giovedì 21 giugno 2018

Il Fatto 21.6.18
Il Sessantotto Neoliberista
Effetti collaterali - Il movimento di studenti e operai si è esaurito, le grandi imprese hanno cavalcato la richiesta di libertà individuale e le spinte anti-autoritarie per imporsi in un mondo “liquido”, a spese di Stati e partiti
L’eredità del ’68
di Colin Crouch


Nel Sessantotto l’atteggiamento diffidente verso ogni autorità e l’insistenza sulla libertà di espressione culturale ebbero l’effetto benefico di rendere più solari le posizioni austere e spesso puritane dei movimenti socialisti e comunisti ufficiali.
Ma lo Zeitgeist di cui il Sessantotto fece parte promosse anche approcci alternativi a queste priorità. Pure i neoliberisti festeggiarono la riduzione del potere dei governi (benché non delle società private) e la libertà di espressione individuale (posto che tale espressione si manifestasse nelle scelte finanziarie). Le imprese capitaliste furono veloci a sfruttare le innovazioni nella moda, nella musica e in altri fenomeni potenzialmente di consumo degli anni Sessanta, imitando e imponendo su di essi una forma merce. Alla fine del Ventesimo secolo, ad esempio, le etichette discografiche preferivano costruire band e gruppi interni anziché rispondere alle energie che provenivano in modo spontaneo dai giovani nella società. Non c’è quasi nulla che le imprese capitaliste non possano imitare, catturare, produrre in serie e alla fine monopolizzare, inclusa la stessa ribellione.
Il fatto che il neoliberismo si appropriasse del declino della deferenza e della richiesta di espressione individuale ha avuto implicazioni molto più importanti della creazione di prodotti culturali. Le politiche della sinistra e della destra sono sempre dipese entrambe dal rispetto per l’autorità statale e dalla volontà di obbedire da parte di soggetti e cittadini. Quando, nel corso del Novecento, i partiti socialdemocratici iniziarono a formare dei governi, diedero spesso per scontato di poter ereditare un consenso generale verso la legittimità dell’autorità statale. Che cosa accadrebbe se la deferenza non potesse più essere data per scontata?
Alla fine degli anni Sessanta, Jürgen Habermas scorse una crisi strutturale di legittimità nell’ordine capitalista e, come molti a sinistra, la interpretò come un fenomeno che avrebbe accelerato il crollo definitivo quell’ordine. Invece toccò allo Stato, e soprattutto allo Stato sociale, essere vittima di una forte delegittimazione. E i principali critici dello Stato non erano degli esponenti della sinistra, ma i sostenitori di un mercato libero e non ostacolato dalla regolamentazione e dalla tassazione. Siccome il mercato opera sulla base della libertà di scelta individuale, i suoi sostenitori poterono appropriarsi degli appelli sessantottini alla libertà individuale.
Non era questo che i sessantottini volevano. Solo certi tipi di scelte possono trovare espressione sul mercato, cioè scelte di consumo materiale, quelle che essi consideravano alienanti. Inoltre, la sostituzione dello Stato con i direttori e i manager delle imprese non rappresentò certo un miglioramento per il ruolo dell’autorità. Tuttavia, l’interpretazione neoliberista dell’emancipazione colpì profondamente un pubblico più ampio, sempre meno legato alle vecchie forme di deferenza e sempre più insofferente verso la regolamentazione e la tassazione, soprattutto in un momento in cui l’economia privata rendeva disponibili così tanti prodotti attraenti. I partiti conservatori e liberali prima e, dagli anni Novanta, socialdemocratici poi abbracciarono la svolta mercatistica.
Ma ciò che è ancora più deprimente per lo spirito del Sessantotto è il fatto che il capitale sia stato più abile dei suoi critici nell’apprendere come operare in un mondo caratterizzato dal declino della deferenza e da strutture postburocratiche, sfruttando l’informalità e la flessibilità prefigurata dai movimenti di protesta tra gli studenti, i lavoratori, le femministe e gli ambientalisti.
Come ha mostrato Zygmunt Bauman nel suo libro Modernità liquida, gli ultimi decenni sono stati segnati da una disillusione diffusa verso le strutture “solide”. Il cambiamento sembra onnipresente, e tanto le istituzioni quanto gli individui devono continuare ad adattarsi a uno stile frenetico di vita “liquido”. Il cambiamento deve essere incessante, benché sia i suoi motivi sia il suo scopo rimangano oscuri. In un simile ambiente, le grandi aziende moderne si trovano nel loro elemento. Possono persino dissolversi e riapparire in un’altra forma, con un nome, un logo, un capitale, dei lavoratori e un’ubicazione geografica differenti, spesso sfruttando cavilli nelle normative fallimentari che permettono di sfuggire ai creditori delle loro precedenti incarnazioni. Gli Stati non possono fare nessuna di queste cose: rimangono solidi, per dirla con Bauman. E così anche i partiti politici, i sindacati e le organizzazioni riconosciute.
Mezzo secolo dopo il Sessantotto, quindi, è l’impresa la forma di organizzazione che si è dimostrata più capace di assimilare le sue lezioni di flessibilità e adattabilità. Per la sinistra, le organizzazioni liquide e in costante mutamento corrispondono a una serie di movimenti in gran parte transitori e collegati solo in via informale. Ognuno di questi movimenti lascia ai suoi successori poche vittorie consolidate o risorse organizzative da cui partire, al di là dell’esperienza di quegli individui che passano da una generazione all’altra finché non diventano disillusi o muoiono.
La ragione principale di questa differenza tra le imprese e le altre organizzazioni è che il capitale, pur essendo la più liquida tra tutte le risorse, è in fondo posseduto da qualcuno, e la sua proprietà è concentrata nelle mani molto solide di un piccolo numero di persone o famiglie molto ricche. Queste ultime vanno e vengono, ma i nuovi arrivati imparano presto a seguire le regole per conservare il capitale e farlo crescere, così che il sistema possa riprodursi.
Un tempo, il potere politico possedeva una forma di “solidità oltre la liquidità”, quando i sovrani medievali conquistavano, conservavano e perdevano grandi fette di territorio in tutta Europa e, nel più recente periodo coloniale, in tutto il mondo. Ma gli Stati moderni lo fanno raramente, dal momento che includono popoli dalle cui lealtà e identità apparenti traggono forza. I partiti, i sindacati e gli altri movimenti di massa hanno un problema analogo, essendo definiti dall’adesione degli iscritti e dalle cerchie più ampie di persone sulla cui lealtà possono contare. Le persone rappresentano la loro risorsa principale, ed essi hanno bisogno che queste persone diano loro i voti, il denaro e l’impegno volontario che determinano la loro forza. Le lezioni organizzative del Sessantotto sono qui di poco aiuto, portano esempi di scoppi straordinari di entusiasmo appassionato che di rado possono essere sostenuti da grandi masse di persone per un periodo di tempo qualsiasi. Il capitale, al contrario, sfrutta la sua ricchezza per comprare temporaneamente i servizi delle persone a cui dà lavoro.
Il Sessantotto produsse una generazione arrabbiata ma sicura di sé, insofferente verso la mancanza di flessibilità delle istituzioni della società. Il 2018, invece, produrrà una generazione arrabbiata ma angosciata, strapazzata da un’insicurezza flessibile. A posteriori, nessuna delle due sarà stata in grado di capire cosa fare.