Corriere La Lettura 24.6.18
Piacere e tristezza, gioia e sgomento: il cervello emotivo
di Luigi Ripamonti
«Tu
chiamale se vuoi emozioni». Lucio Battisti avrà avuto idea di quale
bomba concettuale gli aveva piazzato Mogol sotto lo spartito? Forse no,
altrimenti avrebbe proposto alternative meno problematiche. Ne spiega
bene il perché Jan Plamper in Storia delle emozioni, a partire dal
mainstream divulgativo che associa le emozioni alle reazioni tipo
«fuggi-o-combatti», che sarebbero mediate dall’amigdala, piccola
ghiandola più o meno al centro del cervello. Anche fosse così semplice
(e non lo è) si tratterebbe solo di un’estrema semplificazione della
visione neuroanatomica, deterministica, delle emozioni, a cui se ne
contrappone una antropologica, socio-culturale. L’ipotesi
deterministica-universalistica sostiene che le emozioni hanno un
sostrato costante trans-storico e una validità generale: la paura
davanti al nemico è sempre la stessa per tutti e produce le stesse
manifestazioni corporee. Secondo la lettura antropologica le emozioni
non hanno invece lo stesso valore sempre e dappertutto e, in ogni caso, i
modelli culturali possono neutralizzare risposte emotive ritenute
innate e automatiche.
Già la definizione stessa di emozioni, del
resto, è ardua. Se ne sono occupate filosofia, teologia, retorica,
medicina, letteratura, psicologia sperimentale e neuroscienze. Solo fra
il 1872 e il 1980 ne sono state date 92 definizioni diverse. La storia
delle emozioni è una storia, appunto, e l’autore ne traccia le tappe
fondamentali nella filosofia occidentale da Aristotele a Kant, passando
per Agostino, Cartesio, Spinoza, Hobbes e Locke. Ma non basta, perché è
difficile una descrizione panculturale delle emozioni. A noi appare
bizzarra l’esplosione di riso ai funerali e di tristezza ai matrimoni,
normale in certi Paesi. Può sorprenderci constatare il tenace controllo
della rabbia negli eschimesi e, al contrario, la favorevole accoglienza
delle esplosioni d’ira presso i tahitiani. A partire dal Novecento
queste osservazioni, da cui trae argomenti il costruttivismo sociale,
hanno dovuto fare i conti con l’ingresso sulla scena di nuove visioni,
che hanno spostato l’interesse verso il «partito» universalistico delle
emozioni. Fra queste la posizione di Paul Ekman, sostenitore della
necessità di superare la prospettiva linguistica delle emozioni per
passare a un loro studio fondato sulle espressioni del viso. Per Ekman
ci sono reazioni invariabili in tutti i volti, riferibili a emozioni
base, programmi affettivi predefiniti che sono destati da stimoli
esterni, indipendentemente da fattori culturali. La tesi di Ekman viene
messa in discussione da Plamper, che richiama le critiche, soprattutto
di metodo, di cui è stata fatta oggetto. Dagli anni Sessanta del secolo
scorso la ricerca sulle emozioni è poi virata sul paradigma della
misurazione attraverso strumenti ad hoc (modificazione del battito
cardiaco, pH, eccetera, a seguito di precisi stimoli). Ma mai è stato
provato che a essere misurate così fossero proprio le emozioni.
A
sparigliare davvero le carte è stato invece l’avvento della risonanza
magnetica funzionale, capace di registrare in vivo l’attivazione delle
diverse aree del cervello sulla base dell’irrorazione di sangue. Lo
tsunami di studi e di investimenti che ne sono seguiti ha convogliato un
enorme interesse sull’argomento, ma ha anche condotto a semplificazioni
talora azzardate. Plamper traccia i limiti di questo approccio anche in
chiave tecnica, insistendo in particolare sull’insufficiente
definizione anatomica e sul rumore di fondo statistico del metodo (che
ha consentito, fra l’altro, di registrare l’attività cerebrale di un
salmone morto). Nondimeno l’avvento del moderno imaging cerebrale ha
generato modelli interpretativi che hanno avuto larga diffusione, grazie
anche a divulgatori scientifici brillanti come LeDoux, Damasio o
Rizzolatti. Plamper illustra le loro tesi non senza spirito critico,
soprattutto relativamente al ruolo della pubblicistica scientifica. Il
suo auspicio è che si giunga a una ricomposizione fra visione
universalistica e costruttivista. E se l’approccio socioculturale e
storico dev’essere valorizzato, i suoi fautori vengono però invitati ad
avvalersi delle neuroscienze, seppure in modo consapevole e informato.