Il Fatto 22.6.18
Tolta la scorta a Ingroia. Di Matteo: “È in pericolo”
Sorpresa
- A maggio il Viminale ha comunicato all’ex pm, “condannato a morte” da
Cosa Nostra, che ora non è più “a rischio”. Lui ha risposto, per
lasciar traccia del suo dissenso
Allievo di Falcone e Borsellino, Ingroia è stato per vent’anni pm a Palermo
di Gianni Barbacetto
Il
magistrato Nino Di Matteo pesa le parole: “La mafia e i potenti che
colludono con la mafia non dimenticano”. Eppure – annuncia in una
manifestazione pubblica a Milano – lo Stato ha deciso di togliere la
scorta ad Antonio Ingroia. Ora avvocato, già giovane collaboratore di
Paolo Borsellino, Ingroia è stato il pm palermitano che ha avviato le
indagini sulla trattativa tra Stato e mafia, poi portate a processo da
Di Matteo, il quale il 20 aprile 2018 ha ottenuto la condanna in primo
grado di uomini delle istituzioni come Mario Mori, Antonio Subranni e
Giuseppe De Donno, di boss di Cosa nostra come Leoluca Bagarella e
Antonino Cinà e del “mediatore” Marcello Dell’Utri.
“Possono
passare gli anni, ma Cosa Nostra non dimentica”, gli fa eco Francesco
Del Bene, con lui pm in quel processo, “la revoca della protezione a
Ingroia fa orrore”. E il sociologo Nando dalla Chiesa, sul palco della
Camera del Lavoro milanese insieme a Di Matteo e Del Bene, aggiunge:
“Sembra che sotto la decisione burocratica di revocare la scorta a
Ingroia ci sia una rappresaglia nei confronti di un magistrato che ha
dato fastidio”.
I fatti. Un paio di settimane dopo la sentenza
sulla trattativa, agli inizi di maggio, a Ingroia arriva una lettera del
prefetto di Palermo. Con linguaggio burocratico gli comunica che,
d’intesa con il prefetto di Roma, l’Ucis, l’ufficio centrale interforze
per la sicurezza personale, ha valutato che non esiste più per lui “una
concreta e attuale esposizione a pericoli o minacce”, dunque gli viene
revocata la protezione.
L’ex magistrato ha la scorta dal 1991,
quando lavorava a fianco di Borsellino, dunque da 27 anni. Nel tempo è
più volte cambiata l’intensità della protezione, passando dal secondo al
quarto livello di rischio. Negli ultimi anni si era ridotta a soli due
uomini che lo scortavano però in tutti i suoi spostamenti.
Un paio
di giorni dopo la lettera del prefetto di Palermo, come annunciato, la
scorta scompare. Il 16 maggio Ingroia scrive all’allora ministro
dell’Interno del governo di Paolo Gentiloni, Marco Minniti, e al capo
della Polizia, Franco Gabrielli.
L’ex magistrato non contesta la
scelta dell’Ufficio interforze, non discute la decisione presa dagli
organi che hanno la competenza – ma anche la responsabilità – di quella
scelta, ci tiene però a lasciare traccia scritta che non solo è rimasto
sorpreso dalla decisione, ma anche che non la condivide. Sia chiaro, a
futura memoria, che non c’è stato il suo assenso alla sospensione della
protezione. Perché alcuni segnali di pericolo restano a suo avviso
attuali.
Ci sono anni di indagini a Palermo su Cosa nostra, che
Cosa nostra non dimentica. E ci sono fatti più recenti. Totò Riina,
intercettato in carcere prima della sua morte, ha definito Ingroia “il
re dei cornuti”, mentre raccontava al suo interlocutore la condanna a
morte decretata per Di Matteo. Un collaboratore di giustizia, Marco
Marino, ha riferito al procuratore aggiunto di Reggio Calabria Giuseppe
Lombardo, impegnato nel processo che potrebbe essere chiamato
“Trattativa 2”, sulla partecipazione delle cosche calabresi alla
strategia stragista, che Cosa nostra e la ’ndrangheta avevano insieme
condannato a morte Ingroia con il proposito di farlo saltare in aria con
venti chili di esplosivo. L’attentato non c’è stato, ma i mafiosi, si
sa, difficilmente revocano le condanne a morte. Un altro “pentito”,
Carmelo D’Amico, ha riferito che nel 2015 anche i servizi segreti ce
l’avevano con Ingroia e Di Matteo.
C’è il passato di magistrato a
mettere in pericolo Ingroia, ma anche il presente di avvocato di parte
civile e difensore di collaboratori di giustizia in processi di mafia in
corso. Come quello per l’uccisione di due carabinieri, Antonino Fava e
Vincenzo Garofalo, uccisi nel 1994. Ai suoi numeri arrivano di tanto in
tanto misteriose telefonate mute. Ancor più inquietante una telefonata
parlante, invece, fatta allo studio di Ingroia da una delle figlie di
Totò Riina che chiedeva con insistenza di parlare personalmente con l’ex
magistrato.
Il ministro uscente Minniti passa la palla al capo
della polizia e al nuovo governo. A questo punto Ingroia manda una
lettera, il 4 giugno, al nuovo ministro dell’Interno Matteo Salvini. Una
ulteriore, datata 21 giugno, la invia a Salvini e al suo
sottosegretario Carlo Sibilia, del Movimento 5 stelle. Chiede di essere
ricevuto per spiegare di persona. Nessuna risposta. Una concessione però
gli viene fatta, gli viene assegnata una “protezione di vigilanza
dinamica a orari convenuti”: se comunica per tempo via email quando esce
di casa, per quell’ora arriva un’auto della polizia che si piazza sotto
casa. Una protezione ritenuta dagli esperti del tutto inefficace, in
presenza di pericoli seri.
“Ci sono personaggi della politica che
restano sotto scorta”, ricorda Nino Di Matteo, “e alcuni da anni non
hanno più alcun ruolo pubblico. Ingroia invece è lasciato senza
protezione”. I nomi non li fa, ma non sono difficili da ricostruire:
Maria Elena Boschi, Massimo D’Alema, Nichi Vendola e tanti altri girano
protetti. Antonio Ingroia, colui che ha dato il via alle indagini sui
rapporti incestuosi tra mafia e Stato, è invece lasciato solo.