lunedì 18 giugno 2018

Il Fatto 18.6.18
Benvenuti al capolinea dei migranti-fantasma
È nei centri di transito dell’Onu che finisce la fuga di chi non riesce a entrare in Libia. E i 500 militari italiani “allertati” un anno fa non sono mai arrivati
di Pierfrancesco Curzi


Omar prepara il tè versando dall’alto la prelibata bevanda da un bicchiere al birrade, il tipico pentolino tuareg, con estrema abilità, senza versarne una goccia. Da queste parti è un rito ripetuto più volte ogni giorno. Otto uomini, seduti in circolo all’esterno di un’abitazione di fango all’imbrunire di una giornata di sole cocente, discutono sulla situazione del nord-est del Niger, tra transito di migranti, la rabbia per un isolamento indotto, una strada che assomiglia ad un calvario e le risorse del ricco sottosuolo di cui non restano tracce di profitto. Il tè, servito in piccoli bicchieri decorati, emana un buon aroma e Omar ne narra il senso attraverso le fasi dell’esistenza: “Forte per la vita, dolce come l’amore e soave per accompagnarci verso la morte”.
Secondo i parametri internazionali, il Niger occupa stabilmente le ultime posizioni nelle classifiche di povertà, mortalità infantile, crescita e così via. Eppure rappresenta un Paese-chiave nell’Africa sub sahariana, fulcro delle rotte migratorie verso il Mediterraneo. L’Italia lo ha capito tardi e adesso paga le sue incertezze strategiche e il cambio di esecutivo, sebbene gli errori del passato siano evidenti. La missione militare in Niger, nascosta prima e confermata alla fine dello scorso anno, è congelata. I 500 uomini da indirizzare proprio tra Niamey e la provincia di Agadez non sono mai atterrati nel Sahel, a parte un mini-contingente, quaranta uomini in tutto, bloccati in un’area della base americana nell’aeroporto della capitale. Se l’Italia tentenna, altri operano a pieno regime, specie sul delicato tema dei viaggi della speranza. L’Onu e le altre organizzazioni umanitarie ne sono consapevoli e nel cuore del deserto, qui ad Agadez, hanno realizzato centri di transito per profughi da e per la Libia. Ad occuparsene è una delle sue agenzie, l’Oim, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, anche attraverso mirati piani di rimpatrio assistito.
A Tripoli e in Libia, dove si stima ci sia un bacino di almeno mezzo milione di uomini, donne e minori pronti a salire sui barconi, vengono organizzati voli periodici per riportare le persone nei rispettivi Paesi d’origine: Nigeria, Costa d’Avorio, Senegal ecc. Chi aderisce viene riportato a casa gratis, ma dice addio alla speranza di arrivare in Europa. Ad Agadez ci finisce chi non è riuscito ad arrivare in Libia, chi è stato fermato prima, lungo le rotte mortali del deserto. Centri di transito, compound aperti, dove sbrigare le pratiche documentali prima di salire a bordo degli autobus delle linee nigerine, convenzionati con l’Oim, pronti a partire verso le rispettive destinazioni. Su una lavagna all’interno dell’ufficio del centro principale c’è la lista, paese per paese, con le rispettive presenze. Lista in continuo aggiornamento. I giovani, “costretti” ad attendere il loro destino, passano le giornate seguendo il ritmo sonnacchioso del clima desertico, tra i riposi nelle ore calde e le partite di calcio il pomeriggio.
Le strategie della Francia e dell’Italia per bloccare i loro tentativi di imbarcarsi verso l’Europa hanno prodotto soltanto un blocco temporaneo delle rotte migratorie attraverso il deserto del Niger. I viaggi dei migranti non si sono mai fermati del tutto. L’Oim da tempo si occupa di loro. Il caso più particolare è quello di un gruppo di sudanesi, fermi in uno dei centri di Agadez da mesi. La loro “detenzione” è causata dalla mancanza di accordi col Paese d’origine. Non potendo rientrare e non avendo risorse per muoversi in autonomia, lì dentro attendono tempi migliori.
Le condizioni di vita sono precarie, stivati dentro un’area dismessa, un capannone centrale e l’esterno esposto ai raggi roventi del sole. Unica protezione, l’ombra garantita dall’enorme chioma di un albero sotto la quale cercano refrigerio. Se i migranti piangono, i nigerini di Agadez, Arlit e dei villaggi tuareg non ridono. Un terzo dei francesi sfrutta l’energia nucleare che arriva dalle riserve nigerine di uranio di Arlit, eppure qui l’elettricità funziona a singhiozzo: “Mettetevi nei nostri panni, siamo depredati dalle compagnie straniere per l’estrazione di uranio, oro e coltan, a cui lo Stato concede tutto”. Mohtar Alassan, tuareg originario di Tchirozerine, ha lavorato come guida turistica e oggi fa il traduttore per compagnie e rappresentanze militari che pullulano nei dintorni di Agadez. Parla correttamente tre lingue e ha un forte senso di appartenenza: “Mio padre ha lavorato nella miniera di uranio di Arlit dagli anni ’70, quando l’azienda si chiamava C.a., Compagnia Atomica, poi Cogema e infine Areva. Ricordo la polvere gialla che lo accompagnava a casa, di un giallo così forte che quasi accecava. La polvere della morte che poi lo ha ucciso. Siamo poveri, non ci sono strade, non c’è futuro”. L’alternativa è partire e tentare la fortuna in Europa? “No, i tuareg non scappano. È una questione di dignità”.
L’ultima bega per le i tuareg è la Rta, Route Tahoua-Arlit, l’unica via carrozzabile che mantiene il collegamento tra la provincia di Agadez e il resto del paese. Tracciata settant’anni fa dai francesi, oggi non restano che sparuti pezzi di asfalto. Il resto sono voragini, frane e piste di sabbia. La Rta è solo un troncone della grande Strada del Deserto che dovrebbe collegare Algeri alle sponde nigeriane del Pacifico. Un libro dei sogni insomma, di cui esistono progetti, presunti finanziamenti e proclami. Di fatto, la Desert Road non vedrà mai la luce. Diverso il discorso della Rta, il cui avvio dei lavori è stato più volte annunciato dal governo del presidente Issifou. I cantieri sono ancora al palo, la strada continua a restare un vero e proprio calvario e gli abitanti sono sul piede di guerra: “Siamo pronti alla mobilitazione, ne abbiamo abbastanza. Senza strada siamo isolati, inoltre si verificano continui incidenti, a volte mortali. Presto bloccheremo la strada, sarà una protesta clamorosa”, promette Boutali Ad Tchiwerin, una delle anime del dissenso.