domenica 10 giugno 2018

Corriere La Lettura 10.6.18
Riformatore o corruttore? Giolitti ancora sotto inchiesta
Sergio Bucchi: era pronto a ogni compromesso per restare al potere
Fulvio Cammarano: fu il difensore delle istituzioni rappresentative


Saggio riformatore o «ministro della mala vita»? Novant’anni fa, il 17 luglio 1928, moriva Giovanni Giolitti, lo statista liberale che aveva dominato la scena politica nei primi anni del Novecento. Nato nel 1842, già primo ministro per un anno tra il 1892 e il 1893, si era affermato come protagonista a partire dal 1901, tanto che il periodo successivo è noto sotto il nome di era giolittiana. Dominatore indiscusso del Parlamento, innovatore cauto e misurato, aperto al confronto con il socialismo riformista, Giolitti fu però violentemente avversato non solo dai rivoluzionari di sinistra e dai nazionalisti di destra, ma anche da chi riteneva che la sua visione compromissoria e la sua spregiudicatezza nel procurarsi il consenso dei deputati avessero un effetto corruttore sulla vita pubblica.
La disputa si è poi trasferita a livello storiografico: il giudizio sull’epoca giolittiana resta un punto controverso nella vicenda italiana unitaria. Per approfondirlo, «la Lettura» si è rivolta a due studiosi di opinioni diverse. Fulvio Cammarano rappresenta un punto di vista favorevole a Giolitti. Sergio Bucchi ha curato l’edizione più recente del libro Il ministro della mala vita (Bollati Boringhieri, 2000), nel quale il meridionalista Gaetano Salvemini polemizzava duramente contro Giolitti. Proprio da quell’atto di accusa parte la discussione
SERGIO BUCCHI — Sconfitta la reazione di fine secolo, che nel 1898 aveva visto l’esercito sparare sulla folla a Milano, Salvemini, allora socialista, chiede al Psi, protagonista della battaglia contro la fallita svolta autoritaria, di impiegare la forza del proletariato organizzato per trasformare il Paese in senso democratico. Mette le riforme politiche davanti a quelle sociali, invoca il diritto di voto anche per gli analfabeti, il suffragio universale. Ma il Psi non lo ascolta: tutela gli interessi dei lavoratori del Nord già organizzati e trascura i diritti negati alle popolazioni del Sud. Così le avanguardie proletarie diventano oligarchie, si chiudono in sé stesse. Giolitti, ai primi del Novecento, apre il dialogo con i socialisti per integrarli nel sistema, ma la sua responsabilità sta nell’aver condotto tale operazione avvalendosi di una maggioranza parlamentare ottenuta manipolando le elezioni nel Sud. Mentre al Nord il voto si svolge regolarmente, nel Mezzogiorno il leader liberale mantiene i metodi spregiudicati e truffaldini adottati dai governi nel XIX secolo, in modo da assicurare l’elezione di deputati a lui fedeli. Perciò l’Italia dell’epoca si presenta come una democrazia in cammino, ma al tempo stesso porta in sé pericolosi germi di corruzione, perché calpesta il diritto di voto e l’autonomia del Parlamento. Quindi Giolitti, con la connivenza dei socialisti riformisti come Filippo Turati, tradisce la democrazia proprio mentre sembra favorirne il progresso. Contro questo sistema Salvemini reclama il suffragio universale, per spezzare il dominio dei grandi latifondisti e della piccola borghesia intellettuale, che nel Sud costituisce la base clientelare delle forze di governo.
FULVIO CAMMARANO — Queste critiche sono fondate sul piano teorico. Ma nella realtà storica dubito che le elezioni meridionali, se Giolitti non le avesse governate, si sarebbero svolte in modo ineccepibile con un conflitto virtuoso tra alternative di programma, dato il tessuto sociale dell’epoca. Le condizioni politiche per una riforma agraria che nel Sud spezzasse il potere dei latifondisti non c’erano: Giolitti tenta di abbozzarla, ma senza convinzione. La sua scelta è puntare su un cambiamento in tempi lunghi, sperando che il Nord, progredendo, traini anche il resto d’Italia. La maggioranza che si procura al Sud con metodi discutibili gli serve proprio per proseguire nell’apertura a sinistra, volta a integrare nello Stato liberale le masse popolari, anche sulla scorta di una crescita economica impetuosa favorita dalla situazione internazionale. Però Giolitti non abbandona il Mezzogiorno: nel 1904, in accordo con il meridionalista Francesco Saverio Nitti, fa approvare la legge speciale per Napoli. Introduce anche il suffragio universale maschile, i cui effetti positivi richiedono anch’essi tempi lunghi, che purtroppo non ci saranno per via della guerra.
SERGIO BUCCHI — Nel 1912 Giolitti, però, concede il suffragio universale maschile dall’alto, con una manovra di palazzo, senza che la riforma sia stata preparata né da lui né dai socialisti, come osserva Salvemini. E infatti nel 1913 le prime elezioni con le nuove regole registrano nel Sud un netto peggioramento della situazione: non bastano più i semplici brogli e si ricorre alle violenze. Poi nel 1919, dopo il trauma della Grande guerra, il Parlamento diventerà ingovernabile, anche perché tutti i combattenti acquisiscono il diritto di voto, che era riservato anche agli analfabeti che avessero assolto agli obblighi militari.
FULVIO CAMMARANO — Comunque il suffragio universale contribuisce a rafforzare il sistema parlamentare, come denuncia nel 1912 Benito Mussolini, che allora era un socialista rivoluzionario, esortando il Psi a non farsi coinvolgere nel regime borghese. Quanto alla situazione del 1919, bisogna anche tener conto che allora si vota per la prima volta con un sistema proporzionale, non più con il maggioritario uninominale. E poi è l’esplodere della violenza politica dopo la Prima guerra mondiale, una guerra a cui Giolitti si era opposto, che fa dell’Italia un Paese ingovernabile.
SERGIO BUCCHI — Ma che cos’è che rende le organizzazioni socialiste così vulnerabili alla violenza fascista, tanto che molte cambiano bandiera e passano con le camicie nere? Proprio la scarsa capacità di condurre una lotta politica aperta, l’abitudine a contare sulla benevolenza del governo che i socialisti avevano contratto in epoca giolittiana. Nel 1928, quando esce la Storia d’Italia dal 1871 al 1915 di Benedetto Croce, Salvemini la elogia. Costretto all’esilio dal fascismo, apprezza la difesa del sistema liberale contro la propaganda falsificatrice della dittatura. Però rimprovera a Croce di aver sottolineato il progresso economico del periodo tra il 1901 e il 1915 trascurando il contemporaneo regresso della vita politica, per via del discredito attirato sulle istituzioni rappresentative dalla condotta di Giolitti. Un discredito che prepara il terreno alla dittatura. La democrazia è già malata, quando viene abbattuta da Mussolini. E lo è soprattutto per responsabilità di Giolitti, che considerava la Camera un semplice strumento passivo per condurre la sua politica.
FULVIO CAMMARANO — I mali del sistema rappresentativo esistevano ben prima dell’avvento di Giolitti, che segna invece un’apertura di orizzonti. Per esempio il leader liberale, già da ministro dell’Interno, ordina di non reprimere più gli scioperi e sostituisce alcuni prefetti che da quell’orecchio non ci sentono. D’altronde qual era l’alternativa alla sua politica? Sidney Sonnino critica il trasformismo giolittiano e invoca una lotta aperta fra partiti contrapposti. Ma fallisce sempre, perché il suo disegno presuppone la creazione di un vero e proprio partito liberale, che invece non nasce mai perché la classe dirigente dell’epoca non ha la mentalità necessaria per dare vita a una forza politica organizzata: si sente rappresentante della comunità nazionale nel suo complesso e considera deleteria la divisione del Paese in fazioni opposte. A quella visione, profondamente radicata nella cultura politica liberale, si adatta molto di più la linea giolittiana, che prevede la formazione di una vasta maggioranza dai tratti politici meno definiti e disposta a scendere a patti con le opposizioni.
SERGIO BUCCHI — Però a sinistra un partito esisteva, quello socialista. E avrebbe dovuto assumersi una responsabilità nazionale, svolgendo un’opposizione più netta e decisa alla politica giolittiana, che sacrificava il Sud e sviliva il Parlamento.
FULVIO CAMMARANO — In realtà l’inizio e la fine dell’età giolittiana coincidono con l’affermazione e con la cancellazione della centralità parlamentare. L’egemonia politica di Giolitti comincia con la sconfitta della reazione di fine Ottocento e finisce nel maggio 1915, con l’intimidazione della piazza interventista contro la maggioranza neutralista della Camera. In quella fase Giolitti, che valuta con realismo il rischio enorme dell’entrata in guerra e si oppone quindi alle scelte del governo, è il più importante difensore delle istituzioni parlamentari, perciò diventa il bersaglio di una violentissima campagna d’odio.
SERGIO BUCCHI — Nel 1915 c’è una sorta di colpo di Stato contro la Camera. Ma proprio questo dimostra che il Parlamento non funziona più, non è in grado di controllare il governo. Il presidente del Consiglio Antonio Salandra e Sonnino, ministro degli Esteri, concludono in segreto il patto di Londra per portare il Paese in guerra e, quando mettono il Parlamento davanti al fatto compiuto, la maggioranza giolittiana approva il loro operato senza fiatare.
FULVIO CAMMARANO — Certo, ma di mezzo c’è il colloquio di Giolitti con il re, che è decisivo. Vittorio Emanuele III blocca ogni iniziativa neutralista, che pure avrebbe avuto la maggioranza in Parlamento, prospettando la propria abdicazione, cioè una crisi istituzionale. E Giolitti ovviamente si ritrae. Solo a quel punto il Parlamento, rimasto senza guida e aggredito dalla piazza, accetta l’entrata in guerra.
SERGIO BUCCHI — Bisogna ricordare, però, che l’interventismo del 1915 ha un precedente nel 1911, quando Giolitti dichiara guerra alla Turchia per occupare la Libia, dando spazio alle tendenze nazionaliste che poi si rivolgeranno contro di lui nel 1915.
FULVIO CAMMARANO — Giolitti non è affatto entusiasta dell’impresa di Tripoli, ma deve tener conto del contesto internazionale. Le altre potenze permettono all’Italia di conquistare la colonia africana, ma sono pronte a impadronirsi della Libia nel caso in cui Roma rimanesse inerte. Se fossero stati i francesi a sbarcare a Tripoli, la leadership di Giolitti avrebbe subito un colpo durissimo.
SERGIO BUCCHI — Proprio qui, però, emerge il grande difetto della sua politica. Giolitti non è un dittatore, la sua prassi è democratica, ma pur di mantenere il potere è disposto a qualsiasi compromesso. Infatti quando torna al governo, nel 1920, consente alle forze dell’ordine e all’esercito di appoggiare la violenza fascista. Certo, dimostra anche grandi capacità nel risolvere la crisi di Fiume e la vertenza che aveva portato all’occupazione delle fabbriche. Ma concede troppo al complesso delle forze reazionarie (gli ambienti di corte, gli alti gradi militari, la grande industria) che cercano una rivincita storica approfittando degli errori compiuti dai socialisti massimalisti, che predicano la rivoluzione a parole senza essere in grado di farla. Per contrastare il Psi, Giolitti nel 1921 apre all’ingresso di Mussolini e dei suoi nelle file della maggioranza governativa. Spera di controllarli e non capisce che finiranno per prendergli la mano.
FULVIO CAMMARANO — Giolitti vorrebbe integrare i fascisti nel sistema costituzionale, come aveva cercato di fare in precedenza con i socialisti in sintonia con Turati. Ma nel 1922 si rende conto del pericolo. E quando la situazione diventa critica, rimane lui, benché sia ormai anziano, l’unico punto di riferimento possibile di chi intende salvare le libertà costituzionali. Se i cattolici del Partito popolare avessero accettato di appoggiarlo, forse Giolitti avrebbe potuto fermare Mussolini. In fondo aveva dimostrato di saper essere anche duro, come lo era stato nel 1920 sulla questione di Fiume, quando aveva sloggiato con la forza Gabriele d’Annunzio e i suoi legionari dalla città adriatica.