Il Fatto 23.6.18
Scorta, le 3 lettere di Ingroia: “Così lo Stato mi lascia solo”
Ai
ministri - L’ex pm, rimasto senza protezione a maggio, ha scritto a
Minniti e Salvini ricordando le molte minacce, anche recenti, ricevute
dalla mafia
di Gianni Barbacetto
Dopo 27 anni
di vita sotto scorta. Dopo due settimane dalle sentenze di condanna al
processo sulla trattativa Stato-mafia. Antonio Ingroia, che
dell’indagine sulla trattativa è stato l’iniziatore, è lasciato senza
protezione. Lo ha denunciato il magistrato Nino Di Matteo. “Ingroia è in
pericolo, perché Cosa nostra non revoca le sue condanne a morte”.
A
decidere la soppressione della scorta all’ex magistrato, oggi avvocato
difensore di collaboratori di giustizia, è stato agli inizi di maggio
l’Ucis, l’ufficio centrale interforze per la sicurezza personale,
d’intesa con le prefetture di Roma e di Palermo. Ingroia ha reagito in
silenzio, cercando di spiegare le sue preoccupazioni con alcune lettere
inviate al ministero dell’Interno.
La prima lettera, del 16 maggio
2018, è per il ministro Marco Minniti e il capo della Polizia Franco
Gabrielli. “Lo scrivente, pur nel rispetto delle competenze e della
responsabilità degli Organi preposti alla verifica e alla valutazione
della sussistenza dei presupposti per il mantenimento o la revoca del
sistema di protezione già disposto, non può nascondere di essere rimasto
sorpreso”. Ingroia ricorda che “nel 2009, Domenico Raccuglia, il boss
allora latitante, vicino a Matteo Messina Denaro”, venne arrestato “nei
pressi della mia casa di campagna, a Calatafimi, mentre stava preparando
un attentato nei miei confronti”.
Più recentemente, “appena
cinque anni fa, il collaboratore di giustizia Marco Marino ha riferito
al procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo di Reggio Calabria che Cosa
nostra e la ’Ndrangheta nel 2011 stavano preparando un attentato per
uccidermi in relazione alle indagini sulla trattativa Stato-mafia,
facendomi saltare in aria con venti chili di esplosivo”.
Non solo
le indagini del passato come magistrato, ma anche l’attività presente
come avvocato mettono a rischio Ingroia. Per esempio, la difesa “del
collaboratore di giustizia Armando Palmeri” nel processo di Reggio
Calabria sulla ’Ndrangheta stragista.
La seconda lettera, del 4
giugno, è mandata al nuovo ministro dell’Interno, Matteo Salvini. “Il
collaboratore di giustizia Carmelo D’Amico ha riferito di specifici e
concreti progetti omicidiari concepiti nei confronti dello scrivente e
del pm Di Matteo, temporaneamente accantonati solo in quanto all’epoca
di difficile realizzazione”.
Ecco che cosa dichiarava D’Amico nel
2015: “I servizi segreti volevano morto prima il dottore Ingroia, poi
non ci sono riusciti. Questo lo hanno trattato i servizi segreti, hanno
mandato l’ambasciata a Provenzano, non ci sono riusciti. Perché
Provenzano non voleva più le bombe e quindi il dottore Di Matteo o prima
il dottore Ingroia dovevano essere uccisi tramite, tanto per dire,
agguati, solo con un agguato, non con le bombe. E quindi aspettavano
questo, praticamente questo, da un momento all’altro”.
Quanto a
Totò Riina, continua Ingroia, “faccio riferimento all’intercettazione
ambientale registrata il 26 agosto 2013 nel carcere di Milano-Opera.
Riina, parlando con un altro detenuto, definiva la mia persona il Re dei
cornuti, espressione gergale di ostilità, molto diffusa nel mondo
criminale, con la quale si manifestava il disprezzo e l’odio del Capo
dei capi nei miei confronti”.
La terza lettera, del 21 giugno, è
ancora per il ministro Salvini e per il sottosegretario all’Interno
Carlo Sibilia (del Movimento 5 Stelle). Chiede “una rivalutazione
aggiornata della situazione di pericolo cui lo scrivente ritiene di
essere attualmente ancora esposto”. La “improvvisa e totale rimozione di
ogni dispositivo di protezione potrebbe essere interpretato dalle
organizzazioni mafiose e in particolare dai boss che ho più perseguito
in questi anni – da Matteo Messina Denaro ai fratelli Graviano agli
stessi corleonesi facenti capo a Leoluca Bagarella, nonché ai capi della
’Ndrangheta – un segnale di abbandono e di isolamento da parte dello
Stato nei confronti di chi per almeno 25 anni è stato percepito, a torto
o a ragione, come un simbolo della lotta alla mafia, quale uomo delle
Istituzioni e servitore dello Stato”.
“Paradossale e grottesca”,
conclude Ingroia, la nuova misura di protezione decisa il 20 giugno: un
“controllo dinamico a orari convenuti che consiste nell’assistenza, da
parte dell’equipaggio di una volante della polizia, in occasione della
mia uscita e rientro da casa, misura intuitivamente del tutto inutile”.