il manifesto 13.6.18
Dopo Singapore, nel mirino di Trump c’è l’Iran
Washington/Tehran.
Chiuso per ora il dossier nordcoreano, adesso l'Amministrazione Usa può
dirigere tutta la sua aggressività in politica estera contro l'Iran,
con il pieno sostegno di Israele e Arabia saudita.
Il presidente ira
di Michele Giorgio
Non
fidarti, Trump ti tradirà come ha tradito noi. L’Iran, ferito dal
ritiro degli Stati uniti dall’accordo internazionale sul suo programma
nucleare (Jcpoa) e di nuovo bersaglio di pesanti sanzioni americane, ha
provato per due giorni a mettere in guardia Kim Jong Un. Lunedì era
stato Bahram Qassemi, portavoce del ministero degli esteri di Tehran,
ad invitare la Corea del nord a «stare molto attenta». Ieri è stata
la volta del portavoce del governo di Teheran, Mohammad Baqer Nobakht.
«Siamo davanti a una persona (Trump) che, anche su un aereo, fa marcia
indietro rispetto alla sua stessa firma. Non so con chi stia negoziando
il leader nordcoreano. Ma questa persona non è un buon rappresentante
per gli Stati Uniti», ha avvertito Nobakht riferendosi al passo
indietro americano dall’accordo firmato nel 2015 dai cinque membri con
diritto di veto del Consiglio di Sicurezza dell’Onu (più la Germania),
con il pieno appoggio del precedente presidente americano Barack
Obama. A Tehran la preoccupazione è che, chiuso per il momento il
dossier nordcoreano, l’Amministrazione Trump concentri ora tutta la sua
aggressività in politica estera sul “nemico” iraniano, sotto la spinta
anche delle pressioni del governo israeliano. Con il rischio concreto
che lo scontro diplomatico ed economico si trasformi presto o tardi in
un conflitto militare.
I timori degli iraniani sono ben fondati,
d’altronde le parole di Trump non lasciano dubbi. «Spero che al
momento giusto, dopo le sanzioni che sono davvero brutali, l’Iran torni
a sedere al tavolo dei negoziati; ora è troppo presto», ha detto il
presidente Usa dopo il summit di Singapore. I negoziati che ha in mente
l’inquilino della Casa Bianca hanno un unico obiettivo: riscrivere il
contenuto del Jcpoa del 2015, per inserirvi forti restrizioni non solo
alle attività nucleari ma anche allo sviluppo di missili balistici da
parte degli iraniani in modo da ridurre le capacità difensive ed
offensive di Tehran, a vantaggio di Israele che, forte anche del
possesso (segreto) di armi nucleari, rafforzerebbe ulteriormente la
sua supremazia strategica nella regione mediorientale. «C’è
un’amministrazione diversa, c’è un presidente diverso, un Segretario di
stato diverso…Per loro non era una priorità, per noi lo è», ha detto
Trump marcando la differenza in politica estera con l’Amministrazione
Obama.
La difesa europea del Jcpoa è un muro di argilla. Tehran
lo sa e non si accontenta delle rassicurazioni dell’Alto
rappresentante della politica estera dell’Ue, Federica Mogherini, che
pure si è esposta a sostegno delle intese con l’Iran. Dietro le quinte
alcuni leader europei, a cominciare dal francese Macron, discutono di
una revisione dell’accordo in modo da accontentare almeno in parte
Washington e Tel Aviv, nonostante l’Iran abbia più volte ribadito che
le intese del 2015 non si toccano.
Riferendosi all’Iran, ieri
il ministro della difesa israeliano Lieberman ha detto di augurarsi che
l’accordo tra Trump e il leader nordcoreano «possa essere un buon
esempio per altre nazioni e popoli». Per Israele quell’intesa avrà
riflessi immediati sulla linea dell’Amministrazione nei confronti
dell’Iran, tenendo conto anche del ruolo che giocheranno sostenitori
del pugno di ferro come il Segretario di stato Mike Pompeo e il
Consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton. Si indebolisce di
pari passo la posizione del presidente iraniano Rohani, il maggior
sostenitore in patria del Jcpoa. I conservatori sostengono più che mai
che ”negoziare” con l’Occidente sia stato un errore che l’Iran debba
riprendere con il massimo della forza il programma nucleare e lo
sviluppo dei missili. Keyhan, principale quotidiano oppositore della
linea di Rohani, ieri un editoriale esortava a fare come la Corea del
nord che non è scesa a patti ma ha sviluppato la bomba nucleare e i
missili a lungo raggio ottenendo un riconoscimento di fatto da Donald
Trump, a differenza dell’Iran che pur avendo firmato un accordo deve
fare i conti con minacce degli Usa, di Arabia Saudita e Israele. A
conti fatti, dice Keyhan, usare ”le buone” con l’Occidente è
controproducente mentre con “le cattive” si raggiungono risultati
concreti.