e 600 rom. Tra coloro che occupano le baraccopoli istituzionali, il 43% ha la cittadinanza italiana.
Tanti hanno meno di 18 anni
Più in generale, l’aspettativa di vita dei rom - una popolazione da sempre discriminata e oggetto di deportazione e sterminio di massa durante il nazismo - è di 10 anni inferiore a quella della popolazione italiana e il 55% ha meno di 18 anni. Chi occupa le baraccopoli informali e i micro insediamenti è per l’86% di origine romena. Mentre i rimanenti sono in prevalenza di nazionalità bulgara. Sono invece circa 9.600 i rom originari dell’ex Jugoslavia: si tratta di persone che vivono quasi esclusivamente nelle baraccopoli formali. Di questi si stima che il 30% più o meno 3 persone - possa essere a rischio apolidia (senza cittadinanza).
Concentrati a Roma
Le più grandi baraccopoli abusive sono concentrate nella regione Campania, mentre la città con il maggior numero di campi autorizzati è Roma che ne ha 17. La capitale detiene, inoltre, anche il record del maggior numero di micro insediamenti informali: circa 300.
«Così è nata Mafia Capitale»
Il presidente dell’Associazione 21 luglio, Carlo Stasolla, che si occupa di diritti umani e discriminazione contro le comunità rom, sinti e caminanti stigmatizza il censimento voluto dal ministro dell’Interno. «È un’iniziativa illegale. Salvini poi menziona Maroni - scrive su Facebook - dimenticando che fu proprio lui a inaugurare nel 2008 la costosissima e fallimentare “Emergenza Nomadi” che, oltre ad essere dichiarata illegittima dal Consiglio di Stato, creò l’humus sul quale nacque Mafia Capitale». Stasolla ricorda anche che il Consiglio di Stato ha risarcito con 18 mila euro un rom sottoposto a censimento. E conclude: «Il ministro dell’Interno sembra non sapere che in Italia esistono già dati e numeri sulle persone presenti negli insediamenti formali e informali; che i pochi rom irregolari sono apolidi di fatto, quindi inespellibili; che i rom italiani sono presenti nel nostro Paese da almeno mezzo secolo e sono per certi versi “più italiani” di tanti nostri concittadini».
Una realtà in diminuzione
Tornando ai numeri, secondo la mappatura della onlus rispetto al 2016, quando i rom rilevati erano stati circa 28 mila, si è verificato un decremento del 7% dovuto in parte al trasferimento di alcune comunità da insediamenti informali ad immobili occupati, dall’altro allo spostamento volontario di alcune famiglie,prevalentemente di nazionalità romena, verso altri Paesi europei.
I casi particolari
A parte le baraccopoli vanno infine ricordati alcuni casi particolari. Come le circa 1.300 persone, in prevalenza sinti, che vivono in una cinquantina di micro aree collocate nell’Italia Centro-Settentrionale. O i 1.200 rom di cittadinanza romena sistemati in appartamenti occupati in forma «monoetnica» a Roma, Napoli e Sesto Fiorentino. E, ancora, i circa 760 rom di nazionalità italiana presenti in abitazione dell’edilizia residenziale pubblica all’interno di quartieri monoetnici nelle città di Cosenza (circa 500 persone) e Gioia Tauro (circa 260 persone).

Repubblica 19.6.18
Il rapporto 2017
Nel mondo scappa una persona su 110 L’allarme Unhcr sui rifugiati
I dati dell’agenzia Onu: 68 milioni in fuga per guerre e persecuzioni I paesi più aperti sono Turchia e Germania
di Alessandra Ziniti


Roma. I 620.000 in fuga dal Congo e i 665.000 Rohingya scappati dal Myanmar sono solo gli ultimi focolai di una crisi sempre più globale che fa sì che oggi nel mondo una persona ogni 110 sia costretta ad abbandonare il suo paese, 44.500 al giorno, una ogni due secondi.
Sono cifre da brivido quelle che vengono fuor dal Global Trend dell’Agenzia per l’Onu dei rifugiati: nel 2017 il numero delle persone in fuga per guerre, violenze e persecuzioni ha superato i 68 milioni di persone, con un aumento record che sfiora il 3 per cento solo lo scorso anno. Cifre che fanno dire a Filippo Grandi, alto commissario Unhcr: « Siamo a uno spartiacque, dove il successo nella gestione degli esodi forzati a livello globale richiede un approccio nuovo e molto più complessivo per evitare che paesi e comunità vengano lasciati soli ad affrontare tutto questo». Da qui muove i suoi passi il nuovo Global compact sui rifugiati che verrà proposto all’Assemblea generale dell’Onu. « Il mio appello agli Stati membri – spiega Grandi – è di sostenerci in questo. Nessuno diventa un rifugiato per scelta, ma noi tutti possiamo scegliere come aiutare». Si scappa dalla povertà e dalle emergenze sanitarie e climatiche del sud del mondo e dai teatri di guerra e si finisce, nell’ 85 per cento dei casi, non in quelli del nord ma in quelli in via di sviluppo. Ma dei 68 milioni di perone in fuga meno di un terzo sono rifugiati, 25 milioni: 40 milioni si spostano all’interno del loro stesso paese e 3,1 milioni sono richiedenti asilo. Una “ quota” che presenta una particolare criticità, sia per i tempi troppo lunghi di attesa della decisione sulle istanze (che solo nel 2017 hanno fatto lievitare la cifra da 300.000 a oltre tre milioni) sia per il consistente numero di minorenni. Il 53 per cento dei rifugiati sono under 18 e di loro moltissimi sono quelli che sono fuggiti da soli o sono stati separati dalle famiglie.
Basta seguire i flussi sul mappamondo per rendersi conto come la tanto sbandierata “ invasione” dell’Europa e tantomeno dell’Italia da parte dei migranti in partenza dalle coste libiche non sia neanche ai primi posti della “classifica”. I 6,3 milioni di persone fuggite dalla Siria, i 2,6 milioni dall’Afghanistan, i 2,4 milioni dal Sud Sudan, gli 1,2 milioni dal Myanmar e i 986.400 dalla Somalia hanno trovato porte aperte in Turchia (che con i suoi 3,5 milioni è il paese al mondo che ospita più rifugiati), Pakistan, Uganda, Libano, Iran, Germania, Bangladesh e Sudan. C’è solo la Germania, dunque, come paese europeo tra quelli che ospita il maggior numero di rifugiati.
E anche l’analisi delle nuove richieste di asilo presentate nel 2017 sposta il baricentro dell’emergenza dall’Europa agli Stati Uniti, lo Stato che ha ricevuto più istanze di protezione internazionale, oltre 331.000, di persone che arrivano dal centro e sud America. Mentre chi fugge dall’Asia o dal sud dell’Africa punta a rifarsi una vita in Germania che, con le sue 198.300 richieste di asilo, precede l’Italia (126.500) e la Turchia (126.100).
Ancora molto bassa la percentuale di chi prova a tornare a casa, 667.000 rifugiati lo scorso anno, solo il tre per cento. E, tra quelli che accettano di rientrare, la maggior parte è rappresentata proprio dai migranti che provano ad attraversare il Mediterraneo con i barconi: Nigeria, paesi del centro Africa, Siria, Afghanistan. Cifra che lievita a cinque milioni se si considerano gli sfollati interni. Solo che di luoghi dove reinsediare chi torna ce ne sono sempre di meno e chi torna – sottolinea Unhcr – « spesso rientra sotto costrizione o in contesti assai precari».

Repubblica 19.6.18
I migranti e la lotta di classe
di Massimo Riva

L’Unione europea rischia seriamente di disgregarsi sotto la pressione delle ondate migratorie dalle coste africane, che stanno innescando conflitti fra Paesi e fra popoli tali da mettere a repentaglio quel disegno unitario che tanta pace e benessere ha offerto agli europei dopo la loro ultima guerra civile. Fratture incomponibili si stanno allargando fra i diversi Stati della Ue, mentre al loro interno affiorano divisioni profonde che scuotono equilibri politici di storica solidità: la spaccatura fra Cdu e Csu in Germania ne è un esempio evidente, oltre che temibile. Dinanzi a prospettive così fosche, occorre riflettere meglio sulle radici di un fenomeno tanto minaccioso.
Per alcuni secoli — in particolare tra Otto e Novecento — l’Europa si è arricchita a dismisura, seppure in termini asimmetrici, spogliando l’Africa di tante sue risorse, naturali e non. Ma senza fare nulla di serio e utile per aiutare quei popoli a emanciparsi da un’originaria cultura di tipo tribale.
Anzi, sfruttando questa loro condizione di debolezza strutturale per tenere più bassi i costi dello sfruttamento. Implacabile, come lo sono le leggi della fisica, ora la Storia sta presentando il conto. Quello che gli europei non hanno dato loro, oggi gli africani cercano di venire a prenderselo in Europa. Scosso dalla perentorietà di questa aspirazione, il Vecchio Continente non riesce a sua volta a emanciparsi dai vizi del buon tempo antico: ciascuno alza il suo ponte levatoio nazionale puntando a chiudersi come una fortezza sedicente inespugnabile.
È una fuga dalla realtà, fortemente sospinta da avventurieri politici abili nel manipolare il consenso impaurito di quei ceti, più deboli e numerosi, che nel vivere quotidiano sono a più diretto e immediato contatto con l’impatto dei migranti. Ma, nel tempo, anche dentro l’Europa vi sono stati sommovimenti sociali, in quanto i benefici della spoliazione africana si sono distribuiti fra i cittadini in modo anche più asimmetrico che fra i singoli Paesi.
Alcuni, pochi, se ne sono giovati in abbondanza mentre ai ceti medi e bassi è stata lasciata una quota minima, quella necessaria o comunque utile a conservare la tenuta della coesione sociale. Non è certo un caso che i governi più oltranzisti verso i migranti adottino un linguaggio e politiche dalla sempre più evidente connotazione fascista. Dietro tutto questo, infatti, si nasconde una vecchia conoscenza della Storia: la lotta di classe.
Nel senso specifico, stavolta, di utilizzo dei cittadini più esposti come scudi umani per una strategia mirata a evitare che le classi dominanti siano costrette a rinunciare a posizioni di rendita — nella divisione interna e internazionale del lavoro — che si vorrebbero scolpite nel bronzo.
Indicare nel migrante il nemico assoluto è funzionale al mascheramento delle crescenti diseguaglianze domestiche. Il successo di questa operazione, tuttavia, resta insidiato da una contraddizione alla lunga insanabile. Per un problema che ha natura e dimensioni sovranazionali non potrà mai arrivare una soluzione intergovernativa da parte di fortezze nazionali chiuse in sé stesse. Tanto da far temere che il peggiore dei contagi che i disperati dell’Africa possano causare sia la regressione politica dell’Europa a livello tribale. I primi sintomi sono già visibili a Budapest, Vienna, Varsavia, Monaco di Baviera.
Da ultimo anche a Roma.

Repubblica 19.6.18
Destra e sinistra senza cultura
di Roberto Esposito


Ciò che fa del nuovo scenario italiano una preoccupante eccezione tra i Paesi dell’Europa occidentale è la simultanea mancanza di una vera cultura di destra e di un’autentica cultura di sinistra. È vero che il contratto da cui nasce il governo conteneva singoli pezzi in qualche modo riconducibili a orientamenti di destra e anche di sinistra.
Ma l’amalgama che ne è risultato, come i suoi primi atti, appaiono estranei sia a una tradizione liberal- conservatrice sia alla cultura politica del socialismo europeo.
I motivi di tale estraneità sono insieme antichi e recentissimi. Quanto a una destra repubblicana, si può dire che non si sia mai formata nell’Italia del dopoguerra. Impedita inizialmente dalla catastrofe fascista, è stata prima imbrigliata dalla lunga egemonia democristiana e poi geneticamente modificata dal berlusconismo.
Dopo il tentativo velocemente abortito di Fini, nessuno dei tre partiti che hanno successivamente stretto l’alleanza di centrodestra esprime un profilo riconducibile alla tradizione della destra europea. Non Forza Italia, sempre dipendente dagli umori ondivaghi del capo e divisa tra interessi e fazioni contrapposte; non Fratelli d’Italia, oscillante tra rigurgiti nazional- popolari e nostalgie postfasciste; e non la Lega, portata da Salvini a rovesciare l’originaria ispirazione separatista – dunque antinazionale – in un nazionalismo regressivo e aggressivo.
Quanto alla sinistra, l’impasse che la condanna all’immobilismo nasce al contrario dalla presenza, nei decenni passati, del più forte partito comunista europeo, ma impossibilitato a farsi forza di governo in Italia. Oltre che dalla diaspora di un partito socialista, travolto, nel momento in cui cominciava a guadagnare autonomia, dall’esplosione di Tangentopoli. Il Partito democratico, nato per superare questo doppio fallimento, ne ha portato fin dall’origine i segni. Pur nato da un’idea felice, esso a sua volta mancava l’obiettivo di unire in un insieme organico l’anima socialdemocratica e il cattolicesimo di sinistra. Il tentativo del gruppo dirigente renziano di uscire dallo stallo iscrivendo il Pd al Partito socialista europeo, senza cessare di guardare all’elettorato di centrodestra, è apparso subito contraddittorio. Proprio nel momento in cui ci si definiva socialisti, i contenuti di sinistra – dalla difesa del lavoro al rinnovamento della scuola, al sostegno al Meridione – si sbiadivano fino perdersi. La modalità suicida con cui si è tentata la riforma costituzionale è stato solo l’ultimo passo falso di una cultura politica fragile e immatura.
L’incrociarsi di questa doppia carenza tipicamente italiana – di una destra e di una sinistra veramente tali – con la generale deriva antipolitica in atto ha prodotto il “centauro” giallo-verde: un corpo populista con una testa xenofoba ed antieuropea. Qualcosa che è insieme meno e più di quanto ci si può aspettare da una destra “ normale”. Meno, perché priva dell’elemento liberale in genere presente nei partiti conservatori. E più, perché intrisa di un estremismo estraneo alle culture moderate. Non per nulla, le riforme della flat tax e dell’abolizione della legge Fornero, verificatesi rapidamente impossibili, hanno ceduto il passo al volto feroce dell’irrisione e della minaccia nei confronti dei più deboli.
Mentre le riforme “di sinistra” – come il reddito di cittadinanza – arretrano nell’agenda governativa. E l’opposizione? Sarebbe un errore contrapporre a questo amalgama populista uno assemblaggio di forze anche esse di ispirazione diversa. Quello che va finalmente aperto è un cantiere di sinistra che non abbia il timore di chiamarsi col proprio nome.

La Stampa 19.6.18
Commercio, ferrovie e appalti
Le mani di Erdogan in Africa
di Lorenzo Simoncelli


Dopo Europa, Stati Uniti, India e Cina, la Turchia di Erdogan è l’ultima grande potenza ad entrare a far parte del sempre più complesso scacchiere politico-economico del Continente africano.
Il Sultano d’Africa, come è già stato ribattezzato il presidente turco, ha visitato negli ultimi anni 32 dei 54 Stati africani, ha quadruplicato il numero di ambasciate passate da 12 nel 2009 a 44 nel 2018, insidiando Pechino e Washington presenti in Africa con 50 missioni diplomatiche.
Lo scambio commerciale è aumentato vertiginosamente negli ultimi 15 anni, toccando quota 20 miliardi di dollari tra export e import. Nei cieli africani la Turkish Airlines, vettore al 49% statale, ha battuto la concorrenza delle grandi compagnie internazionali a suon di nuove rotte: 52 città africane in 34 diversi Stati, trasformando Istanbul nel più grosso snodo di collegamento tra l’Africa e il resto del mondo.
La «gara»
Numeri importanti che iniziano ad infastidire la Cina, ancora primo partner commerciale dell’Africa con un volume di scambi pari a 180 miliardi di dollari annui. Nonostante il ritardo nei confronti di Pechino, Erdogan sta recuperando terreno soprattutto in Africa Orientale, la più vicina alla Turchia culturalmente e geograficamente.
La Yapi Merkezi, colosso edile turco, ha vinto l’appalto per la costruzione della linea ferroviaria che collegherà Awash con Hara Gebeya, 4 mila chilometri di binari che uniranno il Nord con il Centro dell’Etiopia, il Paese africano che negli ultimi 10 anni ha ricevuto il maggior numero di investimenti cinesi. Un’opera da quasi 2 miliardi di dollari soffiata proprio ai colossi cinesi dell’edilizia. La ferrovia sarà sospesa a 150 metri di altezza e passerà attraverso 12 tunnel e 51 ponti e, nel 2020, quando i lavori termineranno, l’Etiopia avrà garantito un prezioso sbocco sul Mar Rosso dato che i vagoni arriveranno fino a Gibuti. Un progetto che coinvolge 7200 lavoratori di cui 4600 sono etiopi.
Pochi chilometri più a Sud, sempre la società edile Yapi Merkezi, ha messo a segno un altro colpo vincendo l’appalto per la costruzione della ferrovia che collegherà la capitale della Tanzania Dar Es Salaam con Morogoro, località distante circa 200 chilometri. Investimento da 1,2 miliardi di dollari ottenuto anche in questo caso grazie ai finanziamenti della Turkey Eximbank, la banca statale turca che sovvenziona le opere pubbliche fuori dai confini nazionali.
L’alleato storico di Pechino
Giocando la carta della fratellanza musulmana, vantaggio non da poco nei confronti dei rivali cinesi, Erdogan è riuscito a scavalcare Pechino anche nelle relazioni con il Sudan, storico alleato della Cina in Africa. Il presidente sudanese Al-Bashir ha aperto ad Erdogan le porte del Parlamento, ma soprattutto gli ha dato in concessione l’isola di Suakin, ex luogo di passaggio dei pellegrini musulmani in viaggio verso La Mecca e località strategica per il suo affaccio sul Mar Rosso.
L’espansione turca in Africa, però, non conosce latitudini e culture, così il Sultano d’Africa ha iniziato ad affacciarsi anche in Africa Occidentale e Centrale. In Ghana, la Karadeniz Holding, società energetica turca, ha soccorso il governo locale garantendo la distribuzione di energia durante un prolungato blackout attraverso delle piattaforme ormeggiate al largo del Golfo di Guinea: un esperimento senza precedenti di grande successo. Per non parlare della Somalia, porta d’ingresso della Turchia in Africa, e trasformata negli anni nella roccaforte ottomana in territorio africano.
Erdogan, al contrario dei Paesi europei, non si è fatto intimorire della minaccia jihadista di Al-Shabaab: ha costruito un’enorme base militare, uno degli ospedali più efficienti della regione e ha collegato Istanbul a Mogadiscio con un volo diretto quotidiano.
Il legame religioso
La riduzione delle relazioni commerciali con il Nord Africa a causa della guerra civile in Libia, l’ostilità dell’Egitto con l’ascesa del generale Al-Sisi, la necessità crescente di materie prime, hanno spinto Erdogan a rafforzare i legami con l’Africa Sub-sahariana. Per limitare lo strapotere cinese e incoraggiare gli Stati africani a voltare le spalle a Pechino, la Turchia ha lanciato una nuova strategia che mira ad incrementare la forza lavoro locale e a stabilire una connessione religiosa-culturale che né i colonizzatori europei, né i cinesi sono stati in grado di attuare a causa delle grandi differenze con le popolazioni locali. Per questo motivo Erdogan sta investendo grandi capitali anche per l’apertura di nuovi uffici in Africa della Tika (Cooperazione allo Sviluppo turca), del centro culturale Yunus Emre e di scuole.

Repubblica 19.6.18
Profezie avverate
“Erdogan affetta la democrazia come un kebab”
Parla l’analista Cagaptay: aveva predetto il destino della Turchia. Che domenica vota
di Marco Ansaldo


ISTANBUL Diversi anni fa Soner Cagaptay, studioso americano di origine turca, era uno dei pochi specialisti a essere convintamente e ostinatamente critico con Recep Tayyip Erdogan quando molti confidavano nella crescita di un Islam democratico, incarnato nella Turchia del nuovo leader. Cagaptay no. Aveva seri dubbi sulle sue reali intenzioni democratiche. Oggi la sua analisi ha finito per aderire a quel che il “Sultano” è diventato. Direttore del Programma di ricerca sulla Turchia al Washington Institute per la politica del Vicino Oriente, Cagaptay ha trasferito le sue tesi in un libro, ora in Italia, Erdogan, il nuovo sultano (Edizioni del Capricorno).
Lei ha anticipato quello che sarebbe successo. Come aveva capito il fenomeno Erdogan?
«Erdogan nei suoi primi anni aveva aderito al processo della Turchia in Europa. Parliamo dei primi anni 2000, lo si giudicava dai gesti e non dalle parole».
E quando cambia, invece?
«Dal 2007».
Quando, insieme con Fethullah Gulen, l’imam ora da lui accusato di aver ispirato il golpe fallito del 2016, estromette i militari dalle istituzioni?
«Comincia a deviare allora. Molti lo ritenevano un liberale, altri capirono che era un autocrate».
Quando lo diventa chiaro per tutti?
«Nel 2013, con la rivolta di Gezi Park. Prima aveva ingannato i liberali, la sinistra, i kemalisti, giocando a fare il democratico».
Ha ingannato o c’è stata una deriva?
«Ha affettato la democrazia come un kebab. E la democrazia, fetta per fetta, è diventata più sottile. Lo ha fatto come si affila la carne appesa al gancio, poco per volta».
Nel libro lo definisce «intelligente e astuto». Più abile di tanti leader occidentali?
«Come prototipo di politico populista, sì. Ha inventato un tipo di leader che rappresenta la gente contro il potere. Suggerendo che la Turchia fosse divisa, con l’idea dell’uomo comune, del turco anatolico, contro il turco “bianco”.
La nostra rivoluzione democratica si è risolta in un modo populista. Ha avuto successo. È stato il primo esempio di populismo dentro la democrazia».
C’è chi lo adora e chi lo
aborrisce. Perché è così divisivo?
«È amato per la crescita economica che ha portato. Perché ha tolto la gente dalla povertà. Poi c’è il lato oscuro: ha demonizzato e brutalizzato quelli che non votavano per lui: laici, sinistra, socialisti, aleviti, curdi. Se perdi questi, perdi la metà del Paese».
Il Sultano che Turchia propone?
«Una Turchia non così liberale e democratica, ma conservatrice e confessionale».
A 64 anni però è ancora un leader nel pieno delle forze, nonostante sia da più di 15 anni al potere. Quanto durerà?
«Fin quando non perderà la popolarità. Dipende anche dalla sua salute. E dalla situazione economica del Paese, in questo periodo non esattamente florida».
La sua gente lo vota perché gli ospedali ora funzionano e le case si possono finalmente comprare con il mutuo e non in contanti. I turchi ieri vivevano come siriani, oggi lo fanno come spagnoli. Non tutto è stato male, allora. È un Paese più ricco, al centro dell’attenzione mondiale.
Questo è dovuto a Erdogan, no?
«La sua eredità più brillante è sicuramente dovuta allo sviluppo economico. Il miglioramento sociale è evidente, così il welfare».
E togliere il potere ai militari, la cosiddetta anomalia turca per tanti decenni, è stato alla fine un bene o un male?
«Molti dimenticano che nel farlo il suo alleato è stato Fethullah Gulen.
Al termine di questa alleanza volevano entrambi il potere. E nel golpe del 2016 Gulen ha giocato un ruolo significativo».
Gulen era implicato nel colpo di Stato?
«Sì, i gulenisti hanno avuto un ruolo. E la battaglia fra Erdogan e Gulen non è ancora finita. Il loro network all’estero è forte».
Washington accoglierà mai la richiesta di Ankara di estradarlo?
«È molto difficile: per gli Usa mancano prove di colpevolezza».
Il rapporto Turchia-Usa sembra andare piuttosto male, persino peggio che con Obama.
Eppure Erdogan confidava molto nell’arrivo di Trump.
«Per ogni presidente americano Erdogan è un test di Rorschach (l’indagine psicologica usata per capire la personalità, ndr). Così fu per Bush, poi è toccato a Obama, ora a Trump».

Repubblica 19.6.18
Nasce la Sesta Forza, ordine del presidente
Ora Trump vuole “ militarizzare lo spazio”
di Federico Rampini


New York, Stati Uniti «Militarizziamo lo spazio», ordine di Donald Trump. Il presidente ha firmato un decreto esecutivo che impone al Pentagono di creare una Space Force militare, di fatto esautorando l’agenzia civile che è la Nasa. Sostiene che Cina e Russia stanno già facendo lo stesso. Negli anni Settanta, all’apice della corsa allo spazio, fu deciso invece di comune accordo di non militarizzarlo. È vero però che di recente alcuni test cinesi (esercitazioni per la distruzione di satelliti) hanno preoccupato il Pentagono.
È così che nasce la Sesta Forza, un ramo autonomo che si affianca all’esercito di terra, all’aviazione, alla US Navy, ai Marines e alla guardia costiera. « Quando si tratta dello spazio – ha detto Trump nel dare l’annuncio – troppo spesso e troppo a lungo i sogni di esplorazione e di scoperte sono stati rovinati dalla politica e dalla burocrazia » , un accenno non troppo velato alla Nasa che da tempo è caduta in disgrazia. Trump ora vuole che «l’America si riprenda il suo ruolo storico come nazione leader nello spazio». E non si accontenta di un revival di progetti spaziali, «quello che dobbiamo avere è il dominio dello spazio». Il decreto firmato precisa che tra i compiti della Space Force ci sarà quello di «proteggere gli interessi americani nello spazio, ivi compresa la sicurezza del traffico civile e commerciale». Una missione che riecheggia quella della US Navy: storicamente le flotte militari degli Stati Uniti hanno avuto anche un ruolo come guardiane delle rotte di navigazione mercantile.
La Space Force segna un ritorno alle origini, quando la corsa allo spazio fra Stati Uniti e Urss ebbe evidenti finalità e ricadute militari, per esempio nel saggiare l’affidabilità dei sistemi missilistici di lungo raggio.

Corriere 19.6.18
Classici Bompiani pubblica uno dei capolavori dell’autore americano nella nuova traduzione di Alessandro Roffeni
Il Bartleby di Melville, mistico a sua insaputa
di Antonio Debenedetti


Scrivendo di Perec, con la civetteria di chi frattanto strizza l’occhio e parla d’altro, Italo Calvino ha consegnato genialmente alla posterità Bartleby, forse il più inquietante personaggio di Melville: lo ha definito un uomo «che vorrebbe identificarsi col nulla». Il lettore, che vorrà fare la conoscenza di questo eterno antagonista, potrà farlo adesso leggendo il racconto a lui intitolato Bartleby lo scrivano nella nuova traduzione di Alessandro Roffeni (Bompiani).
Smunto, pallido e passivo, quest’essere all’apparenza svogliato di sé e di tutto si rivelerà ben presto irremovibile. Assunto in qualità di scrivano da un avvocato, un buon diavolo che lavora all’ombra d’un benedicente busto di Cicerone, alle garbate richieste del suo datore di lavoro risponderà sempre e solo «preferirei di no». E il verbo preferire, sfumato di cortesia e di mitezza, verrà sempre più sottolineando la sua irriducibilità. Bartleby non vuole fare e non fa.
Ogni dettaglio di questo racconto sottolinea l’eccezionalità d’una narrazione che sembra raccontare la vita già riflessa nello specchio senza tempo della morte. È un racconto dove anche il silenzio e la passività gridano senza dire nulla e fanno paura. A sostegno d’una tale impressione si può forse citare quanto scrisse D.H.Lavrence in una pagina infiammata: «Melville era mistico e simbolico, però non se ne rendeva conto».

Repubblica 19.6.18
Leggi inapplicate
La rivoluzione biotestamento azzoppata dalla burocrazia
Impiegati ignari, medici diffidenti, regole incerte: dopo 6 mesi la riforma non decolla E a Roma “ il servizio è sospeso”. Ma un assist potrebbe arrivare dai testimoni di Geova
di Alessandro Cassinis


Al telefono l’impiegata dell’VIII municipio di Roma ha un tono imbarazzato. «Vuole presentare il testamento biologico?
Spiacente, non possiamo registrarlo, il servizio è sospeso». Solo lì? «No, in tutta Roma». E fino a quando? «Non lo sappiamo».
Sei mesi dopo la storica approvazione in Parlamento, trappole, disservizi e sentimenti ostili frenano la legge che ci consente di esprimere le nostre volontà sulle cure e ci dà la libertà di rifiutare anche i trattamenti salvavita. Dopo il clamore di un dibattito parlamentare che su questo tema ha coinvolto tre legislature, una penombra inquietante è calata sulla legge 219 del 22 dicembre 2017, “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”, entrata in vigore il 31 gennaio.
Non è un caso che siano pochi i testamenti biologici presentati finora: 958 a Milano, 125 a Torino, 22 a Napoli, 9 a Palermo, 0 all’Aquila. A Roma non si sa.
Manca un dato nazionale, ma è probabile che sia sotto quota 30mila, mentre i soggetti potenzialmente interessati sono tutti i cittadini. Ogni anno 600mila italiani entrano nella terra incognita del fine vita.
Questo non significa affatto che il lavoro parlamentare sia stato inutile, come Matteo Salvini sentenziò con una freddura poi rettificata: «Mi occupo dei vivi, non dei morti» (la Lega votò contro come Forza Italia, i Cinque Stelle a favore con Pd e sinistra). La legge è una conquista civile fondamentale, ma va accompagnata da una continua opera di promozione e informazione. Non si è visto nemmeno uno spot. Il cittadino si ritrova da solo in una corsa a ostacoli che pochi hanno il coraggio di affrontare.
Primo passo: scrivere le disposizioni anticipate di trattamento (Dat). Già, ma come? Quali terapie accettare o rifiutare? In teoria una mano potrebbe venire dai medici di famiglia, che però sono stati tagliati fuori dal testo approvato. «Un errore della legge, che punta tutto sull’autodeterminazione del cittadino. Possiamo fare solo un affiancamento volontaristico», dice Silvestro Scotti, segretario nazionale della Fimmg, la loro federazione. E i Comuni? Fanno solo da “archivio”, al massimo suggeriscono sottobanco di prendere spunto dai fac-simile disponibili su internet: la Fondazione Umberto Veronesi propone un modulo-guida, l’Associazione Luca Coscioni ne ha preparato uno più articolato che è stato scaricato 17mila volte quest’anno e 35mila dal 2009. «Ma è solo una traccia, ciascuno è libero di scrivere quello che vuole», avverte Filomena Gallo, portavoce dell’Associazione. Anche lei ha sperimentato di persona il blocco delle registrazioni al Comune di Roma. «Sono andata con le mie Dat al I municipio, mi hanno rinviata di 15 giorni perché non è stato istituito il numero di protocollo unico».
C’è dolo in tutto questo? «No, solo impreparazione e lentezza burocratica, a volte un eccesso di potere degli uffici».
L’Associazione, ad ogni buon conto, ha preparato un modulo di querela contro i Comuni inadempienti che è stato scaricato 113 volte da marzo.
Ogni ufficio di stato civile si regola come vuole. Busta chiusa, busta aperta. Dat già firmate o da firmare allo sportello. Una copia o più copie. Il ministero dell’Interno, ancora sotto Minniti, ha chiarito in una circolare che le Dat vanno presentate di persona nel Comune in cui si risiede. Ma nulla ha detto, per esempio, sul fiduciario, la persona che dovrebbe rappresentarmi se non fossi più in grado di far rispettare le mie volontà. Non è facile scegliere quello giusto: un parente troppo prossimo potrebbe sentirsi soverchiato dai sensi di colpa. Ma la legge ci dà una mano: “Nel caso in cui le Dat non contengano l’indicazione del fiduciario… mantengono efficacia...”
(articolo 4, comma 4). Per i Comuni, invece, il fiduciario è un’ossessione.
Comune di Genova, corso Torino 11, stanza 221.
L’impiegata mi guarda perplessa. «Dov’è il suo fiduciario?». Per fortuna ho con me il testo della legge: dice che il fiduciario può accettare la nomina “con atto successivo”.
«Noi non prendiamo le sue Dat se non c’è il fiduciario». Ma la legge… «Qui è così». E se non volessi indicare un fiduciario?
«Impossibile». Ma la legge dice… La pazienza è finita.
L’impiegata mi allunga un foglietto dove leggo che bisogna presentarsi “INSIEME AL FIDUCIARIO”. «Queste sono le disposizioni, non posso perdere altro tempo con lei».
Quattordici chilometri più a Est, nel piccolo Comune di Sori, 4.200 abitanti, un impiegato che conosce la legge a memoria prende in consegna la busta e stampa una ricevuta. Il fiduciario? «Non è necessaria la sua presenza». La consegna viene trascritta a mano su un registro protocollo al numero 2. Tutto a norma.
Genova non è l’unica a strapazzare la legge. A Bologna il fiduciario non deve essere presente, ma bisogna indicarlo all’atto della registrazione, altrimenti «il programma non ci fa andare avanti», spiegano gentilmente all’Ufficio relazioni con il pubblico in piazza Maggiore, dove le Dat vanno consegnate in busta aperta e firmate davanti al funzionario.
A Milano, invece, la Casa dei diritti avverte che le Dat vanno presentate (in via Larga 12, stanza 140) già controfirmate dal fiduciario.
«Siamo in attesa di risposte dal governo», ammette Graziano Pelizzaro, esperto dell’Anusca, l’associazione degli ufficiali di stato civile. Dunque dal nuovo ministro dell’Interno: Salvini.
Ma il problema più grave è un altro: «Manca una banca dati nazionale». Nemmeno le Regioni che hanno già varato il fascicolo sanitario elettronico sono attrezzate per archiviare le Dat in modo digitale. Il Consiglio nazionale del notariato ha la tecnologia necessaria per il registro nazionale dei testamenti biologici, ma per renderlo operativo aspetta indicazioni del ministero della Salute, che non commenta. E comunque non sappiamo quanti cittadini siano andati dal notaio per fare le Dat.
La legge inciampa anche là dove dovrebbe essere applicata: gli ospedali. «La maggiore resistenza viene dai medici, e non sempre per motivi nobili», dice Michele Gallucci, che dirige l’hospice dell’ospedale San Martino di Genova. Quello delle terapie salvavita è un settore importante della spesa sanitaria, e in teoria la legge lo mette in crisi. Parla di «paternalismo ippocratico» Mario Riccio, l’anestesista che nel 2006 staccò il respiratore a Piergiorgio Welby ed è membro della Consulta di Bioetica, che sostenne la battaglia di Beppino Englaro. «Il medico, che anche prima della legge sospendeva le cure e praticava la sedazione profonda continua, non vuole cedere o condividere con il paziente il potere decisionale.
La persona malata è nelle sue mani, non comanda più».
Fra tanti nemici e tanto caos, la legge 219 potrebbe ricevere un assist insperato dai Testimoni di Geova, che in questi giorni hanno prenotato appuntamenti negli uffici di stato civile di tutta Italia. Rifiuteranno le trasfusioni di sangue come impone la loro fede. Christian Di Blasio, il portavoce nazionale, conferma che sarà una carica: «Pensiamo che si presenteranno tutti i 251mila battezzati, più una parte dei simpatizzanti, che sono oltre mezzo milione». Solo a La Spezia le Dat registrate potrebbero passare da 40 a 500. Il totale nazionale sarebbe decuplicato.

Repubblica 19.6.18
Firenze
Le ultime due suore in lotta per salvare il maxi convento
di Laura Montanari


FIRENZE Nella villa del Cerro, sopra le colline di Scandicci, sono rimaste soltanto due suore in 1.700 metri quadrati, fra stanze antiche e affreschi. Un paradiso a tempo: sono sotto sfratto, ma loro non se ne vogliono andare. Appartengono all’ordine delle Carmelitane: vivono di carità, accoglienza e preghiere. Una “clausura aperta” in quel silenzioso convento, panoramico sui tetti di Firenze. La faccenda finirà in tribunale a settembre, perché l’Opera della Madonnina del Grappa, ente di carità proprietario della villa, vuole vendere l’immobile, dato in comodato gratuito a otto Carmelitane per esaudire una richiesta dell’allora vescovo. Era abbandonato e fatiscente: «Abbiamo speso oltre un miliardo di vecchie lire per sistemarlo — spiega don Vincenzo della Madonnina del Grappa — Abbiamo aperto un mutuo e chiesto prestiti a una banca per altri progetti: così è stata messa un’ipoteca sulla villa e per non rischiare di vederla finire all’asta fra tre anni, dobbiamo venderla». È un affare di 8 o 10 milioni di euro, mica noccioline. Le suore si sono messe di traverso e la gente delle case intorno si è schierata dalla loro parte, hanno pure organizzato una fiaccolata: «Giù le mani dal convento». Ad assistere le religiose c’è un’avvocata: «Si sono accollate il ripristino dell’immobile — spiega Ilaria Chiodi — hanno costruito molte cose con le loro mani e con l’aiuto di volontari. Le mie assistite non sapevano nemmeno dell’esistenza di un’ipoteca. Soltanto l’anno scorso hanno ricevuto la chiamata della Curia e hanno scoperto che dovevano lasciare la loro casa». Vivere in due in tutto quello spazio non è eccessivo? «Loro fanno accoglienza, aiutano i poveri, a volte offrono ricovero. E poi quell’immobile si è rivalutato proprio grazie al loro lavoro quotidiano, la madre superiora ha pagato anche di tasca propria» prosegue l’avvocata precisando che le suore potrebbero pure accettare un’altra soluzione, ma almeno nella stessa zona. «Per lasciare lì le religiose ogni anno la Madonnina del Grappa spende centinaia di migliaia di euro di interessi passivi. È immorale, con quei soldi potremmo finanziare tante attività di aiuto alle persone indigenti», interviene Giovanni Biondi, responsabile del settore scolastico dell’ente. «Noi rispettiamo la missione contemplativa delle suore — predica don Vincenzo — però dobbiamo provvedere alle nostre missioni attive nei confronti dei poveri, dei disagiati, di chi vive ai margini di questa società. E hanno un costo». Lo sfratto e così sia.

Repubblica 19.6.18
Cinquanta sfumature di 1700 anni fa
“Canta una danza in cui il microcosmo si unisce al macrocosmo, trasuda sessualità da ogni metafora
di Giuseppe Montesano


Quando la mente e i sensi non erano entità separate, in India si scriveva “ La storia di Siva e Parvati”, poema ad alto tasso erotico di iniziazione ascetica e passione fisica. Tradotto adesso, ha ancora qualcosa da insegnare
Un antidio appare nel perfetto mondo degli dèi dell’India, sconquassando l’ordine cosmico: che fare? C’è solo una possibilità di salvezza: il grande ?iva, distruttore e creatore, libertino e ascetico, orribile e splendente, il grande ?iva che tiene connesso il mondo danzando e calpestando tutto nella morte e danzando e facendo rinascere tutto dalla morte, quello ?iva che come vero nome ha “il nato da sé stesso”, deve innamorarsi di una donna e concepire con lei il figlio che riporterà l’ordine nell’universo.
Così comincia La storia di Siva e Parvati, un poema scritto in sanscrito 1700 anni fa dal poeta Kalidasa e tradotto da Giuliano Boccali per Marsilio, un poema che ci trasporta in un mondo in cui Eros, Religione e Pensiero erano inseparabili. Per far cedere Siva il Tremendo, gli dèi affidano ad Amore il compito di colpire con la sua freccia il dio mentre è vicino a Parvati, la figlia del regale monte Himalaya appena passata dall’infanzia alla giovinezza: “L’un l’altro premendosi, i seni luminosi/della fanciulla dagli occhi di ninfea blu a tal punto crebbero/che tra loro, bruni i capezzoli,/neppure lo spazio per il filamento di una fibra di loto si sarebbe trovato”, Parvati che quando cammina risplende: “Con i lampi levati dalle unghie degli alluci, quasi emanassero appoggiandoli un bagliore vermiglio,/i suoi piedi acquisirono sul suolo/la bellezza di ibischi non fermi in un solo luogo”: e chi non si dannerebbe l’anima per quegli alluci smaltati? Per spingere alla passione il dio, Amore suscita la Primavera in un tripudio di coppie di api che bevono nello stesso fiore, di elefanti che si porgono bocconcini di cibo a vicenda, di liane innamorate e accoppiate ai loro alberi: ma tutto è vano perché Siva, sprofondato nella meditazione ascetica che nega il desiderio, con uno sguardo riduce in cenere Amore. È allora che Parvati decide di imitare Siva diventando anche lei una yogin che medita: se amore è stato arso, lo yoga lo farà rivivere. Così la coccolata figlia di re intraprende la via dell’ascesi e mette a rischio bellezza e comodità: “Lei, che era afflitta persino dai fiori nella sua chioma/scompigliati mentre si rigirava nel letto preziosissimo,/giaceva appoggiandosi per cuscino alle braccia flessuose,/coricata sulla nuda terra…”. La bellezza diventa fragile nelle privazioni ma non si spegne, fino a quando Siva non è turbato dall’unione tra concentrazione yogica e fascino seduttivo e si innamora di Parvati, celebrando le nozze nella città di Himalaya dove in mezzo alle nevi regna l’eterna giovinezza: “Dove nella notte le donne che, incuranti delle tenebre,/vanno a incontrare gli amanti,/pur con il tempo di burrasca hanno la via mostrata/dalla luminosità delle erbe magiche;/lì l’intera vita è tutta giovinezza,/unica pena Amore, l’armato di fiori,/perdita di coscienza il sonno/sorto dallo sfinimento del piacere;/dove gli innamorati, per via dello sdegno delle donne,/le sopracciglia aggrottate, le labbra che tremano,/le minacce deliziose delle dita,/non desiderano più la riappacificazione…”. Ormai il poema a cui sembrano aver “posto mano e cielo e terra” è diventato la celebrazione dell’eros che permea l’esistenza, un eros che culmina nell’iniziazione all’amore di Parvati, che con i suoi gesti canta il “vorrei e non vorrei” di Zerlina nel Don Giovanni di Mozart: “La mano di ?iva il Propizio posata vicino al suo ombelico/era da lei respinta con un tremito;/e poi da sé sole le sue cosce scioglievano/completamente il laccio della sottoveste”; più sottile di Zerlina, Parvati non brucia l’ascesa verso il sesso con la fretta di una sveltina ma accresce l’ardore nella lentezza sensuale, vuole che la sua bocca venga succhiata “ma senza morsi al labbro inferiore,/e il segno delle unghie che fosse senza ferita,/che il gioco d’amore col suo caro fosse tenero”: il sesso selvaggio non è il sesso brutale, è una scienza che va appresa; finché, nella tenebra rotta dalla luce lunare, non arriva l’insurrezione erotica nella coppia ormai di uguali in cui l’amore senza limiti scorre come il sangue nelle vene e i fiumi nel mare: “Come la sposa era innamorata del marito a lei eguale/così il marito lo era di lei…/Da lei, divenuta in segreto discepola/di Siva il Benefico che la istruiva nell’arte del sesso,/era insegnato a lui quello in cui è abile una giovane donna,/che certo rappresentava il compenso dell’allievo al guru...”. La passione erotica, sviluppandosi dalla sua negazione attraverso l’ascesi, si è comunicata dalla fanciulla in fiore a Siva il Distruttore e all’universo: le nozze tra dèi e mortali sono nozze sacre, le nozze tra mortali lo specchio del divino totalmente immerso nel corpo erotico della natura. E il poema di Kalidasa canta una danza in cui il microcosmo si unisce al macrocosmo, trasuda sessualità da ogni metafora, trasforma l’astratto in concreto: anche la forma della poesia si erotizza, il gioco perpetuo del desiderio guida il linguaggio, ogni gradino della discesa-ascesa erotica porta dove si trova Amore: come scrisse Nietzsche, sempre al di là del bene e del male. E invece dove ci troviamo noi, oggi, rispetto a questo universo trascolorante e metamorfico in cui la mente e i sensi non sono separati e i concetti più profondi sono disciolti come lacrime di umori erotici nel mare del corpo? Nulla che ci riguardi ha più un contatto con il potere di Eros che disordina e riordina la vita, nulla di ciò che chiamiamo amore è pallidamente simile al vorticare lento in cui ci immerge Kalidasa.
Proprio per questo il caleidoscopio del più grande poeta dell’India andrà letto con ardore pensante, ringraziando Giuliano Boccali per il regalo che ci fa con la traduzione della Storia di Siva e Parvati e ripetendoci qual è il luogo in cui ci suggerisce di andare lei che sa, l’allieva umana da cui anche il maestro divino deve imparare: “là sta fermo il mio cuore, che ha per essenza unica l’emozione:/chi ha l’amore come norma di vita non guarda alle censure…”. La musica comincia quando il silenzio è più minaccioso, la vita accade quando è sull’orlo di scomparire: Amore non è un dio facile.