mercoledì 13 giugno 2018

il manifesto 13.6.18
Cartolina dal futuro nazionalpopulista
Trump-Salvini. Una nazione ostaggio dei propri governanti, nel segno della demagogia e del rancore. L’esperienza americana degli ultimi 18 mesi può essere letta come un triste pronostico per l’Italia
di Luca Celada


Prima di partire per il G7 della discordia e per il summit con Kim Jong Un (“non serve prepararsi in questi casi è l’atteggiamento che conta!”), Donald Trump ha festeggiato il 500mo giorno in carica litigando con la squadra campione del Superbowl, i Philapdephia Eagles, bannati dalla Casa Bianca per “mancato rispetto” al presidente. L’ultimo siparietto da líder maximo ha avuto eco puntuale nel contenzioso aperto da Matteo Salvini con Mario Balotelli. Piccoli aneddoti a sottolineare la specularità fra l’incipiente regime populista italiano e il caotico regno di Trump. Non è un caso che i due governi si siano affiancati durante il G7 canadese.
Sarà bene abituarcisi. Salvini che già nel 2016 era volato a Philadelphia per procurarsi un selfie con Trump, ricalca con dovizia che rasenta il plagio il copione nazionalpopulista cui gli Americani si sono dovuti abituare durante l’ultimo anno e mezzo: il tafferuglio mediatico come istituzione di governo e la polemica come strumento di un potere predicato sul litigio permanente.
Il governo nazionalpopulista dipende dalla divisione istituzionalizzata per cui è necessario innescare quotidianamente lo scontro “culturale” all’interno del corpo sociale – la strategia delle culture wars perseguita dalla Alt-right americana per consolidare un consenso costruito sul livore permanente della base. Sulle due sponde dell’Atlantico non c’è modo migliore modo di fomentarlo che con gli attacchi ai più deboli ed inermi: minoranze, famiglie arcobaleno, profughi e rifugiati passibili di deportazioni, rimpatri o separazioni esemplari dai figli piccoli. “Gender” e immigrazione insidiano dopotutto entrambi l’ordine genetico costituito. Se è utile si rincari la dose con attacchi a stati sovrani: Messico o Tunisia possono ugualmente fare al caso.
La lezione americana è che l’autorizzazione dell’intolleranza da parte dei vertici politici esplicita assai rapidamente gli istinti peggiori della collettività (vedi Charlottesville, San Calogero e dintorni). La correlazione con la retorica prevalente e l’epidemia di raptus razzisti “spontanei” di cittadini sugli autobus, nei bar e per strada non è casuale. Come e più delle deregulation, riforme fiscali e attacchi al welfare, il nazionalpopulismo reintroduce l’egoismo hobbesiano come legittima dinamica sociale, una ribellione catartica alla “correttezza politica” che esenta dall’onere insopportabile della solidarietà e dell’empatia sommariamente archiviate come “buonismo”.
Le geremiadi anti élite di Trump, come l’insofferenza contro i “sapientoni di sinistra”, sono componenti identiche del populismo come lo è l’idea vendicativa di giustizia venata di meritocrazia e “darwinismo sociale”. Ora che può anche lui infine vantare un corsivo critico del New York Times, Salvini replica ‘tanti nemici tanto onore ‘– con lo stesso compiaciuto sdegno con cui Trump denuncia il complotto del “deep state” e delle fake news. Entrambi usano la false flag della lotta alla globalizzazione economica per sdoganare la lotta alla globalizzazione degli esseri umani sul pianeta: culturale, etnica – inevitabile.
Entrambi i paesi sono ora di fatto entrati in regime post-verità e post-dialettica – in quella politica postmoderna in cui il discorso è sistematicamente degradato, infarcito di proclami, spacconerie e minacce e dove gli advisor assumono ben presto le sembianze di Dennis Rodman o Rocco Casalino. Come la TV-reality da cui provengono questi personaggi, il governo nazionalpopulista esprime la pantomima sforzata della demagogia rivolta al “cervello rettile” degli elettori. Un teatro nondimeno della crudeltà, con vittime reali, che siano sotto le macerie in Siria, nei centri di detenzione, nei campi profughi o semplicemente i vicini di casa.
Se l’esperienza americana degli ultimi 18 mesi insegna qualcosa è l’inevitabile logorio che questo reality politico esercita sulla collettività e sulle istituzioni, la graduale, insidiosa normalizzazione del linguaggio nazionalpopulista. Dietro il turbinio intanto i danni sono tangibili e reali. L’attuale realtà americana coi suoi raid del servizio immigrazione, la chiusura di parchi nazionali, abrogazione della sanità pubblica, furti di bambini, regali fiscali all’oligarchia, smantellamento delle protezioni ad ambiente e minoranze è un triste pronostico per l’Italia. Di più: preannuncia l’inesorabile, generale incattivimento di una nazione ostaggio dei propri governanti.
Indica la strada triste della criminalizzazione della solidarietà e l’avvento dello scontro rabbioso come postura esistenziale. Come se questa fosse una condizione sostenibile di convivenza politica e non preludio invece ad un inevitabile futuro di guerra e sofferenza.