domenica 10 giugno 2018

Il Fatto 10.6.18
I “dimenticati” nell’inferno dei lager libici
“Non lasciamoli soli” - Due giornalisti raccontano le storie dei migranti diretti in Italia
di Daniele Erler


Non è facile salire “sui barconi stracolmi di sofferenza e dolore”: provare a raccontare le vite di chi è normalmente considerato merce senza più umanità. “Per capire da dove vengono queste persone e dove vogliono andare a cercare una minima possibilità di futuro per sé e per la propria famiglia”. Francesco Viviano e Alessandra Ziniti – giornalisti di Repubblica – lo fanno ora in un libro: Non lasciamoli soli, edito da Chiarelettere.
Nei giorni scorsi il neo ministro dell’Interno Matteo Salvini ha detto che non tutto ciò che ha fatto il suo predecessore, Marco Minniti, andrà buttato. Il riferimento è all’accordo stretto con Tripoli che ha avuto l’oggettivo effetto di ridurre gli sbarchi. Ma andando a guardare quello che succede al di là del mare, Viviano e Ziniti hanno scoperto una realtà ancora poco raccontata. Migliaia di migranti intrappolati in Libia, ridotti a schiavi e torturati. Donne e bambine violentate, costrette a prostituirsi. Giovani in fuga che si devono reinventare torturatori. I due giornalisti hanno raccolto le testimonianze di chi è riuscito a fuggire dai lager libici, per raccontare le storie di chi è anima e corpo, non solo – come ha scritto, in introduzione al libro, l’ex sindaco di Lampedusa Giusi Nicolini – “una figura di cartone”.
In Non lasciamoli soli si parla anche delle ong, le organizzazioni non governative. Un capitolo è dedicato a Medici senza frontiere. Uno dei responsabili, Marco Bertotto, racconta come ha vissuto in prima persona il fuoco di fila contro di loro: “Ci hanno accusato di aver violato le leggi del mare, di complicità con il network di scafisti, di incentivare con la nostra presenza le partenze dei barconi dalla Libia e addirittura di aver contribuito ad aumentare la mortalità in mare”. All’inizio erano piccole teorie cospirative. Poi il tema è stato affrontato in un rapporto da Frontex e il capo della Dda di Catania Carmelo Zuccaro ha aperto un’indagine su un’ipotesi di associazione a delinquere fin qui non riconosciuta dai giudici.
Per le ong è sempre più difficile scrollarsi di dosso il pregiudizio di essere un incentivo per chi deve partire. La realtà – sostengono Viviano e Ziniti – è che gli sbarchi in Italia sono sì diminuiti nell’ultimo anno, ma non le partenze e le morti in mare, spesso per l’inadeguatezza della guardia costiera libica. “Nessun accordo e nessun muro – scrivono – potrà arrestare il flusso migratorio epocale di questi ultimi anni, le cui radici affondano nelle drammatiche condizioni di vita di buona parte dei paesi dell’Africa, divenuta una bomba a orologeria oltre che un nuovo campo di semina della jihad”.
Fra le storie, c’è quella di Rambo: arrivato in Libia dalla Nigeria per migrare, riconvertitosi a torturatore, nei lager stipati da chi non può partire. Rambo – vero nome John Ogais – usava la corrente elettrica per torturare. Di giorno uccideva, di notte stuprava. Ma il suo destino si deciderà in un tribunale italiano, dato che anche lui alla fine è sbarcato, ha cercato protezione internazionale, ha trovato le manette: un suo ex schiavo lo aveva denunciato. C’è la storia di Segen: trentacinque chili a 22 anni, diciannove mesi di prigionia in Libia, la morte su un barcone. E quella di Ahmed, lo schiavo scelto per fare il becchino del mare, a riempire le fosse comuni sotto le dune di sabbia del deserto. Samir e Abbas, venduti all’asta, da un padrone all’altro. Maryam che voleva fare il medico ed è stata costretta a prostituirsi.
Tutti racconti che si svolgono con lo stesso scenario: il sole della Libia, la sabbia del deserto, il nero del mare. E quella voglia disperata, spesso illusoria, di immaginarsi un futuro.