Il Fatto 13.6.18
Terni, la parabola d’acciaio del fu Pd
di Daniela Ranieri
Proprio
non si riesce a capire cosa sia preso ai cittadini di Terni, che hanno
regalato il 49% al candidato della Lega, il 25 a quello del M5S e fatto
perdere al Pd la città che amministrava da 9 anni (anzi: dal 2009 se
contiamo il sindaco Raffaelli, dell’Ulivo), precipitandolo dal 30% di 4
anni fa al 12% di oggi. Ma come: Terni non era rossa? Non era la seconda
Stalingrado d’Italia (dopo Sesto San Giovanni, espugnata dal
centrodestra il 4 marzo), la città delle acciaierie, degli operai, dei
metalmeccanici, della coscienza di classe trasmessa di padre in figlio?
Il
fatto che l’Umbria non abbia coste, poi, porta a escludere che
l’exploit della Lega, da sola scelta dal 29% dei votanti, possa
dipendere dalla “invasione dei migranti” con cui Salvini prende voti
pure al Sud. Deve esserci un’altra spiegazione per questo tracollo, che
tuttavia il Pd, con la lungimiranza e l’acutezza propria dei suoi
dirigenti e nella persona evanescente del reggente Martina, vede,
insieme agli altri risultati disastrosi del suo partito, come un
“segnale incoraggiante” (mah, contenti loro). Ne avanziamo qualcuna.
A
febbraio, Salvini parlò ai cittadini da un hotel al centro di Terni:
“Quello che non ha fatto il Pd e quello che faremo noi al governo è
difendere il lavoro, le imprese e gli operai italiani, vietando che chi
ha preso finanziamenti pubblici licenzi a Terni e assuma in Polonia,
Romania e Pakistan”. Si riferiva alle multinazionali che possiedono le
principali fabbriche siderurgiche della città, come la tedesca
ThyssenKrupp S.p.A., che nel 2004 acquisì la Ast, Acciai Speciali Terni,
praticando da allora una sanguinosa politica di tagli,
riorganizzazioni, piani di rilancio (tutte formule dietro cui si
nascondono licenziamenti in massa).
Il 4 marzo, la Lega è passata
dallo 0,32% del 2013 al 18,7%. Il Pd cadde dal 33% al 22%. Il suo
sindaco Leopoldo Di Girolamo si era appena dimesso dopo il dissesto
finanziario dichiarato dal Consiglio comunale. Renzi si era limitato a
registrare la “crisi” del Pd ternano e a rivendicare la candidatura
dell’ex ministro Cesare Damiano, legato “al territorio” per il solo
fatto di avervi tenuto una summer school nel 2015. È possibile, la
buttiamo lì, che dopo 4 anni di governo prima di Renzi, poi di
Gentiloni, con la successione di due ministri allo Sviluppo economico
del calibro di Federica Guidi e Carlo Calenda, i ternani possano aver
ceduto a chi prometteva loro la tutela del volgare lavoro, invece che,
per dirne una, i matrimoni omosessuali? La Lega, che da tempo vince
“nell’operoso Nord” e oggi sfonda anche a Pisa, è quella che durante le
sferzate della crisi andava sui tetti a manifestare con gli operai
mentre il Pd si rinchiudeva nei piccoli teatri off del centro di Roma
per parlarsi addosso di quanto fossero folcloristici i barbari con le
corna in testa, di quanto Berlusconi avesse rovinato l’Italia e di
quanto loro fossero democratici (mentre preparavano il terreno a uno
come Renzi).
Terni è l’allegoria finale di una parabola non solo
elettorale, ma anche politica e antropologica del centrosinistra in
Italia. Tuttora i suoi massimi dirigenti (col sostegno dei grandi
giornali padronali) si mostrano incapaci di intraprendere qualunque
analisi che vada oltre il “rosicamento” per i numerosi e schiaccianti
successi dei toscani padri costituenti e l’ignoranza degli italiani
suscettibili al fascino dei populisti. Si aggirano come zombie tra le Tv
e i social network biascicando di pop-corn e prova del nove. Credono di
impostare una opposizione efficace incentrandola su diadi di termini
inconciliabili, quali “Ci copiano” e “Noi siamo #altracosa” (l’hashtag è
renziano, ovviamente); oppure “Sfasceranno i conti pubblici” e “Non
faranno niente di quel che hanno promesso”. Non gli passa nemmeno per la
testa che, oltre al non sequitur logico, vantarsi di aver già fatto
loro quel che Salvini e Di Maio hanno promesso nel contratto (flat tax
per le imprese, respingimenti dei migranti, reddito di cittadinanza) non
fa che confermare a chi ha smesso di votarli di aver fatto bene a
scegliere gli originali, visti i risultati negativi della loro
performance. Cosa più grave, dà ragione a chi pensa che il Pd sia
diventato un partito di centrodestra, che manda al massacro il suo
elettorato storico, straccia lo statuto dei lavoratori, aumenta la
precarietà, erode il welfare e rovina la Scuola.
Sarà un caso, ma
Salvini in campagna elettorale aveva parlato dell’Ast: “Il problema
dell’acciaieria di Terni”, aveva detto, “è quello di Piombino, di
Monfalcone e di Fabriano. Siamo stufi di incontrare operai che vengono
sacrificati e massacrati per colpa di normative europee e incapacità
italiane”. I lavoratori dell’Ast sono quelli che Alfano, ministro
dell’Interno del governo Renzi, nel novembre 2014 fece caricare dalla
polizia in piazza dell’Indipendenza a Roma, mentre manifestavano
pacificamente contro 550 licenziamenti decisi dall’azienda tedesca.
Proletariato populista e ingrato.