Il Fatto 14.6.18
Zig zag, sudore zero e il niet a B.: dove va l’aplomb di Giggino
di Pino Corrias
Timonata
da Matteo Salvini, l’Aquarius gli è passata sopra. Lo ha stordito senza
spettinarlo. E lo ha lasciato lì a galleggiare. Ma visto che non
sappiamo ancora molto di lui, a parte la cravatta, abbiamo il tempo di
ricominciare dai fondamentali. Luigi Di Maio – Avellino, 6 luglio 1986 –
è alto un metro e settanta, pesa 73 chilogrammi, e nonostante sia nato
nella piena bambagia digitale dei Millennial, ogni tanto bacia l’ampolla
del sangue di San Gennaro e il sangue si scioglie. Dunque fa miracoli,
il più cospicuo dei quali, è lui.
A dieci anni sognava di fare il
poliziotto con la pistola. A diciotto staccava biglietti allo stadio. A
ventisei è diventato vicepresidente della Camera. A trentadue – cioè
oggi – ministro del Lavoro, nonché vice premier, nella nuova Italia
giallo-verde che ci circonda. Il tutto senza mai una visibile goccia di
sudore. Luigi, detto Giggino dagli amici, detto Luigiotto in famiglia, è
apparso a Beppe Grillo un giorno di marzo a Pomigliano d’Arco,
circonfuso dalla quieta luce di 59 preferenze: erano le Regionali del
2010. Risultò non eletto. Ma per l’eterogenesi dei fini, meglio gli
andò. Impegnandosi nei successivi Meetup nazionali, finì per farsi
candidare dal Capo alle Politiche del 2013, diventare il deputato più
elegante del Movimento, nonché suo cocco permanente: “Imparo da lui
anche quando sta zitto”, ha dichiarato Beppe. Il che, considerando la
logorrea del Fondatore, è molto più di un complimento.
Purtroppo
impegnandosi assai nell’ascensione, Luigi Di Maio s’è dimenticato di
studiare. Dopo il diploma al liceo classico e nonostante le preghiere
della mamma insegnante di Lettere e latino, si è fatto un paio di
passeggiate dentro le facoltà prima di Ingegneria, poi di
Giurisprudenza, ma niente esami. Il suo libro di formazione è stato La
storia d’Italia di Montanelli e Cervi. E la biografia di Sandro Pertini.
Ruvido dispiacere per il padre Antonio, imprenditore edile, missino,
nostalgico del vecchio Giorgio Almirante, che quelli come Pertini li
metteva volentieri al muro. Segno che Luigi s’è affrancato dal babbo, al
netto dell’affetto e dell’Edipo. Né più né meno di quello che ha fatto
l’altro astro nascente del Movimento, lo spettinato Alessandro Di
Battista, figlio anche lui di un padre addirittura dannunziano e
probabilmente motociclista. Il che potrebbe dirci qualcosa in più di
quel che batte nei cuori stellati dei due figli. E se l’irruenza contro
l’autorità, i Palazzi e lo Stato repubblicano, considerati fino a ieri
scatole di tonno, sia il residuo involontario del vecchio sovversivismo
che nutrì l’epopea in camicia nera nell’Italia dei padri, o sia virata
per davvero nella forma libertaria, reticolare e pacifista rivendicata
dal Movimento, nell’Italia dei figli.
In attesa che qualche lume
lo accenda lo psicologo, o le future cronache politiche, uno dei due è
andato in California, a coltivare sogni & surf, l’altro è salito
in cima al ministero del Lavoro, dove lo attendono 160 tavoli di crisi,
il buco nero dell’Ilva di Taranto da risolvere, il guaio dell’Iva da
congelare, il guaio della flat tax da posticipare, il guaio del reddito
di cittadinanza da distribuire, oltre all’impazienza di undici milioni
di votanti, da qualche mese alla finestra.
Tutte cose da far
tremare i polsi a un politico navigato. Ma che lasciano imperturbabile
Luigi, che a volte esibisce una freddezza andreottiana nel carattere che
riverbera persino nel modo di transitare davanti alle telecamere,
muovendo le gambe, ma non le braccia. Un aplomb che di sicuro lo ha
aiutato negli anni della dura convivenza con la signora presidentessa
della Camera Laura Boldrini, intransigente in tutto, dai diritti delle
donne Masai, a quelli della neolingua da declinarsi sempre al femminile.
E dunque un poco faticosa per chiunque. Ma non per lui, accomodato e
accomodante dentro al suo sorriso.
Persino Renzi premier, provò un
giorno a scuoterlo. Nel pieno di una delle tante bagarre d’aula, gli
scrisse un bigliettino: “Scusa l’ingenuità caro Luigi, ma voi fate
sempre così? Mi ero fatto l’idea che su alcuni temi potessimo
confrontarci”. Quieta fu la risposta: “La tua maggioranza ha votato il
condono alle slot machine, miliardi per le banche e per gli F-35. Ti
aspettavi gli applausi?”.
È stato dunque con massimo stupore che
lo si vide, per la prima volta, perdere le staffe (e il senno) quella
famosa domenica 27 maggio in cui chiese – con le vene del collo gonfie –
niente di meno che la messa in stato di accusa del presidente Sergio
Mattarella: “Scenderemo in piazza il 2 giugno! Non rispetta le regole!
Non è più l’arbitro imparziale!”.
Invettiva che non lo fece
dormire per una notte intera, ma che seppe voltare in farsa il giorno
dopo, salendo in retromarcia al Colle per chiedere scusa, ignaro che i
costituzionalisti continuassero ad accapigliarsi tra i labirinti della
Carta e la sua filippica, mentre lo spread si alzava alto nei cieli
dell’Europa attonita.
Da politico cresciuto nell’era berlusconica,
ha imparato che si può dire e disdire qualunque cosa, compresi i
congiuntivi, e pazienza per i conti pubblici. Dicendo qualunque cosa ci
ha vinto le elezioni. Ha promesso soldi e insieme tagli. Rigore e “pace
fiscale”, cioè l’ennesimo condono. Ha giurato di non essere né di
destra, né di sinistra (“ma oltre”) per questo ha trattato con l’una e
l’altra. Nel 2014 dettava alle tv: “Firmiamo per uscire dall’euro”.
L’anno dopo diceva il contrario. Quello dopo ancora, il contrario del
contrario. E oggi, accomodato tra gli scranni del governo, l’opposto di
ieri: “Il Movimento non ha alcun interesse a uscire dall’euro”.
In
compenso su soldi e casta è stato di massima coerenza. Si è autoridotto
a 2.500 euro lo stipendio, finanziando col disavanzo il microcredito
destinato alle imprese. E con quel che gli restava in tasca, i suoi
completi da “venditore di Tecnocasa”, come gli rimproverano amici e
nemici. Ma specialmente è stato coerente con Silvio Berlusconi, non
azzardandosi mai a sedersi a un tavolo con lui, il Condannato, dopo i
vent’anni di astuti bivacchi allestiti dalla sinistra.
Scontato
che il suo fulmineo incedere abbia suscitato molti veleni. Gli hanno
perlustrato la vita privata a caccia di ombre. La vita sentimentale in
cerca di scandali. Quella sessuale in cerca di scoop. Vittorio Sgarbi,
accomodato in streaming sul trono che si merita, il cesso di casa, gli
ha augurato la morte fisica. Vittorio Feltri quella politica. Vincenzo
De Luca addirittura di trovarsi un lavoro. Ma tanto livore svela il
movente. E tutte e tre le contumelie fanno una prova: è livida invidia
per la sua atletica giovinezza. Senza curarsi dei risolini è andato in
visita a Washington e alla City di Londra. Ha letto in inglese meglio di
Renzi e Berlusconi, anche se ha detto più o meno le stesse cose:
“Investite da noi, siamo fortissimi”. Per mesi ha preteso per sé Palazzo
Chigi. Ma il giorno che ha capito le regole dell’aritmetica, ha chinato
il capo. E quando nessuno ci credeva più, ha rammendato un governo
nuovo di zecca, magari improbabile, ma prontissimo a ratificare le mille
nomine che arrederanno il nuovo potere nella Terza Repubblica. Lo ha
fatto con un signor nessuno, il silenzioso Giuseppe Conte, e con il più
periglioso degli alleati, Salvini, il Capitano, che a forza di coltivare
rancore e di dare spallate contro l’immigrazione, gli toglie voce,
centralità, terreno, spiazzandolo persino dentro al suo Movimento.
I
voti persi alle ultimissime Amministrative, i Cinque Stelle indagati
per lo stadio della Roma, sono le prime incrinature che guastano la
festa del trionfo. Mentre Aquarius – e il muro d’acqua fabbricato contro
i 629 migranti – segna l’esatta rotta dove la Lega di Salvini vuole
navigare, i confini asciutti dell’Ungheria di Orbán, destinazione Mosca.
Dalla
convivenza con l’alleato – e al netto del primo naufragio che l’ha
stordito – si capirà se Luigi Di Maio ricomincerà a nuotare, rivelandosi
miracoloso, oppure soltanto un miracolato.