Il Fatto 30.6.18
I migranti e la trappola degli Hotspot
di Marcello di Filippo*
Professore di Diritto internazionale
All’alba
di ieri il Consiglio europeo ha adottato alcune conclusioni sulle
migrazioni. Proviamo a capire se offrono spunti interessanti. Il
documento finale è alquanto articolato e qui mi limiterò a parlare di
luogo di sbarco per le persone soccorse in mare e dei cosiddetti
hotspot. Le conclusioni indicano che, per eliminare gli incentivi a
intraprendere viaggi pericolosi, occorrono due azioni complementari per
lo sbarco delle persone soccorse in mare. In primis, istituire
piattaforme di sbarco “regionali” presso gli Stati terzi disposti ad
accoglierle e con il sostegno di Unhcr e Oim.
Lì verrebbero
distinti i richiedenti asilo genuini dagli altri. In secondo luogo,
coloro che non fossero smistati nei centri extra-Ue sarebbero trasferiti
in centri collocati in Stati membri che abbiano dato il consenso. Anche
qui verrebbe operato uno screening, con pieno sostegno logistico e
finanziario dell’Ue. Le persone bisognose di protezione sarebbero poi
ricollocate verso altri Stati membri in omaggio al principio di
solidarietà, ma solo verso Stati membri che acconsentano a ciò: una
solidarietà à la carte, cioè. Tutto quanto detto è configurato come una
soluzione tampone, che lascia impregiudicata la riforma di Dublino
(rimasta purtroppo sullo sfondo).
Che dire sugli hotspot esterni?
L’esperienza dei centri di transito lungo le rotte migratorie (ad
esempio in Mali o in Niger) o dei campi co-gestiti dall’Unhcr in Paesi
di primo asilo insegna che questa via è irta di ostacoli politici e
giuridici. Innanzitutto serve il consenso del paese di sbarco e poi
quello di Unhcr e Oim. Per i primi, i potenziali candidati (Algeria,
Egitto, Libia o Tunisia) hanno già negato un loro interesse. Si tratta
di Paesi con problemi di vario ordine, che legittimamente possono dire
di no. Del resto, è reale il rischio che le persone sbarcate restino a
loro carico, vista la riluttanza degli Stati europei ad assumere impegni
vincolanti e preventivi su tempi e numeri dei successivi reinsediamenti
di rifugiati. Le promesse vaghe non bastano, come dimostrato nel caso
del centro in Niger per le persone evacuate dalla Libia. Ma anche ove i
paesi terzi acconsentissero, restano difficoltà giuridiche e pratiche di
non poco conto. Unhcr e Oim hanno chiarito all’Ue che non si
impegneranno in centri ove non sia garantito ai migranti il rispetto dei
diritti fondamentali. L’Ue e i suoi Stati membri dovrebbero stare ben
attenti al riguardo, per evitare di incorrere in responsabilità
giuridiche (a proprio carico, come paesi, e a carico dei propri
funzionari). E poi, chi gestirebbe le strutture o chi deciderebbe sui
migranti? Come sarebbe tutelato l’accesso alla giustizia in caso di
diniego? Infine, anche ammesso che questi centri fossero costituiti con
adeguate garanzie (il che include il divieto di detenzione a tempo
indeterminato), le persone non ammesse alla protezione internazionale
dovrebbero essere rimpatriate. Ma dove? Gli stessi ostacoli pratici al
rimpatrio che hanno gli Stati europei sussistono – e in misura anche
maggiore – per quelli africani.
I migranti esclusi ricadrebbero
probabilmente nel circuito dei trafficanti, pronti ad attenderli nei
paraggi dei centri per offrire i loro “servizi”. Un vero e proprio corto
circuito, insomma. Va meglio con gli hotspot in territorio Ue?
Difficile dirlo. In teoria, con un preventivo accordo quadro tra una
massa critica di Stati di ricollocazione e per numeri congrui di
persone, potrebbero porsi le basi per alleviare il fardello degli Stati
di prima linea. Ma pare che nessuno (o quasi) voglia accettare tali
hotspot sul proprio territorio, così come nessuno (o quasi) sia disposto
ad assumere in anticipo obblighi stringenti sui successivi
ricollocamenti. Ottenere di volta in volta il consenso dei partner, del
resto, non pare un’alternativa praticabile. In sintesi, delle
conclusioni che sul tema qui affrontato non concludono un granché.