lunedì 18 giugno 2018

Il Fatto 18.6.18
“Io, baby-soldato agli inferi per i soldi di Boko Haram”
Fra i giovani detenuti nel carcere minorile della capitale Niamey
di Pfc


Ibrahim è stato arrestato sette mesi fa dalla polizia a Diffa, l’ultima cittadina raggiunta da una strada asfaltata nel sud-est del Niger. Da allora è rinchiuso nella sezione minorile del carcere civile della capitale Niamey; ha 16 anni, indossa una maglia bucata del Borussia Dortmund, pantaloni neri strappati e non ha le scarpe. Ibrahim è uno dei 60 detenuti “ospitati” in questo cortile infernale di pochi metri quadrati. Sul volto placido l’ombra di un dramma immane e una cicatrice che divide in due la faccia: “Sono stato arrestato di notte, la polizia dice che sono un affiliato di Boko Haram, ma io non so neppure chi siano queste persone. Sono dentro senza aver fatto nulla”.
L’epicentro delle scorribande del gruppo terroristico che si ispira al Califfato, comprende pure la provincia di Diffa, dove la settimana scorsa un attentato ha provocato 12 vittime. Area di confini tribolati, Camerun, Chad e Nigeria ad un passo. Una terra di nessuno dove è facile fare proseliti, manovalanza innocente da trasformare in ragazzini-soldato. Se la polizia ha arrestato Ibrahim, qualche sospetto dovrà pur esserci ed in effetti, messo alle strette, il sedicenne inizia a raccontare: “Stavo a zonzo senza fare nulla, vivevo in strada, la mia famiglia non so che fine abbia fatto. Un giorno si sono presentati degli uomini e mi hanno chiesto se volessi guadagnare dei soldi. Ci addestravano, io però non ho mai sparato e ucciso nessuno”.
Chi entra qui dentro si incattivisce ancora di più. La sezione per i minori è un quadrato grande come un campo da pallavolo con un muro di cinta alto cinque metri, ricavato nell’area del penitenziario per adulti. L’amministrazione penitenziaria nigerina fornisce ai reclusi un solo pasto giornaliero: riso vecchio diventato solido, da tagliare col coltello, irrorato da una salsa verdastra e rivoltante. A parte il sabato quando i volontari della sezione di Niamey di Sant’Egidio portano verdure fresche, biscotti, bevande. I dormitori, tre stanze anguste, a terra solo coperte, un bugliolo in comune, mura scrostate e un tanfo nauseabondo: “Sono entrato così come mi vedi, non ci passano sapone per lavarci, vestiti. Neppure una zanzariera. Di notte ci chiudono dentro queste stanze infestate di insetti, si muore di caldo”. Rashid ha appena 11 anni, addosso un paio di pantaloncini e il volto da bambino: “Sono qui dentro per il furto di in telefonino”.
Abdul, 15 anni, maliano di Gao, in Niger c’è finito per caso. Un altro dei tanti bambini di strada, abbandonato dalla famiglia. Tiene gli occhi semichiusi, sembra drogato, ha la voce roca ed è difficile capirlo quando parla, anche per Djibril, il traduttore, l’unico a parlare francese. La sua pena è di tre anni, tra le più alte: “Mi hanno messo in mezzo quei bastardi” dice Abdul. Djibril appunto, 16 anni, il più colto del gruppo, l’aria da leader, una sorta di “inquadrato” capace di imporre le sue regole: “Non dovevo essere qui, è stato un colossale errore. Purtroppo in Niger hai torto anche quando hai ragione”.
In realtà, ammetterà più tardi, Djibril è in carcere per la quarta volta, alle spalle una serie di delitti da criminale sfegatato. Musa, al contrario, sa bene perché si trova lì dentro e cosa lo aspetta. Tra pochi mesi compirà 18 anni e il suo destino è passare nella sezione adulti della prigione. Due anni fa circa, al termine di una rissa violenta, c’è scappato il morto.
Anche Nasser voleva cambiare vita, purtroppo pochi mesi fa nessuno ha capito la gravità delle sue condizioni di salute. Un mattino non si è svegliato e i suoi compagni di cella lo hanno trovato supino, con gli occhi spalancati e una smorfia di dolore disegnata sul volto.