il manifesto 10.6.18
Jörg Rüpke sulla religione romana, cautele e distanza
Storia
antica. Dall’età del ferro al cristianesimo, lo studioso tedesco scrive
una «nuova» storia della religione a Roma e nel Mediterraneo: densa,
«correct», talvolta opaca
Piccolo altare (arula) votivo, IV-II secolo a.C., da Roselle, Grosseto, Museo archeologico e d'arte della Maremma
di Carlo Franco
Scegliere
le copertine è un’arte. Nell’edizione italiana di Jörg Rüpke, Pantheon
Una nuova storia della religione romana (Einaudi «La Biblioteca»,
traduzione di Roberto Alciati e Maria Dell’Isola, pp. XVI-496, € 34,00),
la cupola del Pantheon che campeggiava nell’edizione inglese è stata
sostituita da un’immagine della cosiddetta Tomba delle danzatrici da
Ruvo di Puglia. Un reperto riferibile alla Magna Grecia dei Peucezi, più
che a Roma, ma che evoca un rito e un contesto di culture in dialogo, e
come partenza va bene. Di Rüpke, Einaudi pubblicò nel 2004 una
introduzione abbastanza sistematica a La religione dei romani, uscita in
Germania nel 2001: che cosa è dunque «nuovo» nel volume ora uscito?
Anzitutto un lavoro di ricerca ininterrotto: nelle oltre cinquanta
pagine fittissime di bibliografia sono citati oltre novanta contributi
scritti dall’autore tra il 1987 e oggi. Il rapporto con il libro del
2001 non viene esplicitato. L’attuale cerca un chiarimento teorico dei
fondamenti, più che una descrizione dei fenomeni. Non ci sono quindi
trattazioni analitiche sulle singole divinità (anche perché, si osserva,
esse erano «segni religiosi » in larga misura «intercambiabili», forme
parziali di un’idea generale). Da un materiale di analisi ricchissimo è
derivata una sintesi assai densa, che molto comprime e molto lascia
inespresso. Inevitabile il tono un po’ apodittico: si sarebbe preferita
una più ampia articolazione, piuttosto che il rinvio alla bibliografia
(non tutti leggono stando in biblioteca).
L’analisi segue un filo
cronologico, dall’età del ferro all’affermazione del cristianesimo (IX
a.C.-IV d.C.), per spiegare come la religione passò da un «agire» a una
identità. Si parte dai depositi votivi, si passa alla strutturazione di
luoghi privilegiati per il dialogo con le potenze superiori, con
attenzione alle dinamiche sociali, ai segni di status degli uomini.
Quindi si ragiona delle pratiche religiose, per quanto ricostruibili: e
si sottolinea quanto esse valessero anzitutto per l’autodefinizione
degli individui (ad esempio dei «sacerdoti» romani e del loro ruolo
sociale). La comunicazione è la chiave di lettura più stimolante, cui
sono ricondotti aspetti dell’azione religiosa «tra umani» come i ludi,
ma anche i prodigi e gli auspici (segni divini «non richiesti», oppure
sollecitati e interpretati da esperti). Molto giustamente si rimarca la
differenza tra la percezione di quanti sono formati entro le religioni
«del libro» e l’esperienza degli antichi, alle prese con un sapere
orale, fluido, precario, irregolare. Un sapere sistematizzato solo tardi
e in parte, senza divenire davvero stabile, attraverso strumenti (i
libri) destinati a pochi. L’età augustea fu un passaggio importante,
anche per l’efficace (ri)creazione di rituali e la suggestiva
disseminazione di edifici di culto in Roma. Più in generale, al
principio dell’età imperiale divenne visibile (e urgente) la questione
relativa a esperienze, concezioni, pratiche «di ogni singolo individuo».
Si entrò nell’età della «religione vissuta», che conosciamo meglio, ma i
cui fenomeni restano sfuggenti.
Variegata mobilità sociale
Come
venivano compresi da parte degli attori gli spazi o gli utensili
religiosi? Quale apparato di segni marcava la «situazione eccezionale»
della morte? L’esperienza degli antichi aveva aspetti a noi del tutto
estranei. E intanto, la variegata mobilità sociale propria dell’età
imperiale importava nuovi dèi nel già affollato panorama del politeismo.
La fortuna di Iside, Mitra, Gesù, Apollonio di Tiana o altri santoni
dipese dalla tendenza a innalzare il «livello emotivo» dei fedeli.
Soprattutto nella «cultura popolare» guadagnarono spazio (o si fecero
piú visibili) credenze «irrazionali», culti che implicavano esperienze
«intense e fisiche», mediati da vari «fornitori» di esperienza
religiosa, di varia qualità. In quello stesso periodo, anche gli
imperatori romani «divennero dèi», per dirla con Arnaldo Momigliano, e
non fu passaggio facile. Una sostanziale opacità dei meccanismi rese
possibile, forse, onorare e riconoscere lo status speciale dell’Augusto
anche senza «credervi» appieno, poi il tempo comportò una progressiva
sistematizzazione, e rese piú «plausibile» la qualità divina
dell’imperatore. Ma per quest’epoca imperiale, forse, contava un fatto
nuovo: «la lettura o l’ascolto furono di gran lunga le pratiche
religiose più importanti». I libri determinarono esiti di grande
importanza, perché da essi, prima che dalle comunità, venne anche
l’«invenzione» del cristianesimo. E così, alla fine, «da un mondo in cui
si agiva religiosamente se ne è generato un altro in cui si possedeva
una conoscenza religiosa e si poteva aderire a una fra le molte
religioni possibili», con identità e pratiche riconoscibili.
Evidente
nel libro di Rüpke è l’impegno a evitare concetti acquisiti e
teleologismi impropri: si nota che «non ci si deve concentrare sul
sistema ideologico che è stato costruito dagli osservatori, interni ed
esterni, e che gli individui possono solamente fare proprio in maniera
parziale e imperfetta, bensì si deve partire dalla religione antica
vissuta, nelle sue varianti». Importa studiare la «competenza» religiosa
(chi detiene il sapere, e in quale forma), l’«agire», le forme della
comunicazione (preghiera, offerta, sacrificio). La prudenza metodica
porta a sottolineare piú volte le lacune della nostra conoscenza e
comprensione, le molte difficoltà interpretative, i pericoli del lessico
anacronistico: per questo, invece di dèi o fedeli o credenti, nella
prima parte del libro si parla di «attori» coinvolti in una situazione:
attori superiori «invisibili, muti, inattivi o semplicemente assenti,
persino non esistenti» e attori umani. Si evitano asserzioni
«essenzialiste», si preferisce lo studio dei modi in cui i gruppi
definirono (o furono definiti) nella propria identità religiosa.
Atteggiamento tacitiano
La
cautela cresce nell’ultima parte del libro, dedicata al cristianesimo.
Ci si sforza di «prendere le distanze» dalla materia, perseguendo una
sorta di anthropologically correct. Il risultato è, nei casi migliori,
tacitiano: «attorno all’anno 30 d.C., in Palestina, entrò in scena un
uomo chiamato Gesú, caratterizzato da un atteggiamento
profetico-apocalittico e che infine venne giustiziato» (da confrontare
con Tacito, Annales, 15.44). In altri casi è provocatorio (gli «atti dei
màrtiri … furono come i romanzetti d’appendice»), in altri ancora
opaco. Dire che il celebre «artigiano» Paolo di Tarso fu spinto a
viaggiare soprattutto «dalla necessità di trovare continuamente nuovi
clienti per i suoi prodotti senza dubbio di alta qualità» sembra un
sogghigno laicista, ma è un richiamo al legame tra Paolo e i tessitori
di Tarso. Gli effetti sulla leggibilità non sono positivi, per effetto
della forte sintesi e delle scelte traduttive. Il libro deriva da un
testo inglese (Princeton UP 2018), a sua volta tradotto dal tedesco
(Beck 2016). Artifex (male) additus artifici, si direbbe. La mimesi di
secondo grado ha lasciato segni non lievi sul testo, con passaggi
decisamente ardui. A parte errori conclamati («la soppressione … delle
rivolte … distrussero»), espressioni ambigue («sulle» (?) bocche degli
antenati «c’era l’abitudine di porre rivendicazioni attuali»: in quale
lingua s’intende «attuali»?), e momenti oscuri (nella «strategia del
testo invisibile, spesso in forma pseudoepigrafica …l’anonimato dello
scrittore ha autorizzato i riceventi»), alcuni passaggi sfiorano il
sesto grado. «Anche qui la religione sembra aver fatto la sua parte nel
permettere e nel definire una territorialità con un livello di
sistematizzazione relativamente elevato: difficilmente chiunque era
titolato a portare in questo luogo la sua statuetta» (si parla, come
ciascun vede, di nuraghi). «L’attività religiosa, anche nelle forme
istituzionalizzate, ammontava a piú dell’uso razionale della risorsa che
era interamente calcolabile, poiché gli attori non innegabilmente
plausibili difficilmente intervenivano di proprio accordo, e le regole
dall’azione rituale rimasero solide». «Quando la comunicazione religiosa
si riferiva ad attori che, mentre si collocavano oltre la disposizione
degli individui e della loro società specifica, comunque allo stesso
tempo vi facevano riferimento, le pratiche religiose furono costrette a
reagire alle conseguenti, piú complesse stratificazioni delle identità
sociali e politiche». Astrazioni, concettualizzazioni e periodare non
concinno non aiutano. Difficile sfuggire alla conclusione che questo
modo di esprimersi, per concorrente responsabilità dell’autore e dei
traduttori, non trasmette la grande ricchezza che il volume certamente
contiene.