il manifesto 13.6.18
Termini, le stazioni del capitale
Esempio
di spazio assediato dalle merci, non esistono pareti, solo vetrine. Ci
si può ancora sedere su una panchina, ma solo se si è fortunati. Anche i
bagni sono a pagamento
di Piero Bevilacqua
ROMA
Ci sono luoghi e spazi della vita organizzata dalle origini millenarie,
che hanno conservato per secoli, rinnovandole, le funzioni per cui
erano sorte. Funzioni che nel giro di pochi anni sono state svuotate del
loro antico scopo e simbolicamente annichilite. È il caso delle nostre
stazioni ferroviarie. L’etimo latino di stazione rimanda allo stare,
fermarsi in un luogo, una pausa nel cammino. Del resto, nell’antica Roma
il termine statio indicava la tappa del servizio postale, così come
sarà per la posta a cavallo nel corso del medio evo e per buona parte
dell’età moderna.
Sino a pochi anni fa le stazioni ferroviarie,
pur continuando a essere terminali di linee che conducono nelle varie
città del Paese, hanno conservato questa funzione della tradizione, che
faceva dei luoghi di partenza e di arrivo degli spazi pubblici di sosta,
di riposo, di attesa e anche di incontro, di conversazioni occasionali.
Sotto i nostri occhi, laddove è arrivata la modernizzazione del
capitalismo neoliberista, tutto è silenziosamente cambiato. Pensiamo a
Stazione Termini, il terminale della capitale, che insieme alla Stazione
Centrale di Milano, è stata radicalmente ristrutturata. Era un luogo
per viaggiatori che sostavano, in uno spazio comune organizzato per
l’attesa e per il riposo, e oggi è diventato un emporio caotico dove lo
spazio circostante è letteralmente sotto assedio.
Negli androni
del pian terreno e in quelli del sotterraneo, non c’è spazio che per le
merci. Non esistono pareti, ma vetrine di magazzini che si rincorrono
per sale e corridoi senza soluzioni di continuità. Come se non fosse già
abbastanza ricca l’offerta, si aggiungono giganteschi box
prefabbricati, piazzati in mezzo agli androni, negozi, vetrine, luci. In
alto, dove rimane ancora spazio superstite, numerosi schermi e display,
armonie sonore per le glorie dei prodotti, per l’illimitata felicità
dei consumatori.
La stazione non è più una stazione. Non c’è un
angolo, una panchina su cui sedersi. Solo nei sotterranei, per un’errore
originario degli architetti, che hanno costruito un paio di panchine in
pietra (non asportabili) attorno a delle finte fontane, ci si può
sedere, ma dopo avere atteso il proprio turno, perché sono continuamente
occupate e tenute d’occhio da folle di stazionanti che attendono il
loro turno.
Nel primo piano, un tempo esistevano dei sedili in
plastica che ora sono stati smantellati. C’è tutta la società
capitalistica della nostra epoca in una sola foto. Nei corridoi di
passaggio tra una sala e l’altra, i senza casa seduti su sedie
pieghevoli, con accanto qualche coperta per la notte, sotto valigie che
devono camuffare il bivacco regolare con finte attese di partenze.
Dovunque torme di giovani seduti per terra , con i loro pesanti zaini
portati in giro per il mondo, anziane signore che si appoggiano come
possono sul bordo metallico che circonda la vetrina della libreria.
Altri passeggeri di varia età, il popolo plurietnico delle stazioni dei
giorni nostri, vagano come anime del Purgatorio in attesa del loro
treno.
Non ci si può sedere nella Stazione. Lo si può fare
umiliandosi, distesi su un pavimento o nei bar, nei punti di
ristorazione: solo se ci si spoglia dell’abito di cittadino e si indossa
quello del consumatore. Solo se si paga si ha diritto alla stazione. Il
viaggiatore deve camminare, perché altrimenti si isola in uno spazio
proprio e non osserva, non acquista qualcosa di cui non ha bisogno,
sfugge al messaggio pubblicitario. E deve pagare anche per soddisfare le
sue necessità più elementari e improrogabili. A Stazione Termini, come
ormai in tanti altri luoghi un tempo pubblici, non esistono toilet, se
non a pagamento. Chi vi si reca può osservare la mirabilia elettronica
che si deve affrontare solo per fare la pipi. Un cancello a vetri che dà
accesso al bagno solo se inserisce in apposita feritoia una moneta da 1
euro: ben 1936 lire della nostra vecchia moneta. Di sicuro, visto
l’asettico nitore del luogo, il servizio viene gestito da qualche
società specializzata, probabilmente quotata in borsa. Ma questo non è
necessario per stabilire che il capitale oggi cerca profitti anche nelle
nostre deiezioni organiche.
Dunque, Stazione Termini offre oggi
l’immagine esemplare del modello di società verso cui ci trascina il
capitalismo dei nostri giorni. Un spazio sociale decomposto in una
miriade di presidi privati dove è impedita anche una comunità
provvisoria, dove tutti devono svolgere compiti utili, quelli di
consumatori, anche nei momenti di pausa e di attesa. Un frammento di
vita in cui il dominio dell’economia mostra il suo volto ormai
assillante ed ostile. Un microcosmo della città che muore.