domenica 24 giugno 2018

Il Fatto 23.6.18
Scorta, le 3 lettere di Ingroia: “Così lo Stato mi lascia solo”
Ai ministri - L’ex pm, rimasto senza protezione a maggio, ha scritto a Minniti e Salvini ricordando le molte minacce, anche recenti, ricevute dalla mafia
di Gianni Barbacetto


Dopo 27 anni di vita sotto scorta. Dopo due settimane dalle sentenze di condanna al processo sulla trattativa Stato-mafia. Antonio Ingroia, che dell’indagine sulla trattativa è stato l’iniziatore, è lasciato senza protezione. Lo ha denunciato il magistrato Nino Di Matteo. “Ingroia è in pericolo, perché Cosa nostra non revoca le sue condanne a morte”.
A decidere la soppressione della scorta all’ex magistrato, oggi avvocato difensore di collaboratori di giustizia, è stato agli inizi di maggio l’Ucis, l’ufficio centrale interforze per la sicurezza personale, d’intesa con le prefetture di Roma e di Palermo. Ingroia ha reagito in silenzio, cercando di spiegare le sue preoccupazioni con alcune lettere inviate al ministero dell’Interno.
La prima lettera, del 16 maggio 2018, è per il ministro Marco Minniti e il capo della Polizia Franco Gabrielli. “Lo scrivente, pur nel rispetto delle competenze e della responsabilità degli Organi preposti alla verifica e alla valutazione della sussistenza dei presupposti per il mantenimento o la revoca del sistema di protezione già disposto, non può nascondere di essere rimasto sorpreso”. Ingroia ricorda che “nel 2009, Domenico Raccuglia, il boss allora latitante, vicino a Matteo Messina Denaro”, venne arrestato “nei pressi della mia casa di campagna, a Calatafimi, mentre stava preparando un attentato nei miei confronti”.
Più recentemente, “appena cinque anni fa, il collaboratore di giustizia Marco Marino ha riferito al procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo di Reggio Calabria che Cosa nostra e la ’Ndrangheta nel 2011 stavano preparando un attentato per uccidermi in relazione alle indagini sulla trattativa Stato-mafia, facendomi saltare in aria con venti chili di esplosivo”.
Non solo le indagini del passato come magistrato, ma anche l’attività presente come avvocato mettono a rischio Ingroia. Per esempio, la difesa “del collaboratore di giustizia Armando Palmeri” nel processo di Reggio Calabria sulla ’Ndrangheta stragista.
La seconda lettera, del 4 giugno, è mandata al nuovo ministro dell’Interno, Matteo Salvini. “Il collaboratore di giustizia Carmelo D’Amico ha riferito di specifici e concreti progetti omicidiari concepiti nei confronti dello scrivente e del pm Di Matteo, temporaneamente accantonati solo in quanto all’epoca di difficile realizzazione”.
Ecco che cosa dichiarava D’Amico nel 2015: “I servizi segreti volevano morto prima il dottore Ingroia, poi non ci sono riusciti. Questo lo hanno trattato i servizi segreti, hanno mandato l’ambasciata a Provenzano, non ci sono riusciti. Perché Provenzano non voleva più le bombe e quindi il dottore Di Matteo o prima il dottore Ingroia dovevano essere uccisi tramite, tanto per dire, agguati, solo con un agguato, non con le bombe. E quindi aspettavano questo, praticamente questo, da un momento all’altro”.
Quanto a Totò Riina, continua Ingroia, “faccio riferimento all’intercettazione ambientale registrata il 26 agosto 2013 nel carcere di Milano-Opera. Riina, parlando con un altro detenuto, definiva la mia persona il Re dei cornuti, espressione gergale di ostilità, molto diffusa nel mondo criminale, con la quale si manifestava il disprezzo e l’odio del Capo dei capi nei miei confronti”.
La terza lettera, del 21 giugno, è ancora per il ministro Salvini e per il sottosegretario all’Interno Carlo Sibilia (del Movimento 5 Stelle). Chiede “una rivalutazione aggiornata della situazione di pericolo cui lo scrivente ritiene di essere attualmente ancora esposto”. La “improvvisa e totale rimozione di ogni dispositivo di protezione potrebbe essere interpretato dalle organizzazioni mafiose e in particolare dai boss che ho più perseguito in questi anni – da Matteo Messina Denaro ai fratelli Graviano agli stessi corleonesi facenti capo a Leoluca Bagarella, nonché ai capi della ’Ndrangheta – un segnale di abbandono e di isolamento da parte dello Stato nei confronti di chi per almeno 25 anni è stato percepito, a torto o a ragione, come un simbolo della lotta alla mafia, quale uomo delle Istituzioni e servitore dello Stato”.
“Paradossale e grottesca”, conclude Ingroia, la nuova misura di protezione decisa il 20 giugno: un “controllo dinamico a orari convenuti che consiste nell’assistenza, da parte dell’equipaggio di una volante della polizia, in occasione della mia uscita e rientro da casa, misura intuitivamente del tutto inutile”.