giovedì 14 giugno 2018

Corriere 14.6.18
In un anno solo 458 mila neonati È il record negativo dall’Unità d’Italia
Il dossier dell’Istat: il calo in atto da dieci anni. Anche gli stranieri fanno meno figli
di Alessandra Arachi


ROMA Sono dieci anni che in Italia nascono sempre meno bambini. Ma la cifra di denatalità che ha segnalato ieri l’Istat è il nuovo minimo storico dall’Unità d’Italia: nel 2017 ci sono state soltanto 458 mila culle che hanno avuto il dono di essere riempite.
Con questo trend, va da sé, la popolazione diminuisce. Nel 2017 siamo stati 105 mila 472 in meno rispetto al 2016, e ci ha salvato il saldo attivo che la popolazione straniera ha dentro il nostro Paese, altrimenti saremmo sotto di quasi 203 mila unità.
Sono solo due anni che il saldo della nostra popolazione ha il segno negativo — con sempre tanti più morti e sempre tanti meno nati. Ma ci fanno sapere che è un destino inesorabile.
È infatti un fenomeno che i demografi chiamano il «declino della popolazione» e al quale, adesso ci avvertono, dobbiamo abituarci. Il declino sarà sempre più declino almeno per i prossimi venti-trent’anni, ovvero fino al 2040-2050.
È inesorabile, questa tendenza. Perché nascono sempre meno bambini e questo non soltanto perché non si vogliono (o non si possono) fare i bambini. C’è anche una questione strutturale, ineluttabile: le donne in età fertile sono sempre meno. Per dirla con le parole della statistica: le «baby boomers», la fortunata generazione del dopoguerra, stanno lasciando il posto alle «baby buster», le giovani spesso precarie di oggi. E la piramide della popolazione si va sempre più rovesciando.
La mancanza di bambini si fa sentire in maniera sempre più pesante. Basta guardare l’indice di fertilità per capire, ovvero il numero di figli per donna: da anni è ormai bloccato sull’1,34. E, anche qui, se non ci fossero le donne straniere sarebbe pari a 1,22.
Del resto dei poco più di 458 mila bimbi nati in Italia nel 2017, quasi uno su quattro è nato da genitori stranieri o da almeno un genitore straniero. Per la precisione : sono 68 mila quelli nati da entrambi genitori stranieri — comunque in calo rispetto al 2016 — e poco più di 30 mila da almeno un genitore straniero. E non è un caso che la popolazione straniera in casa nostra sia l’unica a registrare un saldo positivo (+ 61 mila).
Non dimentichiamo che in Italia risiedono persone di circa duecento nazionalità, nella metà dei casi si tratta di cittadini europei (2,6 milioni). La cittadinanza più rappresentata è quella rumena (23,1%) seguita da quella albanese (8,6%).
Calano le nascite, aumentano i decessi. È normale che succeda in un Paese con una popolazione come la nostra. In Italia, infatti, è quasi un individuo su quattro che ha più di 65 anni, il 22%, e non dimentichiamocelo che siamo il Paese più vecchio al mondo dopo il Giappone. È così che nel 2017 i decessi hanno toccato quota 650 mila, 34 mila in più rispetto al 2016.
C’è un’oasi di fertilità nel nostro Paese, la provincia autonoma di Bolzano. Soltanto qui il tasso di crescita ha davanti un segno più: +1,8 per mille. Un contraltare inquietante per l’anziana Liguria dove il tasso di crescita del -8 per mille. Il tasso di crescita nazionale è di -3,2%, e a parte il picco della Liguria, vanno segnalati i -5 per mille di regioni come il Molise e l’Umbria, il Friuli Venezia Giulia, Piemonte e Marche.

Corriere 14.6.18
L’emergenza sbarchi
I due cadaveri trovati abbracciati «Sono morti di stenti sul gommone»
Catania, a terra i naufraghi salvati dalla nave Diciotti. «Ci servono medicine»
di Giusi Fasano


Catania I colori dell’alba stanno sfumando quando la sagoma della nave Diciotti compare in lontananza. Alle sette e mezzo l’attracco è finito, si comincia. «Oddio, quanti sono...» sembra realizzare soltanto ora un ragazzo della Croce Rossa. Sono 932. Uomini, donne e bambini partiti da chissà quale posto in fondo al mondo, passati dalla Libia e imbarcati su qualche bagnarola galleggiante, senza nessuna certezza di arrivare fino a qui.
Hanno facce stravolte dalla stanchezza e voglia di scendere ma i tempi per le visite mediche e per l’identificazione non sono brevi. A fine giornata avranno toccato terra in 701, gli altri lo faranno stamattina.
Il medico legale sale a bordo per primo, deve fare accertamenti sui due morti che la Guardia Costiera ha recuperato durante una delle operazioni di salvataggio, fra sabato e lunedì. Quando ha finito, il dottore si avvicina ai colleghi della Sanità Marittima e dice che no, quei due non sono morti annegati. Erano un ragazzo e una ragazza, giovani, molto deperiti. L’autopsia spiegherà di più ma nei ricordi di chi li ha trovati il solo dettaglio che resterà di quei due poveri corpi è che erano abbracciati, stretti l’uno all’altro su un gommone alla deriva, forse morti di stenti, prima lei di lui. Si saprà poi che non erano parenti o coppia: si erano conosciuti da prigionieri, tutti e due somali, in uno dei campi dell’orrore in Libia.
La loro storia passa di bocca in bocca e sulla banchina che accoglie i migranti c’è un silenzio surreale mentre i due corpi lasciano il porto sui carri funebri. Un attimo dopo è di nuovo fermento, riprende a scorrere il fiume incessante di gente che scende dalla passerella, si ripara dal sole sotto una tenda bianca, si lascia misurare la febbre, mostra le ferite della scabbia. Il primo bimbo che scende in braccio a sua madre (eritrea) ha meno di tre mesi, un cappello nero in testa e nessuna voglia di farsi fotografare. Gli operatori lo accolgono con un sorriso, provano a giocare, lo coccolano. L’attenzione è tutta per lui in una sorta di picchetto d’onore, chiamiamolo così: tutti attorno a quel bimbo, quasi sugli attenti per quella giovanissima vita che passa e si infila nella tenda della Croce Rossa.
I bambini piccoli sono molti e sommati ai minori non accompagnati (in genere quelli oltre i 14 anni) sono oltre duecento. Si guardano attorno smarriti, ascoltano gli slogan urlati da un gruppo di manifestanti che osserva da lontano lo sbarco e mostrano fieri il braccialetto colorato che è stato loro assegnato sulla nave. Ogni colore uno stato di salute preciso.
Fra i piccoli ci sono anche due bimbi siriani arrivati con i familiari. Sono in otto. L’uomo che sembra più adulto dice ai medici che «lui ha bisogno di psicofarmaci, per favore». «Lui» è un ragazzo che se ne sta lì muto, assente. Qualcuno spiega ai medici che «un giorno hanno bombardato la sua casa, hanno ucciso sua madre e da allora non ha più capito niente, non ha più parlato». Al mediatore che parla la sua lingua raccontano poi che il padre del ragazzo aveva due soldi da parte e li ha investiti tutti nella speranza che il figlio arrivasse in Europa. Lo ha affidato a una famiglia in partenza e l’ha abbracciato per l’ultima volta davanti alle macerie della loro casa.
C’è una giovane donna, anche lei siriana, che scuote la testa e si arrabbia perché suo marito le dice di fare quel che chiedono i poliziotti: togliersi il velo nero che le avvolge i capelli per lo scatto della foto segnaletica. «No» ripete lei infuriata. Finisce che quello scatto si fa in una tenda, lontano da sguardi di sconosciuti. Nell’Italia tanto sognata sono arrivati quasi tutti scalzi, senza nient’altro che i vestiti. Raccontano mesi, a volte anni di non-vita e violenza passati quasi sempre in Libia a sperare che ogni giorno fosse quello buono per partire. Vista da qui, dalla salvezza, quella sembra una vita fa.

il manifesto 14.6.18
I corpi dei migranti indifesi ridotti a ostaggi
di Raffaele K. Salinari


L’odissea dei naufraghi ospitati sulla nave Aquarius è la metafora di una disegno che travalica gli angusti, e per molti versi tragici, ambiti della politica italiana, per trasportaci, come si conviene ad ogni metafora, verso un orizzonte di livello europeo e mondiale più vasto, che l’episodio della chiusura dei porti italiani a donne incinte e bambini, sembra illuminare di una luce oscura.
La consapevolezza che la posta in gioco sia molto più alta del destino della nave, e qui la parola riprende tutta la sua profonda gamma di significati, emerge chiaramente dalla definizione che, giustamente, è stata data degli esseri umani coinvolti: ostaggi.
Il risultato, infatti, ricercato cinicamente attraverso i corpi di queste persone, non a caso i più esposti e dunque i più indifesi, è nulla di meno che lo smantellamento delle Convenzioni internazionalmente accettate che permettono ancora di riconoscersi tutti all’interno della stessa appartenenza.
E qui, evidentemente, il corpo migrante, con tutti i suoi significati e significanti simbolici, diventa la massima espressione di una biopolitica che, come suo scopo ultimo, pretende di imporre proprio questa frattura all’interno della specie umana.
Da una parte allora si immagina una minoranza privilegiata perché titolata di tutti i Diritti e, dall’altra, oltre i vari muri, una maggioranza che, via via li deve perdere, affinché gli altri possano continuare a beneficiarne.
E infatti, nella modernità liberista, competitiva e consumogena, non c’è spreco e lusso per tutti.
Questa operazione, che si deve però confrontare e sostenere attraverso i meccanismi di quel che resta delle democrazie formali nel loro degradare progressivamente in democrature, ha bisogno di cancellare il tratto comune alla specie umana: la dignità di ognuno.
Non a caso è questo il pilastro sul quale si fonda la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. E cos’è la Dignità se non il riconoscimento che ogni essere umano ha gli stessi diritti per il solo fatto di esistere, di essere venuto al mondo, di occupare uno spazio unico ed irrepetibile nell’eterno ciclo dell’esistenza? Ridurre le persone ad oggetto di una transazione politica, renderle appunto ostaggio, significa privarle della loro dignità e dunque creare una scissione profonda all’interno del corpo unico ed indivisibile della nostra specie, indivisibile come lo sono i Diritti Umani.
Le Convenzioni che sono state violate sotto la spinta del Ministro degli Interni, evidentemente incapace di vedere al di là dell’ego dei suoi elettori in preda alle paure profonde ed inconfessabili che li agitano nel loro passare la domenica a passeggio tra le vetrine dei centri commerciali quando vengono disturbati nelle loro fantasie di possesso dai negri che chiedono le elemosina, include tutte le regole internazionali in materia di rifugiati e di soccorso umanitario.
È allora chiaro, o lo dovrebbe essere, a chi ha ancora occhi per vedere l’orizzonte più vasto, che la catena delle Convenzioni internazionali, incluse quelle che concernono l’ambiente, i diritti del lavoro, gli standard minimi di salute e di istruzione, la parità di genere, e via enumerando, è forte quanto il più debole del suoi anelli, in questo caso la violazione delle Convenzioni sul diritto di asilo, del soccorso in mare e di protezione dell’infanzia, da parte dell’Italia leghista e grillina.
Ma attenzione, quello che oggi riserviamo a queste persone già domani lo riserveremo ad altri soggetti diversamente deboli, che devono restare fuori dai supermercati o al massimo diventare parte della merce. Che gli elettori stanchi e delusi dalle debolezze e subalternità ideologiche della sinistra comincino a guardarsi dentro, a ripensare alle origini di molti dei loro cognomi, ai viaggi degli antenati, a quali lavori vorrebbero fare tra quelli che suppostamente tolgono i nuovi arrivati, e forse troveranno ragioni per interrogarsi questo plebiscito sovranista che hanno favorito solo con la loro paura di affrontare un ineludibile cambiamento che la vita stessa ha già deciso di attuare.

Il Fatto 14.6.18
Zig zag, sudore zero e il niet a B.: dove va l’aplomb di Giggino
di Pino Corrias


Timonata da Matteo Salvini, l’Aquarius gli è passata sopra. Lo ha stordito senza spettinarlo. E lo ha lasciato lì a galleggiare. Ma visto che non sappiamo ancora molto di lui, a parte la cravatta, abbiamo il tempo di ricominciare dai fondamentali. Luigi Di Maio – Avellino, 6 luglio 1986 – è alto un metro e settanta, pesa 73 chilogrammi, e nonostante sia nato nella piena bambagia digitale dei Millennial, ogni tanto bacia l’ampolla del sangue di San Gennaro e il sangue si scioglie. Dunque fa miracoli, il più cospicuo dei quali, è lui.
A dieci anni sognava di fare il poliziotto con la pistola. A diciotto staccava biglietti allo stadio. A ventisei è diventato vicepresidente della Camera. A trentadue – cioè oggi – ministro del Lavoro, nonché vice premier, nella nuova Italia giallo-verde che ci circonda. Il tutto senza mai una visibile goccia di sudore. Luigi, detto Giggino dagli amici, detto Luigiotto in famiglia, è apparso a Beppe Grillo un giorno di marzo a Pomigliano d’Arco, circonfuso dalla quieta luce di 59 preferenze: erano le Regionali del 2010. Risultò non eletto. Ma per l’eterogenesi dei fini, meglio gli andò. Impegnandosi nei successivi Meetup nazionali, finì per farsi candidare dal Capo alle Politiche del 2013, diventare il deputato più elegante del Movimento, nonché suo cocco permanente: “Imparo da lui anche quando sta zitto”, ha dichiarato Beppe. Il che, considerando la logorrea del Fondatore, è molto più di un complimento.
Purtroppo impegnandosi assai nell’ascensione, Luigi Di Maio s’è dimenticato di studiare. Dopo il diploma al liceo classico e nonostante le preghiere della mamma insegnante di Lettere e latino, si è fatto un paio di passeggiate dentro le facoltà prima di Ingegneria, poi di Giurisprudenza, ma niente esami. Il suo libro di formazione è stato La storia d’Italia di Montanelli e Cervi. E la biografia di Sandro Pertini. Ruvido dispiacere per il padre Antonio, imprenditore edile, missino, nostalgico del vecchio Giorgio Almirante, che quelli come Pertini li metteva volentieri al muro. Segno che Luigi s’è affrancato dal babbo, al netto dell’affetto e dell’Edipo. Né più né meno di quello che ha fatto l’altro astro nascente del Movimento, lo spettinato Alessandro Di Battista, figlio anche lui di un padre addirittura dannunziano e probabilmente motociclista. Il che potrebbe dirci qualcosa in più di quel che batte nei cuori stellati dei due figli. E se l’irruenza contro l’autorità, i Palazzi e lo Stato repubblicano, considerati fino a ieri scatole di tonno, sia il residuo involontario del vecchio sovversivismo che nutrì l’epopea in camicia nera nell’Italia dei padri, o sia virata per davvero nella forma libertaria, reticolare e pacifista rivendicata dal Movimento, nell’Italia dei figli.
In attesa che qualche lume lo accenda lo psicologo, o le future cronache politiche, uno dei due è andato in California, a coltivare sogni & surf, l’altro è salito in cima al ministero del Lavoro, dove lo attendono 160 tavoli di crisi, il buco nero dell’Ilva di Taranto da risolvere, il guaio dell’Iva da congelare, il guaio della flat tax da posticipare, il guaio del reddito di cittadinanza da distribuire, oltre all’impazienza di undici milioni di votanti, da qualche mese alla finestra.
Tutte cose da far tremare i polsi a un politico navigato. Ma che lasciano imperturbabile Luigi, che a volte esibisce una freddezza andreottiana nel carattere che riverbera persino nel modo di transitare davanti alle telecamere, muovendo le gambe, ma non le braccia. Un aplomb che di sicuro lo ha aiutato negli anni della dura convivenza con la signora presidentessa della Camera Laura Boldrini, intransigente in tutto, dai diritti delle donne Masai, a quelli della neolingua da declinarsi sempre al femminile. E dunque un poco faticosa per chiunque. Ma non per lui, accomodato e accomodante dentro al suo sorriso.
Persino Renzi premier, provò un giorno a scuoterlo. Nel pieno di una delle tante bagarre d’aula, gli scrisse un bigliettino: “Scusa l’ingenuità caro Luigi, ma voi fate sempre così? Mi ero fatto l’idea che su alcuni temi potessimo confrontarci”. Quieta fu la risposta: “La tua maggioranza ha votato il condono alle slot machine, miliardi per le banche e per gli F-35. Ti aspettavi gli applausi?”.
È stato dunque con massimo stupore che lo si vide, per la prima volta, perdere le staffe (e il senno) quella famosa domenica 27 maggio in cui chiese – con le vene del collo gonfie – niente di meno che la messa in stato di accusa del presidente Sergio Mattarella: “Scenderemo in piazza il 2 giugno! Non rispetta le regole! Non è più l’arbitro imparziale!”.
Invettiva che non lo fece dormire per una notte intera, ma che seppe voltare in farsa il giorno dopo, salendo in retromarcia al Colle per chiedere scusa, ignaro che i costituzionalisti continuassero ad accapigliarsi tra i labirinti della Carta e la sua filippica, mentre lo spread si alzava alto nei cieli dell’Europa attonita.
Da politico cresciuto nell’era berlusconica, ha imparato che si può dire e disdire qualunque cosa, compresi i congiuntivi, e pazienza per i conti pubblici. Dicendo qualunque cosa ci ha vinto le elezioni. Ha promesso soldi e insieme tagli. Rigore e “pace fiscale”, cioè l’ennesimo condono. Ha giurato di non essere né di destra, né di sinistra (“ma oltre”) per questo ha trattato con l’una e l’altra. Nel 2014 dettava alle tv: “Firmiamo per uscire dall’euro”. L’anno dopo diceva il contrario. Quello dopo ancora, il contrario del contrario. E oggi, accomodato tra gli scranni del governo, l’opposto di ieri: “Il Movimento non ha alcun interesse a uscire dall’euro”.
In compenso su soldi e casta è stato di massima coerenza. Si è autoridotto a 2.500 euro lo stipendio, finanziando col disavanzo il microcredito destinato alle imprese. E con quel che gli restava in tasca, i suoi completi da “venditore di Tecnocasa”, come gli rimproverano amici e nemici. Ma specialmente è stato coerente con Silvio Berlusconi, non azzardandosi mai a sedersi a un tavolo con lui, il Condannato, dopo i vent’anni di astuti bivacchi allestiti dalla sinistra.
Scontato che il suo fulmineo incedere abbia suscitato molti veleni. Gli hanno perlustrato la vita privata a caccia di ombre. La vita sentimentale in cerca di scandali. Quella sessuale in cerca di scoop. Vittorio Sgarbi, accomodato in streaming sul trono che si merita, il cesso di casa, gli ha augurato la morte fisica. Vittorio Feltri quella politica. Vincenzo De Luca addirittura di trovarsi un lavoro. Ma tanto livore svela il movente. E tutte e tre le contumelie fanno una prova: è livida invidia per la sua atletica giovinezza. Senza curarsi dei risolini è andato in visita a Washington e alla City di Londra. Ha letto in inglese meglio di Renzi e Berlusconi, anche se ha detto più o meno le stesse cose: “Investite da noi, siamo fortissimi”. Per mesi ha preteso per sé Palazzo Chigi. Ma il giorno che ha capito le regole dell’aritmetica, ha chinato il capo. E quando nessuno ci credeva più, ha rammendato un governo nuovo di zecca, magari improbabile, ma prontissimo a ratificare le mille nomine che arrederanno il nuovo potere nella Terza Repubblica. Lo ha fatto con un signor nessuno, il silenzioso Giuseppe Conte, e con il più periglioso degli alleati, Salvini, il Capitano, che a forza di coltivare rancore e di dare spallate contro l’immigrazione, gli toglie voce, centralità, terreno, spiazzandolo persino dentro al suo Movimento.
I voti persi alle ultimissime Amministrative, i Cinque Stelle indagati per lo stadio della Roma, sono le prime incrinature che guastano la festa del trionfo. Mentre Aquarius – e il muro d’acqua fabbricato contro i 629 migranti – segna l’esatta rotta dove la Lega di Salvini vuole navigare, i confini asciutti dell’Ungheria di Orbán, destinazione Mosca.
Dalla convivenza con l’alleato – e al netto del primo naufragio che l’ha stordito – si capirà se Luigi Di Maio ricomincerà a nuotare, rivelandosi miracoloso, oppure soltanto un miracolato.

Il Fatto 14.6.18
Da Zawya a Bengasi, i predoni libici in attesa di nuovi affari
Spada di Damocle. Chi sono i capi-banda (tra faide e alleanze) con i quali trattare lo stop dai traffici
di Nancy Porsia


Due uomini per terra, picchiati e torturati. Su di loro alcuni uomini armati del gruppo armato guidato dal generale Khalifa Haftar, capo di uno delle fazioni che si contendono il controllo del territorio in Libia. Da giorni nella città nell’estremo Est del paese nordafricano, i jet militari bombardano sulla città. Tante vittime e soprattutto centinaia di sfollati in fuga.
Nel video che nella giornata di ieri ha fatto il giro del web, si vede chiaramente un uomo uccidere i due a terra, a distanza ravvicinata. All’indignazione del popolo degli internauti libici, Haftar ha risposto che si trattava di mercenari al soldo di al Qaeda, senza far alcun riferimento ad indagini concluse o in corso. D’altronde il capo della coalizione armata sostenuta da Egitto e Emirati Arabi Uniti ha definitivamente incassato a fine maggio il riconoscimento della comunità internazionale in occasione del summit di Parigi voluto da Macron. Con la stretta di mano tra Haftar e il premier libico Fayez Serraj, suo ex rivale, Haftar oggi è in una posizione di forza tanto che l’esecuzione sommaria di due uomini da parte di alcuni dei suoi pare non lo metta in imbarazzo. Infatti anche l’Italia e le altre cancellerie da sempre sospette verso Haftar dopo che quattro anni fa si auto proclamò capo dell’esercito libico, hanno dovuto abbassare la guardia ed accettare il compromesso tra il governo Serraj a Tripoli e l’uomo forte dell’Est.
E nella giornata di ieri la nuova Italia, pare essersi ulteriormente avvicinata alla sua ex colonia. Il colonnello della Forze della Marina Ayoob Qassem si è complimentato con l’Italia per aver chiuso le porte ai migranti. In realtà il colonnello Ayoob non aveva mai accettato fino in fondo la libertà delle Ong di effettuare ricerca e soccorso in mare al largo della Libia.
Secondo Qassem le operazioni di recupero dei migranti in mare rappresentavano chiaramente la schizofrenia dell’Europa sul fronte della gestione dei flussi migratori.
Un passaggio importante che potrebbe portare a un rilancio nel breve termine della collaborazione tra Italia e Libia sul contrasto alla migrazione irregolare. Soprattutto all’indomani delle sanzioni delle Nazioni Unite contro alcuni trafficanti libici, di cui alcuni anche beneficiari diretti degli accordi siglati dall’ex ministro degli Interni, Marco Minniti.
Oltre a due eritrei accusati di far parte della rete operativa del traffico di esseri umani in Libia, nella lista nera dell’Onu sono finiti anche il capo della unità della Guardia Costiera della città di Zawiya, Abd al Rahman al-Milad, noto con il soprannome di “al-Bija”; Mohammed Koshlaf, capo della Brigata al-Nasr con cui controllava la raffineria locale e un centro di raccolta per migranti; Ahmed al Dabbashi, soprannominato “Al-Ammu”, capo della brigata Anas Dabbashi – titolare della sicurezza esterna al compound della Mellitah Oil&Gas legata all’Eni, e uno dei principali trafficanti di esseri umani nella città di Sabrata; e un altro importante trafficante di Sabrata Mussab Abu Ghrein, alias Musab Abu-Qarin.
Le sanzione contro un esponente della Guardia Costiera libica hanno creato diversi imbarazzi in Libia, e soprattutto tra le fila delle Forze della Marina. Dunque Salvini pare essere stato in grado di ricucire lo strappo con il colonnello Qassem.
Oltre al trofeo dell’apertura del porto di Valencia ai migranti salvati da SOS Mediterrane da parte del premier spagnolo Sanchez, Salvini – atteso entro la fine del mese a Tripoli – proverà a portare in Europa anche il consenso libico. Peccato che la Libia non sia famosa per il rispetto dei diritti umani.

il manifesto 14.6.18
Macron contro l’estrema destra (e non contro l’Italia)
Aquarius. Annullata la visita di Tria a Bercy (ma con Le Maire si vedranno "tra qualche giorno"). Il presidente francese replica all'offensiva di Salvini, "li conosciamo, abbiamo gli stessi". Per l'Eliseo la visita di Conte resta in agenda venerdì. Divisioni dentro En Marche sulla politica migratoria
Anna Maria Merlo


PARIGI La Francia nega che ci sia in corso uno scontro con l’Italia, “Roma e Parigi lavorano mano nella mano” per affrontare la questione migratoria, ma Emmanuel Macron precisa la profonda divergenza con le “provocazioni”di chi governa a Roma: “non si deve mai cedere all’emozione che alcuni strumentalizzano”, ha affermato ieri pomeriggio, il dramma che l’Europa sta vivendo non puo’ certo essere affrontato con i toni di qualcuno che dice “sono più forte dei democratici, vedo la barca e la caccio. Non dimentichiamo chi ci interpella, noi conosciamo gli stessi” ha concluso, facendo allusione all’estrema destra. L’Eliseo dice di non aver ricevuto “alcuna informazione dalla presidenza del consiglio italiana su un possibile annullamento della visita di Giuseppe Conte”, prevista venerdi’, dove, ha precisato il ministero degli Esteri, “l’immigrazione naturalmente sarà al centro” dell’incontro. Inoltre, non c’è stata neppure “nessuna richiesta ufficiale di scuse” da parte dell’Italia, come invece ha preteso Matteo Salvini in Italia. Ieri, “su richiestavitalian” è stato annullato l’incontro a Bercy tra Bruno Le Maire e il ministro dell’Economia, Giovanni Tria. Il ministro francese,  dispiaciuto, annuncia che c’è stata una telefonata di chiarimento e che i due responsabili dell’economia si vedranno “tra qualche giorno”. Il ministero degli Esteri ha gettato acqua sul fuoco: “siamo perfettamente coscienti del carico che la pressione migratoria fa pesare sull’Italia e degli sforzi di questo paese – ha detto il portavoce – nessuna parola pronunciata da autorità francesi ha rimesso in discussione questo né la necessità di coordinazione stretta con l’Europa”. Il governo francese ha sottolineato che “ci vuole una risposta europea”. Francia e Germania presenteranno delle proposte anche sul fronte delle migrazioni all’imminente Consiglio europeo del 28 e 29 giugno. Ma in Germania è ormai scontro tra Angela Merkel e il ministro degli Interni, Horst Seehofer (Csu bavarese), che non vuole più applicare le deroghe di fatto al regolamento di Dublino che aveva adottato Berlino. “Non c’è una soluzione nazionale a questo problema – ha ripetuto il primo ministro francese, Edouard Philippe – non puo’ essere che europea”, anche se, sotto la pressione del dramma dell’Aquarius, la Francia è “evidentemente pronta ad aiutare le autorità spagnole per accogliere e analizzare la situazione delle persone”, inviando per esempio dei funzionari dell’immigrazione francese a Valencia. Secondo l’Eliseo, bisogna evitare che reazioni populiste prendano il sopravvento, mettendo di volta in volta i governi europei di fronte al fatto compiuto. Ma l’equazione europea sui migranti appare impossibile: molti paesi, e non solo il gruppo di Visegrad, non vogliono una riforma del sistema di Dublino (analisi della situazione degli esiliati nel paese di primo sbarco e possibile rinvio in questo stato per chi si sposta nello spazio dell’Unione senza documenti).
Macron ha scelto il terreno dello schieramento politico per lo scontro con il governo italiano, alludendo alle derive interne francesi. Difatti, la destra e l’estrema destra hanno dato prova di unità, inneggiando ai muscoli italiani. “La reazione di Salvini è salutare” (Marine Le Pen), “Nessun porto francese, né la Corsica, né Nizza, né Marsiglia, deve accogliere l’Aquarius (il deputato républicain Eric Ciotti), alludendo alla proposta della Corsica, fatta martedi’ dal presidente del consiglio esecutivo, il nazionalista Gilles Simeoni, di accogliere l’Aquarius. Tra i Républicain, una sola voce dissonante, il deputato Philippe Gosselin, ha parlato di emergenza umanitaria a cui bisognerebbe rispondere. En Marche (Lrem), il partito di Macron, si è spaccato, come già aveva fatto al momento del voto della legge su Asilo e Immigrazione del ministro degli Interni, Gérard Collomb, molto repressiva. “La Francia non puo’ restare silenziosa di fronte a questo dramma”, per una decina di deputati Lrem, che hanno protestato per l’assenza di reazioni prima (sono passate 72 ore prima di avere qualche presa di posizione ufficiale sull’odissea dell’Aquarius) e per la mancanza di proposte umane dopo. Il portavoce del governo, Benjamin Griveaux, si è arrampicato sui vetri spiegando che “la Francia non è rimasta inattiva” nelle ultime ore, parlando di contatti con la Commissione.

il manifesto 14.6.18
A Roma si erano accesi tutti gli allarmi ma nessuno ha voluto vedere
Un rendering del progetto dello Stadio della Roma a Tor di Valle
di Paolo Berdini


Evidentemente la capitale d’Italia non riesce a far tesoro degli scandali degli ultimi anni, quelli che hanno svelato una città dominata da un mondo affaristico-malavitoso capace di mettere la politica alle proprie dipendenze.
Era il 2 dicembre del 2014 quando prese il via l’inchiesta “mondo di mezzo” che azzerò la classe politica al governo della città. Imprese e cooperative colluse con la malavita per l’accaparramento di funzioni fino a pochi anni prima svolte egregiamente dalle amministrazioni pubbliche.
Il sistema degli appalti fu sottoposto ad una profonda verifica, anche grazie all’Anac di Cantone. E fu sempre in risposta alla domanda di trasparenza e onestà che nel giugno 2016 Roma affidò ai 5Stelle e a Virginia Raggi le chiavi del governo della città.
La nuova giunta si era dunque affermata per porre in essere una profonda discontinuità di metodo e di contenuti.
In quello stesso periodo, il governo delle città, la vera radice di tutti i mali italiani, non fu però sottoposto ad identica attenzione. Anzi.
Oggi i «piani casa» di ogni regione permettono di demolire e ricostruire immobili, anche in zone di pregio storico e ambientale, con notevoli incrementi di volumetrie. Le coste italiane, e perfino quartieri bellissimi come quello di corso Trieste a Roma, sono stati aggrediti dalla eterna speculazione immobiliare.
Alla camera dei deputati è stata fortunatamente bloccata una legge di cosiddetta rigenerazione urbana che avrebbe permesso alla proprietà fondiaria di intervenire ulteriormente senza alcuna regola.
Ma identica filosofia è contenuta nella recente legge urbanistica della regione Emilia Romagna, nella legge della rigenerazione urbana del Lazio e nella proposta di legge che l’attuale giunta regionale dell’Abruzzo vuole approvare ad ogni costo.
Si continua a pensare che solo la cancellazione del governo pubblico sia l’obiettivo da raggiungere.
A ROMA, I SEGNALI che sull’urbanistica si sarebbero dovuti accendere i fari dell’attenzione erano stati molto espliciti.
Il 16 dicembre 2016 viene arrestato Raffaele Marra, potente braccio destro del sindaco Raggi.
Narrano le cronache che nel suo appartamento furono trovate alcune pratiche urbanistiche che avrebbero dovuto essere ospitate nell’assessorato che dirigevo.
L’urbanistica mette in moto interessi così giganteschi che la trasparenza dà fastidio a chi ha il potere economico – fondiario ed è molto meglio lasciare tutto nell’ombra di oscure trattative.
In poco tempo, anche grazie al “commissariamento” della Raggi imposto da Di Maio attraverso due uomini di sua fiducia (i deputati -oggi ministri- Fraccaro e Bonafede), l’urbanistica romana è tornata nel porto delle nebbie e nella continuità con le precedenti amministrazioni comunali.
La vicenda dello Stadio della Roma sta tutta in questa forbice con l’esigenza di trasparenza e di moralità che la giunta Raggi aveva promesso ad una città che sperava in un cambiamento radicale.
La stessa Raggi, ad esempio, aveva condotto una limpida battaglia contro la decisione del sindaco Marino di costruire lo stadio a Tor di Valle, salvo poi cambiare punto di vista e annullare tutto il lavoro di recupero di trasparenza e legalità che, durante il mio impegno nella giunta capitolina, avevo impostato.
Del resto, nelle trattative oscure con la proprietà fondiaria non servono assessori competenti, servono mediatori e affaristi.
MA LA VICENDA STADIO non è la sola. Ad Ostia, sciolta per mafia, nonostante due anni e mezzo di commissariamento è stata approvata solo una bozza di piano degli arenili che lascia in mano al potente partito dei balneari il destino del litorale.
Del resto, le meritorie demolizioni degli abusi iniziate per merito dell’allora commissario al litorale, il magistrato Sabella, sono state abbandonate.
Il settore del commercio ambulante è stato riportato indietro rispetto alle politiche di Ignazio Marino.
La rete delle esperienze sociali che tengono viva la città, come la Casa internazionale delle Donne, sono ignorate e rischiano lo sgombero.
Sulla fame di case pubbliche non si è fatto nulla e continuano le dolorose occupazione da parte della città dei poveri.
Sull’area pubblica dei Mercati generali di Ostiense si vuole approvare un progetto che prevede il verde per gli abitanti di quel quartiere, del tutto privo di parchi, ubicato a venticinque chilometri di distanza.
Dalla svolta urbanistica siamo tornati agli orrori dell’urbanistica contrattata.
E’ sul tradimento delle speranze per una città migliore che doveva guardare ai bisogni delle periferie e non agli affari, che dovremmo portare la discussione.
E’ infatti indubbio che questo ennesimo grave colpo d’immagine della capitale potrà provocare disorientamento e ulteriore distacco dalla partecipazione politica.
Per riportare la capitale degli scandali urbanistici ad avere fiducia nel futuro è necessario un progetto di città che sappia mettere per sempre in soffitta affaristi e politica succube.
E’ solo con una profonda svolta etica verso la città intesa come bene comune che potremo ricostruire il futuro di Roma e delle nostre città.
* L’autore è ex assessore all’urbanistica della giunta Raggi

Il Fatto 14.6.18
Salvini dia indietro i 250 mila euro
Il consiglio. Rispedisca così i fondi ricevuti: “Grazie, ma sono troppi e la gente mormora”
di Antonello Caporale


Roma ladrona ricompare e, curiosamente, rovina sul vestito blu ministeriale di Matteo Salvini. Ora si ritrova tra le mani l’assegno di 250 mila euro che Luca Parnasi, da buon investitore, ha destinato alla Lega. “Lo conosco come una persona perbene”, ha detto ieri il ministro. E non dubitiamo affatto. Come non dubitiamo che Parnasi abbia investito bene, “spendendo un po’ per le elezioni”, come pure ha commentato con i suoi quando ha deciso di stornare alla politica un po’ di quattrini, che del resto per l’azienda è tradizione antica e si immagina parecchio remunerativa.
È sempre possibile, perché le vie del Signore sono infinite (e il nostro Matteo ha innalzato il Vangelo a suo compagno di viaggio), che il costruttore romano sia apparso ai leghisti come un improvviso e assai fervente sostenitore di Alberto da Giussano ma purtroppo per Salvini la professione di fede fa un po’ ridere. Fa invece riflettere che il costruttore romano abbia messo la sua fiche
sulla Lega. E doppiamente pensare che quella fiche
Salvini l’abbia accettata.
Tutto torna e la storia ancora si ripete. Era il 7 dicembre 1993 quando un altro tesoriere, si chiamava Alessandro Patelli, raccolse una busta contenente 200 milioni di lire da Carlo Sama, presidente Montedison. E quei soldi, tutti in nero, Umberto Bossi si affrettò a restituirli ma non bastò a evitargli una condanna a otto mesi per violazione della legge sul finanziamento pubblico ai partiti.
Oggi Salvini deve ripetere il gesto del suo antico e perduto leader. Certo, i soldi di Parnasi sono iscritti a bilancio della sua società (Pentapigna srl) e l’erogazione è legittima dal punto di vista giuridico. Politicamente invece suona come una resa al vizio antico di predicare bene eccetera eccetera. Salvini, già che si trova in tema, approfitti e indichi i nomi degli altri donatori che hanno scelto di inviare soldi all’associazione Più Voci, la onlus destinataria dei bonifici. E già che c’è spieghi se la Lega ha ancora in cassa le azioni di General Electric, della spagnola Gas Natural, di Mediobanca, di Enel, Telecom, Intesa San Paolo. Se abbia venduto o ancora possiede il corporate bond
da trecentomila euro di Ancelor Mittal, la multinazionale che ha appena acquistato l’Ilva.
Matteo Salvini con le parole ha costruito un mondo. Ne usi qualcuna per spiegare se ha investito (lui o i suoi predecessori) o perchè non abbia disinvestito. E ne usi qualche altra per illustrare la distanza che separa l’apparenza, il leader che attacca le multinazionali, il lombardo che mangia italiano, beve italiano compra sempre italiano, e poi la realtà.
Un movimento che acquista azioni del capitale ostile e aggressivo, che raccoglie donazioni da costruttori parecchio affamati, che arruola gente dal passato opaco.
Spieghi con un tweet. O forse con due. O anche con tre. Non prima di aver compiuto l’unica scelta possibile: andare in banca e bonificare sul conto della Pentapigna srl, società detenuta al 100% da Luca Parnasi, i 250 mila euro con questo messaggio: grazie, ma sono troppi soldi e la gente mormora…

La Stampa 14.6.18
Il partito degli affari scavalca la giunta
Così il Movimento ha perso la sua verginità
di Fabio Martini


Per un anno e mezzo Roma è stata il palcoscenico di un controverso esperimento politico, ma ora rischia di diventare il luogo della perdita dell’innocenza per tutto il Movimento Cinque Stelle. Una parabola politica raccontata da una sequenza appartata ma eloquente: due giorni fa, poche ore prima del diluvio giudiziario, Virginia Raggi aveva affidato a Facebook un post appassionato: «Lo stadio a Tor di Valle si avvicina. Vogliamo che il sogno diventi realtà #UnoStadioFattoBene, un progetto unico, innovativo, moderno e rispettoso dell’ambiente». Parole ricche di enfasi da parte di un sindaco, a quanto pare inconsapevole di quel che stava accadendo, parole sulle quali è precipitato ieri mattina il peso di un’inchiesta nella quale per la prima volta personaggi vicini ai Cinque Stelle sono sospettati di aver ricevuto promesse di favori in denaro. Terreno finora vergine per il Movimento. 
Una perdita dell’innocenza destinata ad avere effetti sia locali che nazionali. Il primo effetto romano è quello che Silvio Di Francia, già assessore alla Cultura con Walter Veltroni, spiega così: «Il progetto del nuovo stadio della Roma, superati i numerosi passaggi precedenti, sarebbe pronto per l’esame del Consiglio comunale, ma col clima e con le diffidenze che si sono create, pare difficile che possa essere approvato su due piedi». E così, dopo il no secco alle Olimpiadi a Roma, l’amministrazione Raggi potrebbe dover dire addio anche allo stadio. Un colpo alle finanze dell’As Roma, che ci aveva investito risorse e tempo, ma soprattutto uno smacco per l’amministrazione Raggi.
Ma la vicenda romana, col suo carico simbolico, va oltre la Capitale e rischia di irradiarsi su tutto il Movimento Cinque stelle. Sinora le difficoltà amministrative della giunta Raggi avevano suscitato un contraccolpo in termini di consenso che era rimasto circoscritto a Roma. Nessuno ne aveva parlato perché alle elezioni politiche del 4 marzo scorso, lo straordinario successo nazionale dei Cinque stelle aveva occultato l’arretramento a Roma città del Movimento, passato dal 35,2% del primo turno delle Comunali 2015 al 31,1% delle Politiche. Dunque i primi riscontri di un effetto-vaccino, per usare la metafora che Indro Montanelli coniò per immaginare gli effetti immunizzanti prodotti da un governo Berlusconi?
Roma rischia ora di diventare una “vetrina” per tutto il Movimento, impegnato in una inedita esperienza di governo nazionale. Soprattutto per un motivo: il quadro proposto dall’inchiesta della Procura suggerisce il riprodursi di un dato storico: il “sistema-Roma” – una sorta di “partito unico degli affari” - stava cominciando a lambire i Cinque stelle. A Roma è sempre stato strettissimo l‘intreccio tra una miriade di interessi privati e un potere pubblico, paternalistico e pervasivo sin dai tempi dei tanti Papa Re. Un potere consociativo e bipartisan, come aveva confermato l’inchiesta di Mafia Capitale, che dimostrò come due ex estremisti, uno di destra e uno di sinistra, condizionavano la destra e la sinistra istituzionali, al punto che Salvatore Buzzi, in una intercettazione, diceva: «Il Pd sono io!».
In questo contesto, da quasi due anni governa il M5S. L’inchiesta della Procura, che non lambisce neppure di striscio Virginia Raggi, chiama in causa – non certo con risvolti penali – i contestatori interni della sindaca. Ma soprattutto – ed è questo il passaggio potenzialmente più importante – si allude a un mondo di professionisti, studi legali, commercialisti romani e non, che rendono più forte l’affresco tracciato da Paolo Berdini, urbanista di vaglia, già assessore della giunta Raggi, che in un suo recente libro ha scritto come la sindaca si fosse fatta scavalcare da diversi personaggi. Ieri era il suo ex braccio destro Raffaele Marra, oggi è Luca Lanzalone, l’avvocato al centro dell’inchiesta, che – secondo Berdini - «ha legami con quel mondo finanziario globalizzato insofferente a ogni tentativo di regolare il governo urbano. Gli impegni presi davanti agli elettori sono stati stracciati utilizzando un grande esperto di banche».

Corriere 14.6.18
La nuova inchiesta corrotti il copione si ripete
di Giovanni Bianconi


Tra le intercettazioni del costruttore Luca Parnasi che costituiscono l’ossatura della nuova inchiesta romana sulla corruzione, ce n’è una che per i magistrati inquirenti è una sorta di «confessione stragiudiziale»; la rappresentazione plastica del metodo lavorativo dell’imprenditore accusato di corruzione. «Ci sono le elezioni... Io spenderò qualche soldo sulle elezioni, che poi vedremo come vanno girati ufficialmente, coi partiti politici eccetera. Questo è importante perché in questo momento noi ci giochiamo una fetta di credibilità per il futuro. Ed è un investimento che io devo fare... molto moderato rispetto a quanto facevo in passato quando ho speso cifre che manco te lo racconto... però la sostanza è che la mia forza... è quella che alzo il telefono».
Sono parole registrate il 9 gennaio 2018, all’inizio della campagna elettorale, quasi perfettamente sovrapponibili a quelle intercettate cinque anni prima — il 20 aprile 2013, alla vigilia delle elezioni comunali a Roma — durante il colloquio di un altro imprenditore, di diverso livello ma ugualmente importante: «Tu devi essere bravo perché la cooperativa campa di politica. Finanzio giornali, eventi, pago segretaria, pago cena, pago manifesti... Questo è il momento che paghi di più perché ci stanno le elezioni comunali, poi per cinque anni... mentre i miei non li paghi più, poi quell’altri li paghi a percentuale su quello che fanno ... Mo’ c’ho quattro cavalli che corrono... col Pd, con il Pdl ce ne ho tre, e con Marchini c’è...».
A parlare era Salvatore Buzzi, il capo delle cooperative condannato a 19 anni di reclusione in primo grado per associazione per delinquere finalizzata alla corruzione; lo stesso reato per cui è stato arrestato Parnasi. A cinque anni di distanza, la situazione non sembra cambiata di molto. Con un elemento in più: la scoperta del «mondo di mezzo» di Buzzi e del suo complice Carminati ha di fatto determinato il cambio di Giunta a Roma, ma adesso il metodo corruttivo contestato a Parnasi investe in qualche modo anche la nuova amministrazione capitolina targata Cinque Stelle. Che proprio dello svelamento del «metodo Buzzi» si era giovata per conquistare il Campidoglio.
Data per scontata la presunzione di innocenza degli indagati e l’avvertenza che siamo di fronte solo a una ricostruzione dell’accusa, i magistrati ritengono di aver individuato un altro esempio di una prassi che non cambia a dispetto dei mutamenti politici e del ricambio degli interlocutori all’interno della pubblica amministrazione. Per il giudice che ha ordinato gli arresti siamo di fronte a un «ordinario e non certo eccezionale ricorso a condotte illecite», utilizzato come «strategia indispensabile per la realizzazione di qualsivoglia progetto»; secondo la Procura questa vicenda dimostra che «il metodo corruttivo verso esponenti istituzionali, appartenenti alla politica e alla burocrazia» s’è trasformato in «un significativo asset d’impresa».
Se Buzzi aveva puntato su «cavalli» con le insegne di tutti i principali partiti, nell’indagine su Parnasi sono coinvolti a vario titolo esponenti del centrodestra, del centrosinistra e dei Cinque Stelle. In un’altra intercettazione del novembre scorso, riassunta nelle carte dell’accusa, l’imprenditore arrestato dice di voler «capitalizzare il super rapporto» instaurato con il Comune di Roma «nella direzione di altri progetti imprenditoriali/immobiliari» dopo quello dello stadio. E in una conversazione di marzo, quasi si rallegra che un articolo di giornale parla di suoi presunti finanziamenti alla Lega, visto che tutti lo consideravano più vicino a personaggi del Pd: «Invece io sono comunque uno che apre».
È l’immagine di un sistema in cui la trasversalità del malaffare è diventato un valore aggiunto. Gli eventuali processi diranno se tutto questo ha fondamento o si tratta di parole in libertà (come diceva nei suoi colloqui Buzzi), che non hanno valore penale. Tuttavia, al di là dell’esito dell’inchiesta, il mosaico composto finora dai pubblici ministeri fornisce un quadro allarmante. Perché se fosse vero, vorrebbe dire che anche i ricambi più radicali servono a poco. E che forse, ancora una volta, le burocrazie e le loro antiche abitudini hanno la meglio sui più ambiziosi programmi di rinnovamento.
Probabilmente è proprio questo il cuore del problema che non si riesce a risolvere: la convinzione che la vecchia pratica delle «mazzette», seppure sotto forme che si rinnovano in continuazione anche per sfuggire ai controlli, sia l’unica via sicura per aggiudicarsi lavori e affari. Di qui i pagamenti a «mediatori nei confronti dei pubblici ufficiali», e a seguire la «promessa o dazione di denaro o altre utilità» agli esponenti politici con responsabilità amministrative. Gli inquirenti spiegano che in questa storia lecito e illecito si mescolano, annunciando nuovi sviluppi. Ma il fatto che l’indagine nasca da quella che ha portato alla sbarra il costruttore ottantenne Sergio Scarpellini, il quale ha spiegato di aver dato soldi all’ex capo del personale del Campidoglio Raffaele Marra «perché è uno che conta, mi piaceva avere un amico», la dice lunga sui metodi che si perpetuano nonostante indagini e processi.

Corriere 14.6.18
Il sistema di regali e favori
di Fiorenza Sarzanini


«Dobbiamo capitalizzare il super rapporto con il Comune di Roma»: così l’imprenditore Luca Parnasi diceva ai suoi collaboratori elencando i nuovi progetti da realizzare grazie alle ottime relazioni personali create con alcuni esponenti 5 Stelle. È quanto emerge dalle carte dell’inchiesta sul progetto del nuovo stadio di Roma.
roma L’imprenditore Luca Parnasi ormai era lanciato: «Dobbiamo capitalizzare il super rapporto con il Comune di Roma». E parlando con i collaboratori elencava i nuovi progetti da realizzare grazie alle ottime relazioni personali create con alcuni esponenti dei 5 Stelle. Il suo punto di riferimento era Luca Lanzalone, definito il suo «Wolf», come il personaggio di Pulp Fiction che risolveva i problemi. Ma molti altri si erano messi a disposizione.
Il finanziamento alla candidata
È lungo l’elenco di favori e ricompense. Al capogruppo in Campidoglio Paolo Ferrara «regala» un progetto di restyling del lungomare di Ostia perché quello è il suo collegio elettorale. Ma poi va oltre e, come scrive il giudice, «si spende in un’attività di promozione in favore del candidato alla Regione Roberta Lombardi». E in questo modo «rafforza i suoi legami con Paolo Ferrara e con Marcello De Vito, che gli hanno avanzato tale richiesta in quanto ricoprono rilevanti incarichi nell’ambito dell’amministrazione capitolina. I due svolgono un ben preciso ruolo nell’approvazione nel progetto dello stadio e Parnasi vuole creare presupposti per lo sviluppo di ulteriori progetti imprenditoriali, essendo la Lombardi, oltre che candidata alla Regione, personaggio di spicco dei 5 Stelle a livello nazionale e quindi destinata, in ipotesi di un successo elettorale della sua compagine nelle elezioni politiche, a ricoprire ruoli decisionali nel nuovo assetto che si determinerà all’esito del voto».
«Quel Berdini è pazzo totale»
Il 5 marzo scorso Parnasi è a cena con l’imprenditore Pietro Salini e il faccendiere Luigi Bisignani, al quale ha chiesto di far correggere un pezzo uscito sul sito Dagospia sulla vita privata di Lanzalone. E racconta: «Ormai con Lanzalone siamo amici, è di Genova, l’ho conosciuto in una riunione in cui ero praticamente spacciato perché avevano messo assessore all’urbanistica Paolo Berdini il quale era un pazzo totale... Ad un certo punto Raggi intuisce il fatto che poi alla fine se non avessi fatto lo stadio sarebbero stati problemi seri per lei... L’ho presentato anche a Enrico Laghi quando era sotto schiaffo per la nomina a commissario», riferendosi forse all’incarico di Laghi in Alitalia. E aggiunge: «Luca è stato messo a Roma da Grillo per il problema dello stadio insieme al professor Fraccaro e a Bonafede». Berdini, interrogato dai magistrati il 30 maggio scorso, elenca tra i motivi delle sue dimissioni il fatto che Lanzalone «svolgeva le funzioni di assessore per lo stadio». E nell’ordinanza il gip va oltre: «Le indagini hanno offerto elementi concreti per ritenere che le figure istituzionali interessate, a cominciare dal sindaco Raggi, non solo hanno tollerato tale funzione di fatto esercitata, ma al contrario le hanno dato piena legittimazione».
Il lavoro per l’assessore e i soldi a Vaglio
Uno dei più assidui con Parnasi e il suo collaboratore Giulio Mangosi è Giampaolo Gola, l’assessore allo Sport del Municipio X «che si faceva promettere da Parnasi a titolo di prezzo della propria mediazione illecita nei confronti di Ferrara un incarico lavorativo». Al telefono lo dice con chiarezza: «Luca mi ha detto che mi fa direttore commerciale dello stadio». Parnasi fa un favore da 15mila euro anche a Mauro Vaglio, il presidente del consiglio dell’Ordine degli avvocati di Roma. È il legale che Luigi Di Maio aveva inserito nel gennaio scorso nella lista dei possibili ministri definendoli «il meglio dell’Italia». I 5 Stelle erano ormai in cima alla lista, ma Parnasi evidentemente non dimenticava i vecchi amici. E così finanziava la campagna elettorale del vicepresidente del Consiglio Regionale per Forza Italia, Adriano Palozzi, che gli aveva assicurato: «Se io vinco vado a fare l’assessore in Regione e sono utile». Ma aiutava anche l’ex assessore alla Pisana Michele Civita che gli aveva chiesto e ottenuto l’assunzione del figlio in una società del gruppo.
Gli amici del Carroccio e le finte fatture
Nel 2015 Parnasi ha finanziato l’associazione «Più voci» molto vicina alla Lega. Quando un giornalista de l’Espresso ne chiede conto lui intima ai collaboratori: «Dobbiamo fare una cosa retroattiva dobbiamo dire che abbiamo fatto passaggi sulla radio», riferendosi a una finta pubblicità su Radio Padania . Poi ne parla con Bisignani.
Parnasi : «Questa è un’associazione che ha valorizzato non solo la Lega ma ha valorizzato Stefano Parisi, tutto il centrodestra diciamo... A Milano ed è stato anche un veicolo con cui io mi sono accreditato a Milano in maniera importante... Ho organizzato cene e contro cene, ho portato imprenditori».
Bisignani : «È una cosa per Salvini?».
Parnasi: « No, è una cosa fatta per creare un sistema di imprenditori, appaltatori ecc. che hanno organizzato cene per conoscere... Le ho fatte con Stefano Parisi, le ho fatte con Meloni...».

Repubblica 14.6.18
Stadio della Roma, ecco perché Virginia Raggi deve dimettersi
Il consigliere più stretto ai domiciliari. Il capogruppo in consiglio comunale indagato, insieme ad altri esponenti del M5S. Di fronte a tale sfacelo politico la sindaca eletta dopo aver giurato "onestà" rimetta il mandato
di Sergio Rizzo

qui

Repubblica 14.6.18
L'urbanista Berdini: “Non mi piegai e mi cacciarono, questa storia peggio di Mafia Capitale”
Ex assessore della giunta Raggi fino al febbraio 2017, fu allontanato per frasi ritenute offensive alla sindaca. "Ma mi avrebbero mandato via per lo stadio", disse ai giornalisti
intervista di Mauro Favale

qui

Repubblica 14.6.18
Stadio Roma, Salvini difende il costruttore che finanziava la Lega: "Parnasi persona perbene"
Il ministro dell'Interno sull'impenditore arrestato: "Spero possa dimostrare la sua innocenza". Raggi: "Se il progetto è regolare, va avanti". Martina: "Colpo pesante per l'amministrazione capitolina". Toninelli: "Chi sbaglia, paga". E Di Maio invoca i probiviri
di Giovanna Vitale

qui

Il Sole 14.6.18
La credibilità dei 5 stelle e le differenze con la Lega
di Lina Palmerini


La notizia dell’inchiesta sullo Stadio della Roma e dei nove arresti scattati ieri, è un cambio di pagina spiazzante che mette a dura prova un’alleanza appena sbocciata. È troppo presto per dire quanto sia potenzialmente pericolosa per la tenuta del Governo ma, prima ancora, lo è per la tenuta della coppia Salvini-Di Maio e dei rispettivi partiti che sul tema della giustizia hanno riflessi piuttosto diversi. E la conferma è stato il diverso modo in cui hanno reagito il leader leghista e il capo politico dei 5 Stelle: il primo ha detto di aver conosciuto personalmente uno degli imprenditori coinvolti e arrestati e di considerarlo una «persona perbene che spero possa dimostrare la sua innocenza». Il vicepremier grillino invece ha attivato i probiviri del Movimento per «accertare tutto quello che c’è sulle persone coinvolte». Insomma, almeno nelle primissime reazioni uno scarto c’è e una delle incognite è se Lega e 5 Stelle riusciranno a trovare una sintonia su come comportarsi qualora i magistrati dimostrassero una tela di corruzione che coinvolge i due partiti.
Già ora i nomi tirati in ballo sono di personaggi di un certo peso, come il presidente dell’Acea Luca Lanzalone, vicino non solo a Di Maio ma a Beppe Grillo. Una tegola vera per il Movimento che ha fatto della legalità il suo tratto identitario e che ha già in parte modificato il suo codice etico sulla base delle inchieste maturate a carico della Raggi, per esempio sull’avviso di garanzia. Adesso, la sfida è riuscire a mantenere integro quel profilo, soprattutto ora che sono al Governo, soprattutto ora che hanno fortemente voluto – e ottenuto - il ministero della Giustizia proprio per rafforzare la loro battaglia. Li attende, dunque, una prova di credibilità. Ma anche la Lega ha una doppia tegola da gestire perché – sembra – che l’inchiesta sullo stadio di Roma (e i finanziamenti a un’associazione vicina al partito) trovi dei collegamenti con l’inchiesta di Genova. E certo è difficile da immaginare che dai due giovani leader possano arrivare reazioni come quelle di Berlusconi che dietro le inchieste della magistratura leggeva sempre la trama di un complotto politico. Alla fine, i due dovranno decidere uno stesso modus operandi nel trattare le tegole giudiziarie altrimenti la giustizia può diventare un terreno di scontro.
E questo è un dilemma che riguarda soprattutto Di Maio. Non solo per la ragione già detta, che la legalità è il tratto identitario più forte del suo partito ma perché questo Governo è descritto “a trazione leghista”. Per esempio, le mosse contro Macron, le scuse pretese (e ieri non arrivate) sono state gestite interamente da Salvini mentre Conte comunque si ritroverà – prima o poi – faccia a faccia con Macron. Così come accadrà al ministro Tria che ha dovuto annullare l’incontro con il suo collega francese per tenere il punto messo da Salvini ma dal Mef hanno fatto sapere che prima dell’Eurogruppo i due si incontreranno. Ecco, un conto è “subire” Salvini sull’immigrazione, altro conto è farsi “invadere” il campo della giustizia dove i 5 Stelle non possono perdere la voce.

Corriere 14.6.18
Salvini: per me nessun limite al contante
Il vicepremier: la flat tax nel 2018, cedolare secca anche per i negozi. Niente Imu per quelli sfitti
di Andrea Ducci

ROMA Entusiasmo e applausi ricordano l’accoglienza riservata la settimana scorsa al vice premier Luigi Di Maio, durante l’assemblea di Confcommercio. Questa volta a prendersi la scena con la categoria delle piccole e medie imprese è Matteo Salvini, l’altro vice premier del governo Conte, che interviene all’assemblea di Confesercenti. Il registro è stato rodato nelle ultime settimane e muove intorno all’avvio di nuove misure fiscali. Salvini conquista i piccoli imprenditori, annunciando il suo piano in materia di tasse e rimozione del tetto all’utilizzo del contante. Il tema dell’aumento dell’Iva, del resto, è stato disinnescato da Di Maio davanti alla platea di Confcommercio, a Salvini spetta l’ulteriore tratteggio delle misure per il progetto di cosiddetta pace fiscale.
Cedolare ai negozi
Molti punti fanno parte del contratto di governo tra Lega e M5S e il vice premier li scandisce con sicurezza. «Non vengo a vendere promesse ma a parlare di quanto contenuto nel programma. Ridurremo le tasse, non aumenteremo Iva e accise, ma — aggiunge — avvieremo già nel 2018 la rivoluzione fiscale impostata sulla flat tax, partendo dai redditi degli imprenditori per poi arrivare a quelli delle famiglie». Il vice premier e ministro dell’Interno non si ferma alla dichiarazione di sforbiciata sulle tasse e spiega, per esempio, che i benefici della cedolare secca al 21% sulle locazioni delle abitazioni saranno estesi ai negozi. «Ha funzionato per portare ordine nell’affitto privato, perché non portarla anche nel settore commerciale», spiega Salvini, che aggiunge quanto sia «una follia il pagamento dell’Imu su un negozio sfitto». Musica, insomma, per le orecchie di piccoli commercianti e imprenditori riuniti ad ascoltarlo, ma che intercetta anche l’immediato favore del presidente di Confedilizia.
Pace fiscale
I contorni della pace fiscale assumono, dunque, caratteristiche più definite e si sommano a quanto ribadito da Di Maio sul fatto che spesometro e redditometro verranno aboliti, o che dovrà essere invertito l’onere della prova a carico del contribuente. Finora non esiste una stima delle coperture, né indicazione degli eventuali benefici sul fronte dei consumi grazie a una diversa pressione fiscale sui contribuenti. Salvini però è convinto che le risorse arriveranno dai maggiori margini di manovra sui conti pubblici, «ridiscutendo le regole europee». Certo è che il nuovo esecutivo procede, almeno in termini di annunci, in direzione di un sistema a maglie più larghe rispetto al passato. Con tanto di nuovo tassello: la rimozione del tetto a 3 mila euro all’utilizzo del contante nei pagamenti. A spiegarlo è Salvini che prefigura un’inedita misura rispetto al programma concordato con gli alleati di governo. «Per me — dice — non ci dovrebbe essere nessun limite alla spesa per denaro contante: ognuno è libero di pagare come vuole e quanto vuole». Un sasso nello stagno, dato che il contratto di governo non indica niente del genere e tenuto conto del discorso di insediamento del premier Conte, che ribadiva l’intenzione di dare battaglia sul fronte della lotta all’evasione, «inasprendo l’esistente quadro sanzionatorio amministrativo e penale, al fine di assicurare il carcere vero per i grandi evasori».
Un quadro che non piace al segretario reggente del Pd, Maurizio Martina. «C’è sempre stata una ragione quando si è discusso di porre dei tetti all’utilizzo del contante per combattere un pezzo importante dell’evasione. Sarebbe un errore clamoroso».

Repubblica 14.6.18
Pagare senza lasciare traccia
Il governo e la pazza voglia di contanti ma così aumentano evasione e reati
Il titolare dell’Interno dice che non ne limiterebbe l’uso,  Bankitalia che aiuta la criminalità. I grillini in silenzio
di Marco Ruffolo


ROMA Probabilmente non avrà avuto il tempo, il ministro dell’Interno Matteo Salvini, di leggere i risultati di un’indagine della Banca d’Italia su 6.810 Comuni italiani che dimostra una evidente correlazione tra l’uso del contante e il numero di reati quali traffico di droga, sfruttamento della prostituzione, ricettazione, corruzione, estorsione, e altri ancora. Avrebbe saputo che ogni 2 milioni in più di versamenti in contante, i reati della criminalità organizzata aumentano dell’1%. Il ministro non avrà letto o non avrà ritenuto interessante neppure il rapporto annuale dell’Unità di informazione finanziaria di Via Nazionale lì dove spiega una cosa che dovrebbe essere quasi scontata, ma che evidentemente non lo è: «Il contante è il mezzo di pagamento prescelto per transazioni dell’economia informale e illegale, poiché impedisce la tracciabilità e garantisce l’anonimato degli scambi». E quindi «offre opportunità per il perseguimento delle condotte a maggior rischio per il Paese, come la corruzione e l’evasione fiscale». Tutto questo evidentemente conta poco per il responsabile della nostra sicurezza, tanto da spingerlo a dire alla Confesercenti: «Fosse per me, non ci sarebbe alcun limite alla spesa in denaro contante, ognuno è libero di spendere come vuole, quanto vuole, pagando come vuole».
Silenzio dai pentastellati.
Eppure quando Matteo Renzi alla fine del 2015 decise insieme a Pier Carlo Padoan non certo di liberalizzare del tutto il contante ma di elevare da mille a tremila euro la soglia (tuttora in vigore) oltre la quale è obbligatorio usare mezzi tracciabili (carte di credito, bancomat, assegni e bonifici), i grillini fecero fuoco e fiamme accusando il governo di favorire il riciclaggio. Un regalo alle cosche, dissero.
Quella decisione di Renzi fu presa, si disse, per agevolare i consumi, che invece restarono al palo per ancora molto tempo, e suscitò non poche polemiche.
Non piacque in particolare all’Agenzia delle entrate, e questo attrito fu una delle cause che portarono all’allontanamento dell’allora responsabile dell’Agenzia, Rossella Orlandi. Ma la lobby del contante, con il suo messaggio liberatorio per tutti (semplici cittadini e commercianti, corrotti e corruttori, evasori e riciclatori), è tutt’altro che un fenomeno nuovo. Una delle prime cose che fece il duo Berlusconi-Tremonti, tornato al potere nel 2008 dopo Prodi, fu proprio quella di cancellare la misura con cui il centrosinistra aveva abbassato il tetto al contante da 12.500 a 5.000 euro. Si riallargarono le maglie, in un clima con forti analogie con quello attuale, in nome della libertà degli scambi, frenati da troppi lacci e lacciuoli. Poi, quando il bilancio pubblico cominciò a traballare, lo stesso governo Berlusconi, per poter recuperare qualcosa dalla lotta all’evasione, fu costretto a riabbassare la soglia, finché Monti la portò a quota mille, poi rialzata da Renzi. Insomma, un folle saliscendi con inevitabile confusione tra i cittadini.
Adesso è Salvini a strappare al leader di Forza Italia la bandiera della moneta libera con le stesse motivazioni di allora. Sempre davanti a un’assemblea di commercianti, nel febbraio scorso, l’attuale vice premier spiegò in poche battute la sua posizione: «Mettere un limite ai contanti ci fa perdere clienti, che vanno a fare la spesa altrove». Analisi non suffragata nella realtà da alcuna dimostrazione fattuale. Secondo gli economisti della Banca d’Italia, «l’esistenza di effetti sui consumi non è sorretta da chiara evidenza empirica».
Fin qui il dibattito in Italia. Ma cosa fanno gli altri Paesi europei? Alcuni di loro impongano limiti anche più stringenti dei nostri all’uso del cash: mille euro in Francia e Portogallo, 1.500 in Grecia, 2.500 in Spagna. Si obietta che i tedeschi, e non solo loro, continuano a non prevedere alcun obbligo. Ma si dimentica di dire che la Germania non ha lo stesso tasso di evasione, di sommerso, di corruzione e di criminalità organizzata che ha l’Italia. E come dimostra l’indagine Bankitalia citata all’inizio, più si paga cash più quelle quattro piaghe nazionali trovano alimento.
Tra l’altro, il contante da noi, dopo la parziale liberalizzazione targata Renzi, invece di ridursi, sta di nuovo aumentando, e copre l’86% di tutte le transazioni finanziarie, una percentuale che ci proietta ai primi posti in Europa. In queste condizioni, con un’evasione di oltre cento miliardi, con un sommerso pari al 25-30% del Pil, e un’attività di riciclaggio che si espande su tutta la penisola, c’è di che preoccuparsi se il ministro dell’Interno, invece di favorire la sua sostituzione con strumenti tracciabili, prefigura addirittura la sua totale liberalizzazione.

Corriere 14.6.18
L’isolamento e la necessità di una strategia di lungo termine
di Massimo Franco


Il congelamento del vertice di domani a Parigi tra il premier Giuseppe Conte e il presidente Emmanuel Macron è il frutto avvelenato ma inevitabile di tre giorni di diplomazia da dimenticare.L’attacco grossolano del governo francese all’Italia sul caso della nave Aquarius con 629 migranti a bordo non poteva non provocare una reazione italiana forte, offesa. E Matteo Salvini ha sfruttato abilmente l’incidente per descrivere un’Italia schierata con la sua politica sull’immigrazione; e per costringere alleati e avversari a allinearsi, seppure con inevitabili distinguo. Ma è doveroso chiedersi che cosa sarebbe successo se la Spagna non avesse accettato di prendersi in carico quella nave; e che cosa accadrà quando altre imbarcazioni arriveranno nei nostri mari. Rimane l’incognita sulla tenuta di una scelta che deve mettere nel conto altri passaggi difficili, e la prospettiva dell’isolamento in Europa. Oltre tutto, il fronte esterno porta tensioni con altre nazioni ma, almeno nell’immediato, consensi; in parallelo si delinea un fronte interno preoccupante, per la maggioranza. L’inchiesta della magistratura sui lavori per il nuovo stadio della Roma nella Capitale lambisce esponenti del Movimento Cinque Stelle, oltre che del Partito democratico e di Forza Italia. Evoca un comitato d’affari e una corruzione diffusa e trasversale, della quale è difficile indovinare il punto di arrivo. Per il Campidoglio guidato dalla sindaca del Movimento, Virginia Raggi, è una brutta tegola: nonostante gli inquirenti precisino che non è coinvolta. Ma dalla preoccupazione che si avverte tra i Cinque Stelle, a cominciare dal ministro Danilo Toninelli, l’impressione è di uno scandalo potenzialmente devastante. Il vicepremier e capo del M5S, Luigi Di Maio, ha già fatto sapere: «Per quanto mi riguarda, chi sbaglia paga». Matteo Salvini, invece, per ora sembra osservare la vicenda da lontano. Dice solo di conoscere il costruttore Luca Parnasi, implicato nell’inchiesta, e che gli sembra «una persona per bene». Quelle di Di Maio e Salvini sono parole insieme caute e allarmate. Riflettono il timore che le indagini oltrepassino i confini capitolini e coinvolgano l’esecutivo nazionale: tanto più col sovraccarico della rottura tra Italia e Francia. È stata annullata la visita del ministro dell’Economia, Giovanni Tria, a Parigi; e a ruota congelato il vertice di domani tra Giuseppe Conte ed Emmanuel Macron. Salvini pretendeva le scuse del presidente dopo che il portavoce dell’Eliseo aveva definito «vomitevole» il no italiano all’attracco della nave Aquarius: parole maldestre e offensive. Se a questo si aggiunge l’inchiesta sullo stadio di Roma, lo sfondo diventa più incerto. La tentazione della coalizione M5S-Lega potrebbe essere quella di additare un accerchiamento da parte di oscuri avversari. Già ieri Di Maio ha accusato la Francia di prendersela con l’Italia, mentre ha tenuto comportamenti «contro la vita umana». E ha evocato «un Paese sotto attacco dello spread e con i migranti». La sindrome di un complotto è suggestiva. Ma la storia degli ultimi anni dice che può rivelarsi un autogoal.

Repubblica 14.6.18
Poche donne il cambiamento è rinviato
di Chiara Saraceno


Cinque donne soltanto tra ben 45 tra viceministri e sottosegretari. Una percentuale più bassa di quella già ridotta tra i ministri: 5 su 18.
Il Parlamento con la percentuale di elette più alta da che le donne hanno avuto il diritto di voto ha partorito uno dei governi più maschili (e maschilisti). Persino le Pari opportunità e le Politiche per le famiglie sono affidate a uomini, il che potrebbe essere accettabile solo se significasse una condivisione di responsabilità a tutti i livelli, non la proterva affermazione di un potere squilibrato.
Ce lo si poteva aspettare, visto che nelle trattative di governo la scena è stata dominata da maschi, con l’eccezione della silenziosa presenza di Giulia Grillo, ora ministra della Salute.
Anche nel contratto di governo le Pari opportunità non appaiono tra i temi rilevanti in un Paese che pure avrebbe molto da fare in questo campo. E delle donne si parla solo come potenziali madri e addette alla cura dei famigliari, mentre ci si appresta a colpirle riformando la legge Fornero.
La famosa “quota 100”, infatti, sarà irraggiungibile per molte donne dalla carriera lavorativa interrotta proprio a motivo delle loro responsabilità di cura.
Ce lo si poteva aspettare, ma è sconcertante, vista non solo la composizione del Parlamento, ma anche degli eletti del partito di maggioranza nella coalizione di governo. Il M5S ha in Parlamento la più alta percentuale di donne rispetto agli altri partiti, superando il Pd, che nelle passate legislature deteneva il primato e ne faceva una bandiera, salvo buttarla alle ortiche (con la complicità di alcune donne) in questa tornata per salvaguardare più maschi possibile a fronte di una sconfitta certa.
Il M5S ha anche una composizione mediamente giovane e senza interessi consolidati, che ha fatto del rinnovamento e della lotta contro “l’establishment” la sua battaglia.
Evidentemente scalzare asimmetrie di genere nella gestione del potere non rientra nel rinnovamento. E l’occupazione maschile dei posti che contano non rientra “nell’establishment”. Del resto, anche la leadership del Movimento è tutta rigorosamente maschile.
Nel 2016 l’Italia era il Paese che aveva migliorato di più la propria posizione nell’indice di uguaglianza di genere nella Ue, pur rimanendo a metà classifica.
Questo risultato era dovuto a un forte aumento della partecipazione delle donne al potere decisionale, in particolare in Parlamento, nel governo (quello Renzi, con metà ministri donne) e nei consigli di amministrazione delle società quotate in Borsa. Se l’indice venisse ricalcolato oggi, temo che l’Italia tornerebbe indietro, senza che il peggioramento in sede politica sia controbilanciato da miglioramenti in altri campi, quali l’occupazione, le politiche di conciliazione famiglia-lavoro, la violenza.
A fronte dei problemi nei rapporti con l’Europa, delle migrazioni, della tenuta della nostra economia, la presenza di donne al governo può apparire di secondaria importanza. In effetti, nei governi Renzi e Gentiloni non abbiamo visto grandi politiche a favore delle Pari opportunità. È prevalsa, tra le ministre, la difesa della propria posizione e dei rapporti privilegiati con chi le aveva scelte, rispetto alla definizione di un’agenda che consentisse il consolidamento degli equilibri raggiunti e il miglioramento delle condizioni per tutte, in tutti i settori. L’assenza di questa agenda e di un discorso pubblico sulla necessità di superare le asimmetrie tra uomini e donne, sia per una questione di giustizia (e fedeltà costituzionale) sia perché è un prerequisito del benessere equo e sostenibile, credo sia tra le ragioni per cui non solo oggi abbiamo poche donne al governo. Abbiamo anche un governo che si basa sul rancore, sull’opposizione tra loro e noi, con un programma che aggraverà gli svantaggi di chi è già in difficoltà. Sono importanti i numeri, ma soprattutto l’agenda.

Repubblica 14.6.18
Austria e Seehofer (Cdu) pro Salvini
Tedeschi divisi Merkel nel mirino dell’asse nero
di Tonia Mastrobuoni


BERLINO Il tentativo merkeliano di un’intesa europea sull’immigrazione si sta scontrando con una mini armata nera costituita dall’Italia, dall’Austria e del ministro dell’Interno tedesco, costruita sull’idea di allargare i muri ai confini, di rafforzare i respingimenti e di smistare i profughi in Paesi terzi, secondo indiscrezioni anche in Albania.
Ed è un’idea che sta facendo precipitare la Germania nella peggiore crisi politica dall’insediamento del nuovo governo, tanto che qualche giornale evocava ieri lo spettro di elezioni anticipate.
Mai come in queste ultime 48 ore i rapporti tra Merkel e il suo ministro dell’Interno, Horst Seehofer (Csu) sono scivolati sull’orlo della rottura. E guarda caso, la spaccatura si è aggravata durante la due giorni a Berlino del cancelliere austriaco, Sebastian Kurz, che ha contribuito a gettare benzina sul fuoco. Il risultato è una frattura che si è palesata nella conferenza stampa congiunta tra Seehofer e Kurz. Anche se dietro i focosi annunci di unità di intenti, i due hanno glissato elegantemente su una domanda cruciale. Che nasconde una possibile frattura tra bavaresi e austriaci.
La cancelliera ripete da due giorni che sul tema dei migranti bisogna cercare l’unità con gli altri partner europei. E ha sottolineato ieri che la questione migratoria “è la cartina di tornasole per il futuro dell’Europa”. Seehofer, invece, ha annunciato, dopo aver parlato al telefono con Matteo Salvini e vis-a-vis con Kurz, la nascita di un’alleanza a tre, dei ministri dell’Interno di Germania, Austria e Italia per «lavorare insieme nell’ambito della sicurezza, della lotta al terrorismo e nel settore cruciale dell’immigrazione». Uno schiaffo in piena faccia alla cancelliera da parte di uno dei suoi ministri più pesanti.
Il cancelliere austriaco ha pienamente confermato lo strappo: «Dal nostro punto di vista, abbiamo bisogno di un asse dei volenterosi per batterci contro l’immigrazione illegale».
E pazienza se “asse” suona un tantino stonato, se si include l’Italia e se si governa in casa con l’estrema destra. La cancelliera ha replicato che «oltre all’Italia», tra i Paesi «molto esposti alla migrazione, ci sono anche la Grecia e la Spagna in una certa misura, e quindi ritengo che vi debbano essere più di una cooperazione del genere».
Merkel ha ripetuto che «nessun Paese dovrebbe esser lasciato solo» a fronteggiare i flussi migratori e che in questo Berlino «sostiene l’Italia, che è un partner importante per la definizione di una soluzione europea». Insomma, ha insistito sulla convergenza a 27 e ha fatto intendere a Roma che sarebbe più saggio allearsi con leader politici che hanno problemi simili, invece di cercare sponde in Paesi che finora hanno aggravato l’emergenza italiana come l’Austria o l’Ungheria.
E in effetti, ciò che le nuove “potenze” sull’“asse” Vienna-Roma-Monaco di Baviera - in rotta con la merkeliana fanno finta di ignorare, è che se Seehofer dovesse imporsi su Merkel, l’armonia nell’“asse” potrebbe durare poco. In vista delle elezioni dell’autunno prossimo in Baviera, avendo il fiato sul collo dell’Afd, la Csu sta spingendo per la linea dura sull’immigrazione. Così l’altroieri si è consumata una prima, grave rottura con Merkel sul “Piano per i profughi” che il ministro dell’Interno voleva presentare alla stampa e che conteneva un’atomica, per la cancelliera.
Seehofer vuole introdurre possibilità di respingere i richiedenti asilo al confine. E alla frontiera della Baviera, Kurz dovrebbe ricordarsene, e Salvini a cascata, c’è un lungo pezzo di Austria. In conferenza stampa, i due hanno fatto finta di nulla.
Ma in ogni caso, anche negli equilibri interni, quella proposta è una mina. Un no-go su cui la cancelliera si è giocata la sua carriera politica negli ultimi tre anni, rifiutando qualsiasi ipotesi di tetto ai profughi e resistendo a qualsiasi proposta di un rimpatrio diretto alle frontiere.

Repubblica 14.6.18
Nasrin Sotoudeh
Arrestata in Iran l’avvocatessa dei diritti umani
di Francesca Caferri


Dopo l’esilio auto-imposto della sua amica, mentore e collega Shirin Ebadi, era diventata il simbolo della difesa dei diritti umani nel suo Paese, l’Iran: una responsabilità che comporta rischi enormi, come aveva già toccato con mano di persona, passando tre anni in prigione.
L’esperienza l’aveva provata, ma non piegata: aveva continuato a lavorare e per questo è stata di nuovo punita. Nasrin Sotoudeh, 55 anni, avvocatessa, premio Sakharov nel 2012, è stata arrestata ieri nella sua casa di Teheran: secondo quanto riferito dal marito, a portarla in carcere è stata una vecchia condanna a cinque anni, di cui la donna non conosceva neanche l’esistenza. A provocarla, la protesta pacifica che Sotoudeh aveva intrapreso nel 2014 per riavere la licenza di lavoro che le era stata revocata. Trasferita nel carcere di massima sicurezza di Evin, Sotoudeh è soltanto l’ultima di una lista di avvocati sgraditi al regime finiti in prigione negli ultimi mesi. A scatenare la reazione del governo nei suoi confronti, sarebbe stata la presa di posizione contro una recente riforma che prevede per gli accusati di reati di opinione la possibilità di essere difesi soltanto da un numero limitato di legali – 20 in tutto, su 60mila registrati – pre-selezionati dalle autorità giudiziarie. Sotoudeh aveva protestato contro la norma, definendola una violazione dei diritti degli imputati. Soltanto l’ultima di una serie di azioni e prese di posizioni pubbliche - come la scelta di continuare a lavorare con la Ebadi, in esilio in Gran Bretagna - che l’hanno resa invisa alle autorità.
Non è la prima volta che l’avvocatessa paga un prezzo alto per le sue battaglie: era stata arrestata nel 2010 con l’accusa di diffondere propaganda e cospirare contro la sicurezza dello Stato. Nel 2011 fu condannata a 11 anni di carcere e sospesa dal lavoro per 20 anni.
La sentenza fu poi ridotta in appello a sei anni e il divieto di lavorare come avvocato a dieci anni. In quella fase, le fu conferito il massimo riconoscimento europeo in tema di pace e diritti umani, il premio Sakharov appunto.
In seguito alla vittoria del moderato Hassan Rohani alle presidenziali nel 2013, l’avvocatessa era stata rilasciata e dopo poco aveva intrapreso la battaglia per riprendere a lavorare che l’ha condotta ora in carcere. Il suo ultimo caso era stato la difesa delle ragazze arrestate negli ultimi mesi con l’accusa di aver scoperto il capo in pubblico, togliendo il velo islamico, obbligatorio per legge per le donne in Iran. «È una battaglia per le nostre libertà fondamentali, non le lascerò sole», aveva detto a Repubblica in quella occasione. La speranza ora è che a restare sola non sia lei.

Corriere 14.6.18
Il dono del Tikkun che salverà Gaza
L’arte di riparare il mondo
di Yaniv Iczkovits


Mio nonno, Moshe Iczkovits, non era registrato nelle liste dei tedeschi, eppure salì su un trasporto diretto ad Auschwitz. Salì sul treno della morte per seguire la sua amata, senza poter immaginare quale sorte li aspettava. All’arrivo mio nonno era destinato a morire, ma un medico del campo di Auschwitz ebbe pietà di lui e modificò il numero che aveva sul braccio. Fu così che mio nonno si salvò e fu spedito in un campo di lavoro. Dopo la guerra, quando tornò alla cittadina dov’era cresciuto, si rese conto di non poter restare oltre nella terra dove era nato.
Il suo Paese l’aveva tradito. Israele rappresentò il suo tikkun, la sua riparazione. Quando nacqui all’ospedale Soroka di Beersheva, negli anni Settanta, insieme a me erano nati altri bambini, arabi, figli di persone del posto, a cui il nonno raccontò una storia del tutto diversa. Vivevano in paesi e città della Palestina, finché un giorno scoppiò la guerra e furono costretti ad abbandonare le loro case. Alcuni raccontano di essere scappati per paura, altri che gli ebrei li cacciarono dalle loro abitazioni. Comunque sia andata, il giusto tikkun ottenuto dagli ebrei con la fondazione dello Stato di Israele significò la catastrofe per molti figli di questa terra. Il tikkun di un uomo è la catastrofe di un altro e ancora oggi non si è trovata la riparazione per questa parte del mondo. Noi israeliani abbiamo imparato a convivere con il conflitto come si convive con un tumore. Periodicamente ricominciamo l’ennesimo aggressivo ciclo di sedute di chemioterapia, da terra o dall’aria, ma ogni volta il tumore colpisce un’altra parte del corpo. Un tempo c’erano infiltrazioni dalla Striscia di Gaza, e abbiamo costruito le recinzioni. Poi è stata la volta dei missili Qassam, e ci siamo riparati sotto una Cupola di Ferro. Dopodiché hanno scavato i tunnel e noi abbiamo levato una barriera. Adesso è la volta degli aquiloni che incendiano i nostri campi. Forse inventeremo il frumento che non brucia. Chi lo sa come andrà a finire. Per quanto noi possiamo inventare e perfezionare, nessun tikkun arriverà. Le due parti sono troppo occupate a fare paragoni e discutere di chi ha sofferto di più e a quali privilegi questo gli dà diritto.
Nel corso degli anni, i politici hanno tentato di disegnare mappe, definire linee di confine e firmare accordi parziali. Nessuno si occupa più di ciò che costituisce il cuore del conflitto: il dolore dei due popoli. Si tratta di un ottimo esempio di completo fraintendimento del concetto di tikkun: questa terra non richiede mappe, bensì una consapevolezza condivisa. Non un coinvolgimento internazionale, ma fiducia. Non unilateralità, collaborazione. L’ultimo romanzo che ho scritto («Tikkun o la vendetta di Mende Speismann per mano della sorella Fanny») viene a rammentarci che il tikkun nell’anima di un uomo, o nello spirito di un popolo, non può avvenire se non si rovista nelle ferite. Il tikkun richiede di superare i confini, di uscire dalla zona di comfort. Ci costringe a fare qualcosa che non abbiamo mai fatto. Ci obbliga a riconoscere quello che abbiamo sempre cercato di dimenticare. Ci invita a raccontarci una storia diversa da quella a cui siamo abituati.
È questa la grande forza della letteratura. Mentre la realtà produce giustificazioni e spiegazioni su quanto avvenuto, su cosa bisogna fare e come bisogna reagire, la letteratura esige attenzione. La realtà ci incanala subito verso la nostra visione, la letteratura impone di cancellare i confini. Mi ricordo un giorno, ero impegnato come riservista nella Striscia di Gaza e mi trovavo a un posto di blocco a osservare «i miei nemici» attraverso un binocolo. D’un tratto nel cortile di una delle case ho visto un papà di Gaza giocare a calcio con i figli e le figlie.
Ricordo di essere rimasto stupefatto di fronte a quel quadretto così banale. I miei occhi non erano avvezzi a scene simili. Le mie orecchie non erano abituate a udire scoppi di risa dall’altra parte. Sono rimasto a fissare per ore quella famiglia che nemmeno sapeva di essere osservata, come se si trattasse di un miracolo. È questo che succede quando le persone sono rinchiuse nei loro confini. La comprensione basilare, naturale, dell’umanità dell’altra parte, diventa quasi impossibile. Ecco, oggi sia da parte degli israeliani sia da parte dei palestinesi non avvengono molti miracoli, e le barriere si fanno sempre più alte. Eppure alla base di tutto, volendo essere ottimisti per un momento, sia nella storia israeliana sia nella storia palestinese ci sono dolore e giustizia. Le storie sono lì, aspettano qualcuno che faccia il primo passo e attraversi il confine. Per quanto la soluzione del conflitto sembri impossibile da un punto di vista diplomatico e storico, per quanto la sicurezza paia irraggiungibile. Alla fine due persone, un palestinese e un israeliano, si troveranno una di fronte all’altra, alzeranno gli occhi dalle mappe, si guarderanno negli occhi e diranno: noi vogliamo la riparazione, vogliamo il tikkun.
(Traduzione di Raffaella Scardi)

il manifesto 14.6.18
Emily Dickinson, il mistero della poesia
Al cinema. «A Quiet Passion»,il nuovo film di Terence Davies, ripercorre la vita e le scelte della poetessa tra emancipazione e moralismo. Cynthia Nixon dà il volto a una figura femminile chiusa nella solitudine e nell’insuccesso dei suoi versi
di Beatrice Fiorentino


Il titolo è A Quiet Passion, ma avrebbe potuto anche essere «A Quiet Rebellion». La ribellione quieta di Emily Dickinson, protagonista del biopic di Terence Davies che torna, a sedici anni da La casa della gioia a immedesimarsi nello sguardo di un personaggio femminile. Ancora memoria, ancora famiglia e tormenti esistenziali indagati con coerenza di pensiero e di forma dal regista settantaduenne, in una sorta di transfert con una donna solitaria, come si evince fin dalla prima emblematica sequenza, che racchiude il senso di un’intera «vita minore» segnata dall’intransigenza, dal rigore morale, ma anche da una spinta verso l’emancipazione decisamente fuori dagli schemi per l’epoca.
Il racconto  comincia in collegio. Un collegio religioso dell’America puritana dell’Ottocento. Ambiente disadorno, luce claustrale, sopra alla figura della rigida istitutrice si staglia un crocifisso. Campo e controcampo. Da una parte l’istituzione, dall’altra un gruppo di giovani donne chiamate a una scelta: a destra le timorate, che scelgono di abbracciare la salvezza nella parola di Dio; a sinistra quelle che sperano un giorno di trovarla. E al centro Emily. Sola. Inclassificabile. Inesorabilmente destinata a una vita da outsider.
C’è qualcosa di contraddittorio nella figura di Emily Dickinson e nella sua visione a tratti dicotomica dell’esistenza, che si traduce proprio in quella condizione di isolamento che il regista esemplarmente sottolinea nelle prime inquadrature. Una condizione autoinflitta in contrasto con l’immagine «rivoluzionaria» di una giovane donna che in tempi di evangelizzazione e di pensiero cristiano (le parole ricorrenti sono Dio, preghiera, anima, peccato, inferno), quando la possibilità di scelta spaziava al massimo tra il matrimonio e la depressione (non sempre in antitesi), non si mostra remissiva, non si piega a una fede religiosa che anzi rivendica di non possedere, né cede al comportamento pio che si converrebbe a una signora del suo rango. Dickinson (che ha il volto di Cynthia Nixon, prossimamente candidata alle primarie dem per la corsa al posto di governatore di New York) è, a tutti gli effetti, una borghese progressista. Si dimostra femminista ante-litteram, aspira a un amore in cui uomo e donna si rapportino alla pari, vagheggia un’uguaglianza tra i sessi allora impensabile.
Eppure, alla morte del padre, sceglie la via della clausura, si chiude in camera di bianco vestita, nella casa di famiglia, lasciando ostinatamente la vita e il caos del mondo al di là di una candida tenda di pizzo fino al sopraggiungere della morte, che la coglie nel suo letto per una nefrite a soli 55 anni. Perché una donna che legge Cime Tempestose e rifiuta l’ipocrisia della società opponendosi alla «disubbidienza in segreto» decide di chiudersi in una gabbia? Perché il suo rigore morale si inacerba al punto da prendere la deriva del moralismo bigotto? Forse perché anziché omologarsi, Dickinson intraprende appunto la via di una «quieta ribellione», che si radicalizza in un contro-pensiero che passa attraverso la parola (la poesia) e il corpo (negato), rassegnata all’idea di un’esistenza solitaria e all’insuccesso dei suoi versi. Il suo è sì un pensiero laico e terreno, ma è tuttavia privato (non privo) di ogni sensualità. Davies ne asseconda l’austerità. La forma rigorosa, la scrittura in tre atti, i chiaro-scuri, la macchina da presa inchiodata a terra, sono espressione di uno stato d’animo comunque avvolto da un mistero insondabile. I titoli di coda che scorrono sulle note dissonanti di The Unanswered Question (del compositore Charles Ives, i cui brani musicali, come i versi di Emily Dickinson, rimasero ignorati finché fu in vita) sono forse l’unica risposta possibile.

Corriere 14.6.18
In un anno solo 458 mila neonati È il record negativo dall’Unità d’Italia
Il dossier dell’Istat: il calo in atto da dieci anni. Anche gli stranieri fanno meno figli
di Alessandra Arachi


ROMA Sono dieci anni che in Italia nascono sempre meno bambini. Ma la cifra di denatalità che ha segnalato ieri l’Istat è il nuovo minimo storico dall’Unità d’Italia: nel 2017 ci sono state soltanto 458 mila culle che hanno avuto il dono di essere riempite.
Con questo trend, va da sé, la popolazione diminuisce. Nel 2017 siamo stati 105 mila 472 in meno rispetto al 2016, e ci ha salvato il saldo attivo che la popolazione straniera ha dentro il nostro Paese, altrimenti saremmo sotto di quasi 203 mila unità.
Sono solo due anni che il saldo della nostra popolazione ha il segno negativo — con sempre tanti più morti e sempre tanti meno nati. Ma ci fanno sapere che è un destino inesorabile.
È infatti un fenomeno che i demografi chiamano il «declino della popolazione» e al quale, adesso ci avvertono, dobbiamo abituarci. Il declino sarà sempre più declino almeno per i prossimi venti-trent’anni, ovvero fino al 2040-2050.
È inesorabile, questa tendenza. Perché nascono sempre meno bambini e questo non soltanto perché non si vogliono (o non si possono) fare i bambini. C’è anche una questione strutturale, ineluttabile: le donne in età fertile sono sempre meno. Per dirla con le parole della statistica: le «baby boomers», la fortunata generazione del dopoguerra, stanno lasciando il posto alle «baby buster», le giovani spesso precarie di oggi. E la piramide della popolazione si va sempre più rovesciando.
La mancanza di bambini si fa sentire in maniera sempre più pesante. Basta guardare l’indice di fertilità per capire, ovvero il numero di figli per donna: da anni è ormai bloccato sull’1,34. E, anche qui, se non ci fossero le donne straniere sarebbe pari a 1,22.
Del resto dei poco più di 458 mila bimbi nati in Italia nel 2017, quasi uno su quattro è nato da genitori stranieri o da almeno un genitore straniero. Per la precisione : sono 68 mila quelli nati da entrambi genitori stranieri — comunque in calo rispetto al 2016 — e poco più di 30 mila da almeno un genitore straniero. E non è un caso che la popolazione straniera in casa nostra sia l’unica a registrare un saldo positivo (+ 61 mila).
Non dimentichiamo che in Italia risiedono persone di circa duecento nazionalità, nella metà dei casi si tratta di cittadini europei (2,6 milioni). La cittadinanza più rappresentata è quella rumena (23,1%) seguita da quella albanese (8,6%).
Calano le nascite, aumentano i decessi. È normale che succeda in un Paese con una popolazione come la nostra. In Italia, infatti, è quasi un individuo su quattro che ha più di 65 anni, il 22%, e non dimentichiamocelo che siamo il Paese più vecchio al mondo dopo il Giappone. È così che nel 2017 i decessi hanno toccato quota 650 mila, 34 mila in più rispetto al 2016.
C’è un’oasi di fertilità nel nostro Paese, la provincia autonoma di Bolzano. Soltanto qui il tasso di crescita ha davanti un segno più: +1,8 per mille. Un contraltare inquietante per l’anziana Liguria dove il tasso di crescita del -8 per mille. Il tasso di crescita nazionale è di -3,2%, e a parte il picco della Liguria, vanno segnalati i -5 per mille di regioni come il Molise e l’Umbria, il Friuli Venezia Giulia, Piemonte e Marche.

Corriere 14.6.18
I pregiudizi (nel diario privato) di Einstein sui cinesi
di Giulio Giorello


«Una stagione buia per l’Europa» a detta di Einstein erano gli Anni 20 del Novecento. Il 24 giugno 1922 Walther Rathenau, ministro degli Esteri della Repubblica di Weimar, un ebreo di grande cultura e sensibilità, era stato assassinato. L’8 ottobre di quell’anno, Albert Einstein e la sua (seconda) moglie partivano per l’estremo oriente; sarebbero tornati a Berlino solo nel febbraio del 1923. Il loro viaggio era cominciato con brevi visite a Colombo, Singapore, Hong Kong; il 10 novembre 1922 un quotidiano cinese annunciava il loro arrivo a Shanghai. Il giorno dopo quello stesso giornale informava che Einstein era costretto da impegni improrogabili a recarsi immediatamente in Giappone. Sembra però che la coppia sia ripassata per quella grande città della Cina dal 31 dicembre 1922 al 2 gennaio 1923. La stampa cinese aveva salutato Einstein come una figura «venerata come un maestro dagli studenti di Europa, America e Asia». La pubblicazione in inglese dei diari di viaggio di quell’irriverente maestro per Princeton University Press ci fa vedere un tratto molto particolare di una figura che è considerata una vera e propria icona della scienza. La sorpresa però ci lascia l’amaro in bocca. Per Einstein i cinesi sono gente «piuttosto ottusa» e nemmeno i bimbi sono risparmiati. Ma l’aspetto forse peggiore dei giudizi di Einstein riguarda il timore che «questa gente prevalga su tutte le altre razze». Non manca in queste annotazioni una notevole vena di misoginia, perché Einstein non sembra riuscire a capacitarsi di come maschi e femmine in Cina riescano a distinguersi l’uno dall’altro e che queste possano venire apprezzate da coloro che diverranno i loro mariti. È vero che i diari di Einstein erano una scrittura rigorosamente privata; ma la loro comparsa in una versione per il grande pubblico mostra quanto il pregiudizio possa essere perverso anche in chi è un grandissimo scienziato. Che è grande non per degli stupidi pregiudizi ma nonostante loro.