mercoledì 13 giugno 2018

il manifesto 13.6.18
Balibar: «Ora il Mediterraneo prende la dimensione di genocidio»
Intervista a Etienne Balibar. «Sui migranti tutti i Paesi Ue adottano politiche ipocrite, ripugnanti e si fanno paravento con il gruppo di Visegrad». Per il filosofo, «La tecnocrazia europea, preferisce i populismi alle spinte democratiche di sinistra, li vede come un minor male di fronte alla crescita del risentimento popolare»
A bordo dell’Aquarius, sotto Etienne Balibar
di Anna Maria Merlo


PARIGI L’odissea dell’Aquarius rifiutato dai porti europei, con lo spagnolo Pedro Sanchez che salva l’onore della socialdemocrazia. Il disordine creato dal nuovo governo italiano e dai tanti nazionalismi in crescita. La sinistra lacerata nello scontro tra l’opposizione aperto-chiuso, con il rischio di una deriva tra liberismo e xenofobia, come ha messo in luce ultimamente lo scontro all’interno di Die Linke, mentre lo spazio europeista socialdemocratico si trova schiacciato e può diventare irrilevante. Discutiamo della nuova crisi europea con il filosofo Etienne Balibar, assieme a Vadim Kamenka dell’Humanité Dimanche.
Il governo italiano mette in difficoltà la Ue, la ricatta. Cosa sta facendo Bruxelles, se sta facendo qualche cosa, per reagire?
Una cosa mi ha colpito: la dichiarazione del presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker, di qualche giorno fa, che ha detto «non faremo con l’Italia l’errore fatto con la Grecia». Intanto, c’è il riconoscimento che con la Grecia è stato fatto un errore. Ma quale secondo la Commissione? Un errore di fondo, di contenuto, imporre come mezzo per risolvere il problema del debito una politica di austerità, di distruzione dell’economia nazionale, oppure solo un errore di forma, nell’interpretazione del commissario agli Affari economici Pierre Moscovici? L’idea sembra di non entrare con l’Italia in un conflitto duro come è stato fatto con la Grecia. La Ue non ne ha i mezzi. Ma va sottolineato che in Grecia c’era (e c’è) un governo di sinistra, mentre in Italia c’è un governo populista orientato all’estrema destra. Senza cadere nel cospirazionismo, possiamo però rilevare che la tecnocrazia europea, benché non strumentalizzi i populismi, li preferisce alle spinte democratiche di sinistra, li vede come un minor male di fronte alla crescita del risentimento popolare, anche se è la politica del peggio, una scelta negativa che aggrava l’ingovernabilità che si diffonde paese dopo paese. Poco per volta, cresce il malessere di fronte alla governance degli stati e dell’Europa e si cristallizza l’idea, con la Grecia, il Brexit o lo pseudo Brexit, ora l’Italia, che di fronte al fatto che non ci sono vantaggi per nessuno ad uscire dall’Unione europea, si va verso una marcescenza della situazione, una neutralizzazione reciproca. Mi spiace, ma sono di un pessimismo radicale.
Al Consiglio europeo di fine giugno ci sarà sul tavolo un piano franco-tedesco per la zona euro.
Ma di quale piano si parla? È una costruzione culturale, che in sé non è disprezzabile, ma cosa si vuole promuovere? Al centro del problema c’è la struttura finanziaria e il bilancio, cioè l’estensione della solidarietà. Ma i paesi del nord vedono profilarsi lo spettro dei trasferimenti finanziari verso il sud e l’ipotesi di un bilancio comune, che gli economisti post-keynesiani da anni considerano indispensabile con una moneta comune. Macron non fa cifre, Angela Merkel punta al più piccolo denominatore: si ritorna alla questione della differenza dei livelli di sviluppo, della divisione dell’Europa tra zone assegnate a differenti funzioni economiche, tra centri di attrazione per i capitali e zone di subappalto, zone di vacanza per la piccola borghesia ecc. Bisognerebbe far esplodere l’ipocrisia della propaganda che afferma che c’è chi paga e chi riceve, un discorso che ha successo nel nord, a cominciare dalla Germania, ma non solo.
Le ineguaglianze, tra stati e tra cittadini, devono essere poste al centro per uscire dalla crisi?
L’ineguaglianza dello sviluppo, la questione dell’ingovernabilità che ne deriva dappertutto, è incredibile che di questa crisi non venga discusso al Parlamento europeo. Ma come ho detto sono molto pessimista: un dibattito del genere rischierebbe di diventare cacofonia, con le forze populiste in crescita che utilizzano argomenti fascistizzanti. La crisi dell’Europa è anche quella della sua essenza democratica, più si impantana più viene evitato il dibattito intraeuropeo. Bisognerebbe che tutte le forze che cercano di ricostruire una prospettiva di sinistra a livello europeo imponessero questo dibattito. Ma non c’è più una sinistra coerente: se la sinistra deve ricostruirsi, però, deve concepirsi subito come sinistra europea, per aprire un dibattito politico attraverso le frontiere. C’è un effetto perverso della crescita in potenza della tecnocrazia di Bruxelles unita al monopolio della politica da parte degli stati nazionali: i cittadini si stanno ripiegando su se stessi, ogni paese discute di problemi propri, al punto che la cosa maggiormente condivisa è una concezione del nazionalismo, visto come degli interessi nazionali da difendere.
La drammatica vicenda dell’Aquarius ne è l’ultima illustrazione?
Francia, Gran Bretagna, Italia e tutti gli altri adottano politiche ipocrite, ripugnanti, facendosi paravento con il gruppo di Visegrad. La Francia blocca gli esiliati alle frontiere con l’Italia, ci sono violenze continue da Calais a Ventimiglia, in Gran Bretagna sono venuti alla luce gli obiettivi di respingimento, la creazione di un «ambiente ostile» per i migranti. Come si bilanciano i due aspetti del problema? Da un lato, c’è un aspetto razionale: se calcoliamo il numero di esiliati, anche nell’ipotesi più forte, il problema non è insolubile, ci sono le capacità di accoglienza in Europa, non si tratta di un’invasione, ma di un numero di arrivi pari all’incirca allo 0,2% della popolazione dell’Unione. Accoglienza significa inserzione, e qui torniamo alla questione territoriale e delle differenze di sviluppo. In secondo luogo, c’è l’aspetto morale: ormai, il problema del Mediterraneo prende dimensioni di genocidio. Come nominare altrimenti quello che succede, un processo di cui ci rendiamo complici di messa in atto di un sistema di eliminazione fisica violenta su basi razziali. Un genocidio che ha luogo alle frontiere. Abbiamo delle tradizioni a cui fare appello per lottare contro questo crollo morale, dal Cristianesimo all’internazionalismo. Dei giuristi propongono di inserire l’accoglienza dei migranti nel diritto internazionale. Vanno poi combattute le logiche economiche neocoloniali che adottiamo, lo sfruttamento, le guerre a cui partecipiamo, che spingono all’esilio.
Da dove ripartire?
Tre questioni devono essere poste al centro: 1) il ruolo della Ue nella mondializzazione, sfruttando al meglio il peso europeo per regolare le delocalizzazioni contro i dumping sociali e fiscali; 2) le politiche neo-liberiste devono cedere il posto a un’Europa sociale; 3) la democrazia delle istituzioni europee. La questione della democrazia rappresentativa non è marginale o liquidata per sempre. Ma ogni paese oggi è caratterizzato da patologie della rappresentanza politica, la cosiddetta post-democrazia, lo scarto tra poteri reali e poteri apparenti. Non bisogna dimenticare i movimenti sociali: anche se oggi, purtroppo, al meglio sono difensivi.