domenica 24 giugno 2018

Corriere La Lettura 24.6.18
Grazie Stephen
La grandezza di Hawking
Ero certo che la vita non continua in alcun modo dopo la morte
Come molti scienziati amava usare “dio” per frasi ad effetti, ma era limpidamente e risolutamente ateo, senza ambiguità o incertezze e non ha esitato a dirlo chiaramente
Soprattutto dobbiam essergli grati per l’amore per la vita che ha trasmesso fino all’ultimo, quando comunicava unicamente con gli occhi
di Carlo Rovelli


Stephen Hawking non è più con noi. Ci mancano il suo sorriso sornione e l’irriverenza ragazzina che non ha mai perso neanche da vecchio e malato. E quanto malato... Sono trascorsi solo tre mesi e dieci giorni dalla sua scomparsa, ma possiamo forse già provare a chiederci, serenamente e al di là delle reazioni immediate, che cosa ci ha davvero lasciato, nella fisica e non solo.
Provo a farlo, in punta di piedi, in nome dell’amicizia e della grande ammirazione che ho per lui. Stephen è stato per prima cosa un ottimo fisico, uno fra quelli davvero bravi della sua generazione, non il grande scienziato del secolo, il novello Einstein o il novello Newton delle tante esagerazioni, esagerazioni che lui stesso non ha esitato un attimo a nutrire nella sua giocosa sfacciataggine. Inizio quindi provando a dire quali sono stati i suoi risultati scientifici importanti.
La scoperta maggiore, quella che resterà legata al suo nome, è stata la dimostrazione che i buchi neri si comportano come fossero caldi: irraggiano calore come una stufa. Vi è arrivato nel 1974 con un calcolo complesso e delicato che mescolava abilmente tecniche di relatività generale e di teoria delle particelle elementari. La temperatura che ha calcolato si chiama oggi «temperatura di Hawking»: dipende da quanto è grande il buco nero. Più un buco nero è grande, più è freddo. I buchi neri caldi sono quindi quelli piccoli.
Il risultato ha suscitato sorpresa negli anni Settanta, rendendo Stephen, poco più che trentenne, assai noto fra i fisici teorici. Prima, nessuno si aspettava che ci potesse essere una temperatura per un buco nero. Neanche lui, prima di terminare il conto. Il calore irraggiato dai buchi neri caldi è chiamato oggi «radiazione di Hawking». Non è mai stato osservato, e sarà difficile sia osservato presto, perché è debole. Ma la sua esistenza è stata poi derivata nuovamente in molti modi diversi, ed è oggi accettata come molto plausibile dalla larga maggioranza degli scienziati. Ci sono tentativi di riprodurre qualcosa di simile in laboratorio, ma senza i veri buchi neri, usando sistemi che ne mimino alcuni aspetti.
Perché è importante la «radiazione di Hawking»? Perché è un fenomeno che coinvolge tanto la struttura dello spaziotempo quanto la meccanica quantistica. Questo lo rende un indizio importante rispetto al grande problema aperto della fisica contemporanea: trovare una teoria di «gravità quantistica», cioè una teoria che descriva tutti gli aspetti «quantistici» dello spazio e del tempo. Molta ricerca attuale fa quindi uso del risultato di Hawking, o cerca di approfondirlo. Nel gruppo di ricerca dove lavoro, per esempio, stiamo ora cercando di usare una possibile teoria di gravità quantistica per calcolare che cosa succede a un buco nero dopo essersi consumato irraggiando radiazione di Hawking. C’è una formula bellissima che riassume il risultato di Hawking. Non è la formula che dà la temperatura, ma quella che dà l’entropia S del buco nero (da cui la temperatura deriva) in funzione dell’area A della sua superficie. La formula, semplice, è questa:
La bellezza di questa formula consiste nella sua semplicità, ma sopratutto nel fatto che combina le 4 costanti che stanno alla base dei quattro capitoli fondamentali della fisica: la costante di Boltzmann k alla radice della termodinamica, la velocità della luce c della relatività, la costante di Newton G che caratterizza la gravità, cioè la struttura dello spaziotempo, e la costante di Planckħh alla base della meccanica quantistica. Nessuna altra formula nota mette insieme così elegantemente tutti i capitoli di base della nostra fisica. Stephen ha chiesto, a ragione, che questa formula sia scritta sulla sua tomba.
Fra i risultati minori di Stephen, i più rilevanti sono due. Da giovane, in collaborazione con il grande matematico inglese Roger Penrose, ha dimostrato che la teoria di Einstein prevede che l’universo sia nato da un «big bang»: punto singolare dove la teoria non funziona più. Questa conclusione era stata ottenuta precedentemente solo assumendo, poco realisticamente, che l’universo sia esattamente omogeneo. Il teorema di Penrose e Hawking mostra che la semplificazione non è necessaria. Questo ha reso il Big Bang più credibile.
Stephen è poi tornato sulla questione del Big Bang negli anni Ottanta, cercando di mostrare come una teoria quantistica possa effettivamente descrivere la nascita dell’universo. Ha costruito un affascinante modello intuitivo di gravità quantistica e l’ha applicato all’inizio dell’universo. Il modello è oggi considerato una delle possibilità, ma altre idee, forse più plausibili, sono oggi discusse.
C’è un filo che unisce questi risultati. Da ragazzo Stephen si è appassionato alla grande teoria di Einstein. Allora le applicazioni erano poche e la ricerca era matematica. Le previsioni fisiche spettacolari come buchi neri e Big Bang erano ancora considerate esoteriche e sospette. Penrose le aveva rafforzate mostrando che i buchi neri si formano di sicuro quando abbastanza materia si concentra, e Stephen ha avuto l’idea di usare le tecniche di Penrose per studiare la nascita dell’universo. L’idea è stata che in fondo la nascita dell’universo è un po’ come un collasso di un buco nero visto a ritroso nel tempo. Aver chiarito che dentro i buchi neri e nell’universo primordiale la relatività generale di Einstein diventa insufficiente ha spinto Stephen a cominciare a considerare effetti quantistici. In questo modo è arrivato alla radiazione di Hawking. Poi negli anni successivi ha cercato di usare pienamente la meccanica quantistica per rivedere il problema dell’inizio dell’universo alla luce dei quanti. Tutti questi problemi, sia chiaro, non sono ancora risolti. Ma in una discussione oggi su di essi non è raro sentire citato il nome di Hawking o una qualche sua idea.
Questi cenni non esauriscono l’attività teorica di Hawking, ma spero possano dare il senso di quello che ci ha lasciato nella fisica.
La vera grandezza di Stephen, però, io credo sia altrove. La sua grandezza è stata umana. Inchiodato su una sedia a rotelle, ha progressivamente perso il controllo di tutti i muscoli del corpo. L’ultima volta che l’ho incontrato, a Stoccolma, riusciva a muovere appena gli occhi. Comunicava muovendoli: un sistema elettronico leggeva il movimento dei suoi occhi con una piccola telecamera, e grazie a questo Stephen controllava un computer e metteva laboriosamente lettere in fila, per costruire parole, che venivano infine pronunciate da un sintetizzatore vocale. Uno strazio, guardarlo in questo processo faticoso e lentissimo. Eppure la voce di quel sintetizzatore vocale è arrivata al mondo intero. Quella voce metallica così caratteristica, Stephen è riuscito a farla sua e farne il tramite quasi naturale della sua brillante intelligenza e della sua ironia.
Non si è perso d’animo. Ha continuato a produrre fisica di grande qualità, mentre lo stato del suo corpo non faceva che deteriorare. In condizioni che rasentano l’impossibile, è riuscito a comporre un libro di immenso successo (Dal big bang ai buchi neri. Breve storia del tempo). Nei trent’anni dalla sua pubblicazione ha venduto oltre 10 milioni di copie, e continua a essere letto. Attraverso questo libro ha parlato ai giovani del mondo intero, incantandoli e ispirandoli a studiare l’universo.
Nell’estrema sfortuna di una simile disabilità, Stephen ha avuto anche non poche fortune: un’intelligenza molto rara, un’ottima famiglia dell’intellighenzia inglese, un’educazione di primissimo ordine, un decorso della malattia lento nonostante catastrofiche previsioni iniziali. Il suo valore scientifico, poi la sua fama, gli hanno permesso quello che altri con simili infermità non possono permettersi. Ma anche tenendo conto di tutto questo, Stephen, nel suo modo un po’ sfacciato da eterno ragazzetto impunito, ha dato al mondo una lezione umana straordinaria. Una lezione di amore per la vita, per l’intelligenza, per la curiosità.
Il giorno successivo al piccolo meeting di Stoccolma dove era così difficile e straziante comunicare con lui, Stephen dava una conferenza nel più immenso teatro della città. Gremito all’inverosimile di giovani che pendevano dalle sue labbra. È arrivato sul palco con il suo sorriso mite, la sua mitica sedia a rotelle, e ha fatto partire la registrazione della sua conferenza, preparata muovendo i muscoli degli occhi. Ha raccontato i suoi ultimi tentativi di comprendere il futuro dei buchi neri, ha scherzato, preso in giro i francesi, giocato sul senso della vita, irrispettoso, ribelle, con un sorriso fra le labbra che traspariva da ogni frase. L’immenso pubblico ne era stregato. Le parole finali erano ancora una dichiarazione di amore per la vita, come sempre giocata sull’ambiguità: dai buchi neri si può uscire.
Stephen era certo che la vita non continua in alcun modo dopo la morte. Come molti scienziati, amava usare «Dio» per frasi a effetto, ma era limpidamente e risolutamente ateo, senza ambiguità o incertezze, e non ha esitato a dirlo chiaramente. Non era in consolazioni trascendenti che trovava forza. Era prigioniero della più debilitante delle infermità, legato al resto di tutti noi da un filo sempre più esile. Eppure ha continuato a vivere fino all’ultimo istante con intensità bruciante, a scherzare, a parlare al mondo intero, a comunicare allegria e gioia, a trascinare la gioventù nei suoi entusiasmi. Non è questa una straordinaria lezione di vita per tutti noi lagnoni? Non è questo il dono infinitamente prezioso che Stephen ci lascia? L’irresistibile luminosa forza della vita, della curiosità, del pensiero, dell’intelligenza.
Ora quel filo esilissimo si è spezzato. Prima di sparire del tutto, come succede a ogni cosa, sciogliendosi nell’immensità di quello sterminato cosmo che tanto amava, Stephen resta ancora per un po’ vivo e operante nella nostra scienza, nella nostra memoria, nelle nostre emozioni, nei nostri pensieri.
Grazie, Stephen.

Corriere La Lettura 24.6.18
La possibilità del padre: diventare un uomo migliore
La verità e la fatica della relazione tra genitori e figli
Lacoonte deve lottare con i serpenti, Abramo è pronto a uccidere Isacco, Ettore abbandona Astianatte
di Alberto Pellai


Si entra in questa mostra con tutta la propria storia di vita. Si guarda ai padri raccontati dalle opere d’arte e ci si interroga ininterrottamente intorno a che cosa — del padre che abbiamo avuto, del padre che siamo o del padre che abbiamo accanto a noi a crescere i nostri figli — c’è in quella storia, in quell’immagine, in quella relazione che le opere ci mettono davanti agli occhi. Ogni opera mostra un padre in azione ma spesso dietro a un particolare o a un’immagine c’è un’intera storia che si dovrebbe conoscere.
Intense, nell’esposizione Padri e figli (a Illegio, Udine), sono certamente le figure paterne tratte dai miti, come Ettore pronto a partire per la guerra, che compare cinque volte. Nel partire deve salutare la moglie Andromaca e il figlio Astianatte. E la narrazione ci racconta che il grande guerriero non riesce a rimanere insensibile al pianto disperato del proprio bambino, che «sente» la dolorosa tensione della madre e che al tempo stesso non sa riconoscere il proprio padre, nascosto dall’elmo. Lui allora si toglie l’elmo per poterlo salutare e farsi riconoscere come padre nel momento del distacco. Il più terribile. C’è, in questa storia presa dal mito, la quotidianità di molti figli di oggi, che nel mondo globale vedono partire i padri, non verso la guerra ma verso terre di «speranza». Il tragitto a volte è come una guerra, se non peggiore.
Il padre che si sacrifica per la sopravvivenza della propria prole è presente in questa mostra anche nell’opera che ne è l’immagine ufficiale: si tratta della copia in gesso della splendida statua di Agesandro, Polidoro, Atenodoro (l’originale in marmo è conservato nei Musei Vaticani) che raffigura Laocoonte nel disperato tentativo di salvare i figli dalla minaccia mortale rappresentata da due enormi serpenti marini, che stanno per stritolarli. In questa statua dalla bellezza perfetta, tutto è possenza, vigore e disperazione allo stesso tempo. Noi sappiamo che il sacrificio di Laocoonte purtroppo è inutile e che lui, nel tentativo di salvare la prole, incontrerà lo stesso destino mortale. Ma nella potenza muscolare e nella forza con cui il padre cerca di fermare l’aggressione dei mostri marini, possiamo rivedere la stessa determinazione e potenza con cui alcuni padri di oggi cercano di «ri-afferrare» i propri figli persi nel loro percorso di crescita, spesso immersi in un comportamento a rischio che ne attenta la sopravvivenza. Sono situazioni in cui il dolce e protettivo amore materno non può nulla e l’unica salvezza — a volte attivata proprio dall’intervento del terapeuta — è rappresentata dal rimettere sulla scena educativa la figura di un padre Laocoonte, la cui autorevolezza ferma la caduta e ridona spinta alla crescita funzionale del figlio.
E il padre che ha dato la vita al proprio figlio e gli ha insegnato come si sta al mondo, conducendolo all’adultità, non potrà che averne, in vecchiaia, la gioia di vedersi tenuto per mano da lui, anche nel momento della difficoltà, ricevendone cure e affetto. È questo ciò che ci viene raccontato nelle due opere in cui si vede Enea che porta sulle proprie spalle il vecchio padre Anchise. Con loro c’è Ascanio, figlio di Enea: una rappresentazione in cui le generazioni degli uomini di una famiglia appaiono tutte insieme sospese tra passato e futuro. E sono tre le opere che raccontano la delicatezza e tenerezza con cui Tobia guarisce gli occhi ciechi del suo vecchio padre. In particolare la tela di Matthias Stomer incanta per la delicatezza con cui il figlio sfiora gli occhi ciechi del padre, una scena che richiama i gesti di cura che molti adulti di oggi agiscono sul corpo dei loro padri divenuti anziani e infermi.
La mostra è una galleria di immagini, ognuna delle quali richiama una storia che contiene la verità, ma anche la fatica, a volte la durezza della relazione padri-figli. C’è la scena biblica di Abramo pronto a sacrificare il figlio Isacco; c’è il Conte Ugolino chiuso nella torre in cui morirà di inedia con i figli a causa delle proprie posizioni politiche; c’è Ivan il Terribile reo di aver ucciso il figlio: insomma ci sono scene e storie di paternità connotate da figliolanze drammatiche.
Così, di fronte a padri eroici, a padri crudeli, a padri capaci di grandi gesti di cura, ognuno in questa mostra può ritrovare pezzi di sé, rivedere — nel bene e nel male — ciò che gli è successo, sentire il rimpianto per ciò che avrebbe potuto essere stato e invece non è avvenuto. Colpisce in modo intenso e profondo la tela che raffigura il padre misericordioso e il figliol prodigo finalmente ricongiunti: nella vicenda della parabola evangelica c’è tutta la saggezza di un padre che sa accogliere il figlio che ha sbagliato e che, al tempo stesso, ne perdona l’errore senza farlo sentire sbagliato. Un figlio che non sa alzare lo sguardo verso gli occhi del padre, che però lo riaccoglie a sé con un abbraccio che rigenera l’alleanza. Una storia che celebra la capacità di perdono del padre, che ne rivela la misericordia ancora prima dell’autorità. Straziante invece la separazione raccontata nel quadro Adieu di Alfred Guillou, in cui un naufrago bacia per l’ultima volta il figlio che non è riuscito a sopravvivere alla violenza delle onde. C’è tanta tenerezza in questo addio, tenerezza che si ritrova in altre opere della mostra che offrono della paternità tutte le dimensioni e tutte le caratteristiche, lontane da ogni facile stereotipo.
Rimane, a dare senso a tutto, la relazione paterna per eccellenza, quella che nel mondo cristiano ha visto un Dio Padre donarsi al mondo attraverso il proprio figlio. La paternità di Dio torna nelle molte immagini sacre di questa mostra e costringe tutti ad alzare lo sguardo, riflettendo sul privilegio che la paternità regala a ogni uomo che diventa padre: la possibilità di diventare un uomo migliore, proprio come forse sta pensando quel papà — sospeso nei propri pensieri — presente nella tela Figlioletto di un anonimo carcerato, che va a trovare suo papà e gioca con lui di Vasily Vereshchagin, una tela che ci richiama alla nostra responsabilità genitoriale, anche nelle situazioni più complesse e difficili.

il manifesto 24.6.18
Vaticano, primo processo (con condanna) per pedopornografia
Giustizia. Condannato a cinque anni di reclusione da un tribunale della Santa Sede, monsignor Carlo Alberto Capella, consigliere presso la nunziatura apostolica di Washington
di Luca Kocci


È stato condannato dal Tribunale del Vaticano a cinque anni di reclusione per «divulgazione, trasmissione, offerta e detenzione» di materiale pedopornografico, monsignor Carlo Alberto Capella, consigliere presso la nunziatura apostolica di Washington, l’ambasciata vaticana negli Stati Uniti.
La sentenza è arrivata ieri, dopo un processo lampo durante il quale il prelato, pur giustificando la sua condotta con un fase di profonda «crisi interiore» causata dal suo trasferimento da Roma a Washington, ha ammesso le proprie responsabilità.
Cinquanta anni, prete dal 1993, dopo il servizio in alcune parrocchie milanesi, Capella entra nella diplomazia vaticana. Lavora in India, ad Hong Kong, poi viene richiamato a Roma, alla Segreteria di Stato, fino al trasferimento alla nunziatura di Washington, nel 2016. Qui, a causa di quello che il prelato definisce un «profondo senso di vuoto», inizia a frequentare piattaforme online e social network di condivisione di immagini e video. Viene individuato dalle polizie di Canada (durante un trasferta in Ontario) e Stati Uniti, e il Dipartimento di Stato Usa notifica al Vaticano la violazione delle norme in materia di immagini pedopornografiche da parte del diplomatico.
La Santa sede, prima che Oltreoceano venga emesso un ordine di cattura, lo richiama in Vaticano, dove viene arrestato lo scorso 7 aprile. Sui telefoni, i pc e gli hard disk di Capella vengono trovate oltre 50 immagini e filmati di bambini ed adolescenti in atti sessuali espliciti. Quanto basta per rinviarlo a giudizio.
L’accusa chiede 5 anni e 9 mesi, il massimo della pena. La difesa tenta di ridimensionare l’entità e la gravità dei reati, appellandosi alle problematiche di natura psicologica del diplomatico e al fatto che una cinquantina di immagini e video in fondo non sono poi così tante da determinare un aumento di pena. Ma il tribunale condanna Capella a cinque anni, valutando anche la «continuazione» del reato e «l’ingente materiale» detenuto e divulgato.
Ora il prelato potrà fare appello al tribunale di secondo grado, ma non è detto che ciò avverrà, vista l’evidenza delle prove a suo carico. Parallelamente partirà il processo canonico presso la Congregazione della dottrina della fede (l’ex Sant’Uffizio), che potrebbe concludersi anche con la dimissione dalla stato clericale del diplomatico.
Capella è attualmente recluso in una cella della gendarmeria vaticana, ma è improbabile che vi possa trascorrere i cinque anni a cui è stato condannato. È la prima volta che in un tribunale vaticano si svolge un processo per pedopornografia, un reato peraltro prima non presente e introdotto nel codice penale da papa Francesco nel luglio 2013. Si può ipotizzare che il richiamo in Vaticano di Capella e il processo entro le mura leonine sia stato un modo per sottrarlo alla giustizia statunitense e canadese, ma è anche vero che il processo “in casa” è tipico della prassi diplomatica fra gli Stati, compresi quelli laici.
Sempre sul fronte pedofilia ecclesiastica e sempre dagli Usa, l’altro ieri è arrivata la notizia che papa Francesco ha sospeso dal ministero sacerdotale pubblico il cardinale Theodore McCarrick, 88 anni, arcivescovo emerito di Washington, accusato di aver abusato di un adolescente 45 anni fa. E a breve potrebbe arrivare, stavolta dall’Australia, la sentenza del processo in cui il cardinale George Pell – il superministro vaticano dell’economia, per il momento “congelato” – è imputato per pedofilia

Il Fatto 24.6.18
Foto e film pedoporno, Monsignor Capella condannato a 5 anni


Il tribunale vaticano ha condannato a cinque anni di reclusione il diplomatico vaticano monsignor Carlo Alberto Capella riconoscendolo colpevole di detenzione, cessione e trasmissione di materiale pedopornografico. Si tratta del massimo della pena per questo reato a cui l’accusa aveva chiesto di aggiungere nove mesi di aggravante motivata dall’”ingente quantità” di materiale trattato dall’uomo. Richiesta, questa, tuttavia non soddisfatta dalla Corte che pur riconoscendo l’ampio numero di immagini usate dall’uomo di chiesa ha deciso di concedergli le attenuanti generiche. Capella dovrà inoltre pagare una multa da 5 mila euro, la metà rispetto a quella chiesta dall’accusa che equivaleva inizialmente a 10 mila. I fatti risalgono al 2016 anno in cui il monsignore si trasferì a Washington per lavorare nella prestigiosa sede vaticana iniziando a condividere le immagini incriminate. Capella, che ora rischia la riduzione allo stato laicale, è apparso molto provato e al termine del processo si è detto dispiaciuto di avere messo la Chiesa in difficoltà e ha espresso la propria volontà di continuare il proprio sostegno psicologico.

Corriere 24.6.18
Percorsi Secondo Sant’Agostino e Cartesio è la bussola della ragione, l’opposto dello scetticismo a oltranza di certi filosofi
Contro la retorica del dubbio
La sua mancanza genera il dogmatismo, ma il rischio è il relativismo
di Claudio Magris


Se si incomincia a dubitare della propria moglie, si dice in un racconto di Singer — Isaac Bashevis Singer — si finisce per dubitare delle Sacre Scritture. Non è solo una battuta. L’opera del grande narratore yiddish, che ho conosciuto bene — uno dei grandi incontri della mia vita — è una ricerca di verità permeata dal senso profondo della sua forse inattingibile conoscenza, ma anche della sua misteriosa realtà. Molti dei personaggi di Singer sono ricercatori della verità — spesso falliti ma, nel momento estremo di tale fallimento, sono, forse senza saperlo, dinanzi ad essa.
Quell’ironica esortazione a non dubitare, smentita da tanti protagonisti dei suoi racconti e romanzi, va presa sul serio. Anzitutto c’è dubbio e dubbio. Ovviamente Singer non ha nulla a che vedere con la presuntuosa pretesa di conoscere e possedere la verità, pretesa madre di tanti dogmatismi e anche di intolleranze e di persecuzioni nei riguardi di chi non la condivide o ne dubita. Ma Singer non ha nulla da spartire con la retorica del dubbio, ora più che mai imperante nelle forme più banali, retoriche e stereotipe. Il dubbio creativo non è ottusa e arrogante indifferenza alla verità, indifferenza che ora sembra obbligatoria per essere considerati evoluti, al passo con i tempi e di mente criticamente aperta. C’è una banale celebrazione del dubbio come del relativismo, inteso non già quale necessario ingrediente nella ricerca della verità e quale correttivo della presunzione di averla raggiunta e di possederla, bensì quale indifferenza. Atteggiamento analizzato da Tito Perlini in uno splendido saggio. Io sono antisemita, tu no, ognuno di noi due ha la propria opinione, parimenti da rispettare. Orrenda e stupida falsificazione della tolleranza. Nella parabola dei tre anelli ripresa da Lessing nel suo dramma Nathan il saggio — capolavoro dell’Illuminismo, della libertà di coscienza e dell’autentica tolleranza — si parla di tre anelli, che simboleggiano le tre grandi religioni monoteiste, ebraismo, cristianesimo e islamismo. Uno degli anelli è quello autentico, originale; gli altri due sono imitazioni perfette — dice la parabola — indistinguibili da quello vero. Non è dunque possibile sapere quale sia la verità, che si può intravvedere soltanto di riflesso, nell’umanità di chi lo porta al dito; chi si dimostra più umano, più capace di amore e comprensione verso gli altri, più aperto è — dei tre — colui che verosimilmente ha al dito l’anello vero. Ma l’impossibilità di conoscere la verità non ne nega l’esistenza. Essa, dice Lessing, appartiene solo a Dio, mentre il compito dell’uomo è quello di ricercarla, di avvicinarsi il più possibile a essa. La verità non si può guardare direttamente, perché è insostenibile, accecante, come nell’episodio evangelico della Trasfigurazione. Kafka, ossessionato dall’idea della verità e della sua inafferrabilità, diceva che solo la smorfia sul viso abbagliato che si ritrae dalla sua vista è vera. Soltanto nel suo multicolore riflesso, si dice nel Faust di Goethe, possediamo la vita.
In questo cammino della mente e del cuore il dubbio ha un ruolo essenziale, necessario. Non il dubbio sterilmente e arrogantemente autocompiaciuto o quello smarrito in un’incertezza psicologica bensì il dubbio quale consapevolezza autocritica dei propri limiti e delle proprie insicurezze. In questo senso il dubbio è il sale, l’essenza, il motore di ogni ricerca del pensiero; è anzi lo stesso pensiero. Se dubito, afferma Cartesio, penso, e se penso sono. Attraverso l’uso sistematico del dubbio si raggiunge un’evidenza certa e indubitabile; dubbio quale via alla verità. Il dubbio metodico — secondo Cartesio, ma già secondo Sant’Agostino — è una bussola della ragione nel suo viaggio verso la verità; è dunque il contrario del dubbio assoluto, dello scetticismo a oltranza professato da antichi e moderni, sin da Pirrone, contemporaneo di Alessandro Magno, e dai suoi discepoli, per i quali le cose sono senza misura e indiscernibili e non sopportano alcuna affermazione nei loro confronti bensì solo l’afasia, il silenzio, e inducono, quale atteggiamento, alla sospensione di ogni giudizio e all’atarassia, l’imperturbabile indifferenza che è l’unica felicità. Essere «senza opinioni», senza inclinazioni, senza turbamenti.
Il dubbio assoluto degli scettici a oltranza, il pirronismo e altre scuole analoghe, è stato respinto proprio dal filosofi che hanno affermato e seguito il «dubbio metodico», considerandolo necessario alla ricerca della verità, a sua volta tappa di ulteriore ricerca di una verità più completa. Il pensiero, per Cartesio, possiede una certezza originaria di fronte a se stesso. La grande letteratura barocca ha fatto capire per sempre che la vida es sueño, la vita è sogno, e che di tutto si deve dubitare, ma l’io che dubita, che sogna, che pensa, sa in tal modo di esistere.
La ricerca della verità richiede pure l’abbandono di ogni certezza spontanea e di ogni sapere ricevuto, in particolare di ogni pregiudizio, ma alla fine del rigoroso processo conoscitivo la verità si impone all’intelletto dell’uomo. La scoperta che l’uomo fa della propria esistenza, di se stesso come essere dubitante e pensante, perviene — secondo Cartesio — all’idea di Dio e alla dimostrazione della sua esistenza. A ciò sono collegate le dimostrazioni delle verità intrinseche delle conoscenze matematiche. Come sappiamo, il dualismo assoluto di Cartesio fra res cogitans e res extensa e le sue conseguenti teorie sull’anima e la corporeità, la biologia e la fisica, la materia e il pensiero sono state criticate, ad esempio da Newton e da Leibniz. Ma Cartesio ribadisce con forza che nessuna nozione umana può sottrarsi al dubbio, punto di partenza per giungere ad ogni verità ulteriore.
Secoli più tardi, Husserl ribadisce la necessità di sospendere la validità di ogni teoria e di ogni giudizio e preconcetto. Husserl afferma l’epoché, la sospensione di ogni convenzione sino all’evidenza sensibile, che può essere colta e affermata solo con la pura descrizione fenomenologica. Così, si può aggiungere, i fiori dei campi che Gesù invita a guardare nella loro semplicità più gloriosa del fasto di Salomone, non ammettono dubbi. Semplicemente sono. La scienza moderna, secondo Husserl, ha soffocato questa evidenza sensibile delle cose e della vita, già tanto cara a Goethe; la psicologia positivista ha ridotto, ha reciso o fatto appassire quei fiori, tendendo a ridurre pure l’individuo a mera cosa.

il manifesto 24.6.18
Immigrazione, in una folle giostra di paure e minacce non c’è nessun progetto europeo condiviso
di Anna Maria Merlo


PARIGI Non è prevista nessuna dichiarazione finale alla riunione informale che ha luogo oggi a Bruxelles per sminare il terreno sul dossier immigrazione prima del Consiglio europeo del 28-29 giugno.
Un buon risultato, si ammette nella Commissione, sarebbe di arrivare almeno a una condivisione dell’analisi delle questioni (evitando escalation di insulti, come è stato negli ultimi giorni tra Italia e Francia), a partire dal significato che viene dato ai termini utilizzati.
La riunione è boicottata dai paesi dell’est, assenti per far valere posizioni di chiusura totale verso l’accoglienza, rinnegando il principio di base della costruzione europea, il binomio responsabilità-solidarietà.
In tutto, dovrebbero essere presenti una quindicina di paesi, il fronte sud della Ue (l’Italia, tentata dal gran rifiuto, ha poi cambiato idea), Bulgaria e Romania, poi il gruppo Francia, Germania, Benelux, Austria, i nordici, che sono implicati soprattutto per la questione degli «ingressi secondari», migranti in provenienza da altri paesi Ue.
Angela Merkel arriva indebolita per gli ultimatum del suo ministro degli Interni, «crazy Horst» Seehofer, che vuole una soluzione anche bilaterale al problema dei «movimenti secondari».
Ieri mattina, Pedro Sanchez è stato ricevuto all’Eliseo da Emmanuel Macron: di fronte al primo ministro spagnolo, che ricevendo l’Aquarius ha mostrato un volto umano dell’Europa, il presidente francese ha potuto migliorare la sua immagine, un po’ ammaccata, su questo fronte, difendendo la creazione di «centri» per migranti sul suolo europeo (che dovrebbero rispettare gli standard Onu).
La Ue è di fronte a una tensione politica più che migratoria, è la versione dell’Eliseo, dove spiegano che le cifre delle entrate sul suolo europeo sono in netto calo: rispetto alle vette del 2015 si è tornati a una situazione pre-crisi.
Ma sono in crescita i governi in Europa che sfruttano le paure.
Nella questione migratoria c’è un approccio «esterno», cioè le relazioni con i paesi d’origine o di transito.
Alcuni paesi, la Danimarca ma anche l’Austria che dal 1° luglio prende la presidenza semestrale del Consiglio Ue, propongono l’apertura di centri per esaminare le richieste d’asilo in paesi terzi, fuori dalla Ue (sono stati evocati i Balcani, Kosovo e Albania – su cui alcuni pensano di poter fare pressione perché sono candidati ad entrare nella Ue – poi anche i paesi della sponda sud del Mediterraneo, ma Tunisia, Algeria e Marocco hanno già detto no).
La Francia e Angela Merkel sottolineano che prima di tutto deve essere rispettato il diritto internazionale e quello europeo: al massimo le domande di asilo possono essere esaminate nei paesi d’origine, come succede in Niger e in Ciad per quanto riguarda la Francia (in base a un accordo con l’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati, della durata di due anni, Macron si è impegnato ad analizzare le richieste di 10mila persone).
Ma non è contemplata l’ipotesi di aprire degli hotspot (cioè centri mascherati di detenzione), di respingere le navi di salvataggio in queste zone, creando una o più Ellis Island al di fuori dei confini della Ue.
I paesi Ue sono tutti d’accordo invece sul rafforzamento delle frontiere esterne, ci sarà più Frontex, con aumento dei guardiacoste e più mezzi hi-tech.
Francia e Germania chiedono anche maggiori poteri per l’ufficio europeo dell’asilo, in attesa di un accordo, su cui molti frenano (a cominciare dall’Italia) su regole comuni per un asilo europeo.
Il disaccordo più importante è quello sulla riforma di Dublino 3 per quello che riguarda i cosiddetti «movimenti secondari», cioè su chi ricade la responsabilità di occuparsi dell’asilante.
Oggi, i paesi Ue fanno a gara nello scaricarsi a vicenda il «fardello» – paesi di «primo ingresso» o di «movimenti secondari» – e alcuni sono tentati da accordi bilaterali, per bypassare la necessaria riforma di Dublino.
Una corsa verso il disastro, che potrebbe portare ad affossare gli accordi di Schengen sulla libera circolazione (6 paesi hanno sospeso temporaneamente gli accordi, per ragioni di sicurezza).
Sulle tensioni Francia-Italia e lo scaricabarile sui migranti, Parigi ha precisato ieri che tra i due paesi esiste, oltre a Dublino, anche il trattato di Chambéry, che stabilisce un «controllo rafforzato» e comune alla frontiera e che ricopre tutto quello che succede da Ventimiglia a Modane, un’intesa per evitare un «richiamo» di nuovi migranti.
Per ribattere agli insulti di Salvini, Parigi ricorda che nel primo semestre del 2018 la Francia ha avuto più richieste d’asilo dell’Italia.

il manifesto 24.6.18
Salvini alla conquista di Terni. Sinistra a rischio estinzione
Elezioni amministrative 2018. Storia di un fallimento politico nella città ex rossa. Oggi ballottaggio tra Latini e De Luca
di Marco Venanzi


TERNI Terni, la città rossa, è caduta sotto i colpi dei movimenti populisti e sovranisti che hanno vinto le elezioni del 4 marzo e del 10 giugno. Il fatto, indipendentemente da come andrà il ballottaggio di oggi – la scelta sarà, infatti, tra due candidati sindaco estranei alla sinistra, cioè Thomas De Luca del M5s e Leonardo Latini della Lega ma con l’appoggio dalle altre liste del centrodestra (Forza Italia, Fratelli d’Italia, Popolo della famiglia e Terni Civica) – segna un passaggio di fase, una svolta decisamente negativa, ma di certo epocale per l’Umbria.
PER LA SINISTRA TERNANA il primo turno del 10 giugno è stato un crollo. Leonardo Latini ha ottenuto il 49,22% (25.531 voti), la lista della Lega il 29,09% (14.667), la coalizione nel suo insieme il 48,74%, Thomas De Luca è arrivato al 25,03% (12.986) e il M5s si è fermato al 24,42%. Il Pd è crollato al 12,57% (6.336), l’intera coalizione di Centrosinistra ha ottenuto solo il 15,88% e il candidato sindaco Paolo Angeletti si è fermato al 14,99% (7.776 voti). Alessandro Gentiletti di Senso Civico (una coalizione di sinistra con LeU e altre associazioni e movimenti) si è fermato al 3,90% (2.024 voti). Da una parte gli elettori del Centrosinistra si sono astenuti, dall’altra sono migrati verso la Lega; sta di fatto che il Pd è a rischio estinzione in una delle città operaie simbolo della sinistra italiana del Novecento. I motivi sono molteplici e di lungo periodo.
LA SINISTRA ha guidato la città dopo il fascismo, dopo gli anni della fabbrica totale e della Società Terni polisettoriale quando l’azienda governava il territorio oltre alle industrie. Per settant’anni (tranne la fase liberale del sindaco Gianfranco Ciaurro dal 1993 al 1999) la sinistra ha gestito ogni cosa, dalla ricostruzione necessaria dopo la guerra all’edificazione di nuovi quartieri per gli operai delle fabbriche: edifici, strade e opere di urbanizzazione, scuole, nuove aree industriali per una città che si immaginava sarebbe arrivata ai 200 mila abitanti. I primi segnali della deindustrializzazione negli anni Settanta non hanno fermato la logica del mattone. Fino alla crisi del 2008 e all’esplosione della bolla speculativa, l’edilizia ha portato anche a importanti risultati in termini di recupero di aree dismesse, di zone distrutte dal conflitto e nuovi quartieri.
Dagli anni Ottanta si è aggiunto alle opportunità della ricostruzione lo sviluppo di un movimento cooperativo che è arrivato a costituire una realtà sociale e occupazionale di grande importanza che, con il sopraggiungere della crisi e della deindustrializzazione, è diventato uno dei principali polmoni lavorativi di Terni. Ricostruzione prima, e recupero di aree dismesse poi, insieme a un movimento cooperativo divenuto l’unica possibilità occupazionale per molti, hanno portato a una sorta di economia del declino, nella quale cooperanti e imprenditori del mattone hanno gestito l’invecchiamento progressivo della città più che il suo ripensamento in termini di nuovo sviluppo.
A QUESTO SI SONO sommati i fallimenti sul piano delle alternative creative, dell’economia della cultura e dei beni culturali oltre ai disastri ambientali (inceneritori e mancate bonifiche industriali). Il debito comunale che ha portato al dissesto di bilancio e alle elezioni è stato il frutto del tentativo della sinistra ternana di tenere la città mentre su di essa, come se non fosse bastato il resto, piombavano la crisi economica, le politiche neoliberiste dei governi con i conseguenti tagli agli enti locali, le ristrutturazioni dell’acciaieria dell’Acciai Speciali Terni (ThyssenKrupp) e i problemi della chimica.
D’ALTRA PARTE, il centrosinistra e il Pd in questi ultimi anni hanno avuto in mano il Comune, quello che è restato della Provincia, la Regione, il Governo nazionale e, pertanto, hanno goduto di una situazione del tutto favorevole per la gestione della città senza riuscire a rigenerarla. L’isolamento di Terni in Umbria è anzi sembrato ancora più marcato con una conseguente perdita di funzioni nei confronti di altre aree della Regione (Asl, infrastrutture ferroviarie, Camera di commercio, Università). In un contesto come questo i ceti popolari, i mondi operai, abbandonati e non più rappresentati hanno voltato la faccia al Pd votando per partiti nazional-popolari. La folla che ha accolto Matteo Salvini a Piazza della Repubblica il 21 giugno è la testimonianza di un fallimento culturale e morale prima che politico la cui responsabilità ricade sugli esponenti locali del Pd ma anche sulla Presidente Catiuscia Marini e su tutto il partito e la sinistra che rischiano di essere spazzati via dall’Umbria.

il manifesto 24.6.18
A Pisa un ballottaggio da fiato sospeso
Comunali 2018. Sotto la Torre Pendente la destra cerca il colpo da ko trascinata da Matteo Salvini, mentre per il centrosinistra sono arrivati in comizio Paolo Gentiloni e Walter Veltroni. Esito incertissimo, con l'incognita del voto pentastellato (10% al primo turno) in libera uscita.
di Riccardo Chiari


PISA Alla vigilia di un ballottaggio da fiato sospeso sotto la Torre Pendente, la città è affollata come sempre di turisti, mentre i pisani doc commentano i comizi finali della sera precedente. Da una parte Matteo Salvini, osannato da un migliaio di sostenitori in piazza Carrara, dopo aver fatto una comparsata alla cena sul ponte di Mezzo a cui era stato invitato dalla locale Confcommercio. Dall’altra Paolo Gentiloni e Walter Veltroni, arrivati in città per sostenere il candidato sindaco del centrosinistra Andrea Serfogli. Con Veltroni che, davanti ad alcune centinaia di simpatizzanti, si è rivolto “alla Pisa democratica, che ha il dovere morale di difendere la città da chi specula con la menzogna e chiede censimenti etnici”. Mentre Gentiloni, guardando al mediocre 59% scarso di votanti al primo turno, si è appellato ai potenziali astensionisti: “Se c’è chi è stato a casa per dispetto o per risentimento, va capito, abbiamo fatto molti errori. Ma domenica non fate l’errore di stare a casa per dispetto”.
Si riparte dai voti di due domeniche fa, quando il candidato della destra Michele Conti, trascinato dalla Lega che ha preso il 24,7% ed è diventata il primo partito cittadino, ha colto un 33,4% complessivo che lo ha portato in testa di una incollatura sul candidato del centrosinistra Andrea Serfogli, attestato al 32,3%. Quest’ultimo è stato però capace di trovare degli alleati all’ultimo minuto. Così sono entrati in coalizione – con apparentamenti ufficiali – il Patto Civico di Antonio Veronese, che porta una dote del 6,6%, insieme alle liste civiche che hanno sostenuto Maria Chiara Zippel, per un altro 1,8%. Due espressioni di un voto “moderato”, cercate con dichiarata volontà politica dal Pd locale e da quello toscano. Con l’effetto collaterale di ridurre ulteriormente l’appeal di Serfogli nelle forze politiche e sociali di sinistra, nonostante l’appello al voto di Paolo Fontanelli, portavoce di Leu in città, e di Riccardo Nencini del Psi.
Anche Serfogli, assessore ai lavori pubblici nella giunta di Marco Filippeschi, ha chiuso la campagna elettorale con un appello al voto alle “forze democratiche” della città, contrapposte a chi sostiene “una politica di paura e di chiusura”. Quanto alle prime mosse da fare nel caso di elezione a sindaco, Serfogli ha annunciato clausola di salvaguardia e un salario minimo (10 euro l’ora) per i dipendenti delle aziende che si aggiudicheranno appalti dagli enti pubblici per servizi e manutenzioni: “Solo a Pisa – ha puntualizzato – le persone impegnate in questo ambito sono diverse migliaia, e assicurare loro un salario minimo garantito mi sembra una norma di civiltà e di dignità”.
Possibile ago della bilancia in un ballottaggio quanto mai incentro potrebbe essere il 10% di voto pentastellato del primo turno. Dal M5S locale è arrivata la richiesta di non disertare le urne. Sarà da capire come si orienterà il voto, se all’alleato nel governo nazionale oppure, specialmente nella sua componente interna di sinistra, prevarranno gli ideali.

Il Fatto 24.6.18
Caro Pd dormiente, cosa ne è della vostra gente?
di Antonio Padellaro


“Rimane apertoil capitolo delle 5 commissioni di garanzia per le quali è iniziato uno “sciopero bianco”. Il Pd, che punta alla presidenza del Comitato per il controllo dei servizi segreti, prenotato invece da Fratelli d’Italia, non designa i suoi parlamentari.
Corriere della Sera 22 giugno

Nella famosa domenicadell’editto di Matteo Salvini sulla nave ong Aquarius, a cui era stato impedito l’ingresso nei porti italiani, i tg diedero conto della posizione del Pd. Un pigolio che stigmatizzava l’interruzione del silenzio elettorale da parte del capo leghista. Si svolgeva infatti il primo round elettorale nelle città (che oggi vanno al ballottaggio) e per gli illuminati dirigenti di quel partito il vero problema era il rispetto di una regoletta disattesa da anni. E non invece lo strappo feroce del ministro degli Interni – in campagna elettorale permanente – fatto sulla pelle di centinaia di disperati. In merito dal Nazareno venne biascicata solo qualche frase di circostanza. Un vuoto pneumatico che anche in seguito il maggior partito d’opposizione ha perseguito con poca ammirevole tenacia e che le rassegne stampa radio ogni mattina liquidano con cinque parole: sul Pd niente da segnalare. Secondo gli studiosi dei labirinti mentali pidini, si tratterebbe di un silenzio sottilmente strategico. Ovvero: visto che il contratto tra Lega e Cinquestelle è stato scritto con l’inchiostro simpatico restiamo alla finestra in attesa che si uccidano tra loro. Vana speranza: come da quelle parti dovrebbero sapere, il potere cementa più della supercolla Attack. Altri illustri analisti segnalano invece che in seguito al doppio choc referendum-elezioni i dirigenti del Nazareno si sono sottoposti a un terapia simile a quella descritta nel film con Jim Carrey “Se mi lasci ti cancello”. Non vogliono ricordare più nulla. Secondo infine gli osservatori più terra terra, quelli del Pd tacciono perché non hanno nulla da dire. Guardate, c’è poco da ridere. Se questa è l’opposizione al governo Di Maio-Salvini (un partito sciroccato e un altro, Forza Italia, che si è già consegnato mani e piedi al prepotente alleato padano) è la democrazia nel suo insieme che rischia grosso. Perfino continuare a sfottere il “bullismo” di Matteo Renzi è ormai operazione di retroguardia nei giorni in cui l’altro Matteo si muove agitando una mazza da baseball con dietro una folla urlante sempre più vasta. Se non risolti in tempo, i problemi interni del Pd rischiano non solo di liquidare un’importante esperienza politica che, nel bene e nel male, ha segnato la storia dell’ultimo decennio. Ma soprattutto di lasciare allo sbando i quasi sei milioni di elettori che lo scorso 4 marzo hanno ancora una volta scommesso, malgrado tutto, su un’idea dell’Italia e dell’Europa agli antipodi del populismo trionfante. Sicuro di non essere ascoltato mi permetto di chiedere a Renzi, a Martina, a Delrio, a Gentiloni, a Calenda e a tutti coloro che nel Partito democratico dicono di credere ancora: ma della vostra gente cosa volete fare? Penso che ne siate al corrente: mentre voi organizzate suggestivi “scioperi bianchi” onde ottenere la fondamentale presidenza della commissione sui Servizi segreti (fondamentale solo per tenere sotto controllo gli affari vostri e altrui), ogni giorno aumentano i vostri elettori convinti che su immigrati irregolari e rom Salvini abbia ragione da vendere. Forse li avete già persi. Buon sonno a tutti.

Corriere 24.6.18
I dubbi del Movimento sull’alleato E così riparte il dialogo con il Pd
Prime mosse nell’ipotesi che la Lega faccia cadere il governo
di Maria Teresa Meli


ROMA Il governo Conte non ha nemmeno un mese di vita, eppure nei palazzi della politica si rincorrono già le voci di una possibile crisi dell’attuale maggioranza. I grillini, infatti, si interrogano sulle reali intenzioni di Matteo Salvini. «Col tempo potrebbe aver voglia di andare al voto», confida preoccupato a un amico l’ex deputato pentastellato Matteo Dall’Osso, corrente duri e puri. E i big del Movimento, nel chiuso delle stanze in cui si riuniscono, non escludono questa possibilità: «Il leader della Lega si muove come se dovesse andare alle elezioni presto, come se volesse rompere a ottobre», è la frase che negli ultimi giorni si ripetono l’un l’altro sempre più spesso.
Ma per i grillini, per la prima volta in affanno in tutti i sondaggi, quella del voto non è un’opzione percorribile. Per questa ragione un pezzo dei pentastellati sta già ragionando sull’eventualità di un piano B: nel caso Salvini mandasse all’aria il governo si dovrebbe tentare di dare vita a una maggioranza diversa con il Pd.
In realtà, il canale di comunicazione tra 5 Stelle e Pd non si è mai chiuso. Prova ne è la decisione del presidente della Camera Roberto Fico di far saltare l’accordo stretto tra Salvini e Giorgia Meloni per dare la presidenza del Copasir a un esponente di Fratelli d’Italia. Fico è intervenuto in prima persona per bloccare quell’operazione nella convinzione che quella poltrona dovesse andare al Partito democratico. Il presidente della Camera, del resto, ha ottimi (e frequenti) rapporti sia con il suo vice Ettore Rosato che con il capogruppo del Pd a Montecitorio Graziano Delrio. Sia detto per inciso, né Rosato né Delrio sono comunque favorevoli all’ipotesi di un governo con il Movimento 5 Stelle. Come non lo è Matteo Renzi: «Lo devono fare sul mio cadavere», si è lasciato sfuggire l’altro giorno l’ex segretario chiacchierando con un senatore amico.
Però il tema c’è. E se ne parla nei capannelli dei dem nel Transatlantico di Montecitorio: «A me un’ipotesi del genere non piace affatto, ma se veramente vi fosse una crisi di governo questa volta per noi sarebbe difficile dire di no ai grillini. Molto dipenderà anche da quello che ci chiederà in questo caso Mattarella», confessava l’onorevole Stefano Ceccanti, costituzionalista di area renziana.
E proprio i sostenitori dell’ex segretario del Pd hanno il sospetto che Maurizio Martina, per rafforzarsi dentro il partito, possa essere pronto a riaprire il dialogo con i 5 Stelle rimettendo in gioco anche LeU, che in questo caso difficilmente potrebbe stare fuori dai giochi.
D’altra parte, anche un osservatore esterno come il politologo Roberto D’Alimonte non esclude questa possibilità: «Se Salvini dilagasse, non mi stupirei di un’alleanza M5s e Pd». I grillini comunque aspettano di capire le reali intenzioni dell’ingombrante alleato, anche se persino Di Maio ammette che «andando avanti in questo modo non reggiamo».
Ma è poi così sicuro che Salvini voglia andare al voto? E che soprattutto sia in grado di farlo dal momento che Forza Italia non ne ha affatto intenzione? Berlusconi glielo ha fatto capire nei colloqui di questi giorni: «Andare alle elezioni sarebbe un azzardo non solo per noi ma anche per il Paese». Perciò non tutti, a Montecitorio come a Palazzo Madama, danno per scontato che questo sia il vero obiettivo del leader della Lega. Tra i parlamentari azzurri infatti circola un’altra ipotesi (da loro caldeggiata). Questa: Salvini potrebbe veramente arrivare alla rottura con i grillini, subito dopo le elezioni europee, ma non per correre alle urne. Piuttosto il capo leghista potrebbe dare vita a un governo con Forza Italia, Fratelli d’Italia e un pezzo dei 5 Stelle, oltre che con altri «responsabili». Un governo di cui, ovviamente, Salvini sarebbe il premier.

Il Fatto 24.6.18
Saviano: “I 5Stelle sono la stampella della Lega xenofoba”


“Il M5S è diventato la stampella di un partito xenofobo”. Dal Parco Sempione di Milano, dove è intervenuto alla tavola multietnica, Roberto Saviano torna ad attaccare i Cinque Stelle, rei a suo dire, di essere troppo accondiscendenti nei confronti della Lega. “Spero che una parte degli elettori che ha votato Movimento credendo davvero di cambiare le cose si accorga di essere diventato stampella di un partito violento e xenofobo” ha sostenuto lo scrittore. Durissimo, com’era prevedibile, nei confronti del segretario del Carroccio, che ha messo in discussione l’opportunità di lasciargli la scorta: “Matteo Salvini è furbo, tocca tutto ciò che sui social ha picchi, prende e segue e non approfondisce mai, non ha risolto nemmeno la questione sbarchi, tutto teatro e propaganda”. Quindi Saviano ha proposto: “Cerchiamo di costruire una giornata in cui chiediamo la restituzione dei 50 milioni alla Lega. E non fidiamoci del ministro dell’Interno che parla di gestione passata: ha fatto la campagna elettorale in nome di quella storia”.

La Stampa 24.6.17
“Così Forza Italia si estingue
Senza democrazia interna niente fermerà il fuggi-fuggi”
di Ugo Magri


Se vuole salvare Forza Italia, Silvio Berlusconi non può cavarsela con qualche maquillage. Deve lasciare che il partito discuta, si conti e si confronti al suo interno come non ha mai fatto prima. Altrimenti, secondo il governatore ligure Giovanni Toti, in assenza di un vero cambiamento di orizzonte, il rischio fuga verso la Lega resterà incombente.
Di Forza Italia si sono perse le tracce. Ancora esiste?
«Certo che esiste. Ha un forte radicamento territoriale. Qua e là esprime delle eccellenze. In Liguria, per esempio, penso che abbiamo dato degli esempi da cui altrove potrebbero prendere spunto. Però, senza dubbio, Forza Italia ha bisogno di una profonda ristrutturazione. Pensare che possa essere rilanciata cambiando il simbolo e qualche faccia sarebbe come ridipingere un palazzo che ha i muri portanti lesionati».
Teme che sia quella l’intenzione vera di Berlusconi?
«Io spero che nel rilancio del partito lui sappia mettere l’energia rivoluzionaria delle sue migliori stagioni. Ma il cambiamento dovrà essere anzitutto nel metodo. Per essere efficace, non dovrà calare dall’alto».
Insiste a chiedere le primarie? Il Cavaliere le vede come fumo negli occhi...
«Non mi fossilizzo su uno strumento. Se non si chiameranno primarie, potranno essere meccanismi diversi. Ci sono mille modi per realizzare la democrazia interna. L’importante è far esprimere i propri militanti e i propri elettori. È da questa consultazione che dovrà emergere la nuova classe dirigente ma, soprattutto, la nuova gerarchia di valori e progetti».
Che ruolo intende ritagliarsi in questo cambiamento?
«Sono a disposizione per discuterne in qualunque momento, anche se finora le mie sollecitazioni sono state valutate quasi come un contributo eversivo».
Da chi, da Berlusconi?
«Da una classe dirigente troppo conservativa per mettersi collettivamente in discussione. Dove magari, spero di no, qualcuno ritiene di dover salvare solo la propria poltrona, assistendo senza battere ciglio all’ineluttabile declino».
Teme un fuggi-fuggi?
«La fuga ci sarà se non arriveranno risposte. Gli elettori e i dirigenti, lasciati senza progetti, senza nemmeno la possibilità di discuterne, è ovvio che tendano a essere attratti da suggestioni diverse. Ma io credo che dobbiamo smettere di preoccuparci della Lega, di cosa fa o non fa Salvini. Faremmo bene a chiederci piuttosto che cosa facciamo noi, come pensiamo di recuperare i milioni di voti persi negli ultimi anni, quali modelli economici e sociali sapremo offrire ai nostri giovani, che idee formuleremo per rendere l’Italia protagonista. Altrimenti sarà tempo perso».
Pensa a un partito unico con la Lega?
«Vorrei un centrodestra ampio e plurale, nel quale ciascuno degli attuali partiti conti per quanto realmente pesa. In questo momento la Lega gode di ottima salute. Salvini detta con grande efficacia l’agenda politica del Paese, e su alcuni temi riesce a ottenere risultati mai avuti finora, vedi l’immigrazione. Ma talvolta le risposte leghiste sembrano più rivolte a calmierare le paure del giorno che dirette a sviluppare un’idea di futuro, più tese a rifugiarsi nelle sicurezze del passato che ad affrontare le insicurezze di fronte a noi. Se quell’area assorbisse tutte le altre, senza tenere conto delle diversità, il centrodestra sarebbe condannato a regredire anche nel consenso».
A proposito: oggi è giorno di ballottaggi. Il caso di Imperia che cosa insegna?
«Dimostra che il centrodestra spesso riesce a farsi male da solo. Uniti avremmo stravinto al primo turno. E comunque vada, qualcuno si è preso la responsabilità di spaccare una coalizione vincente. Con lo sguardo rivolto indietro».

Corriere 24.6.17
Evasione e condoni, e sul fisco tutti amici come prima
di Ferruccio de Bortoli


In attesa di vivere una giornata senza dichiarazioni a effetto e proclami estemporanei, proviamo a riflettere sulla promessa fiscale di questo governo. Non tanto sulla sempre più incerta flat tax , quanto sulla cosiddetta pace fiscale. Ovvero il condono tombale per le cartelle esattoriali inferiori ai centomila euro. Nella sua bulimica narrazione quotidiana, il leader di fatto del governo legastellato Matteo Salvini promette un salutare, a suo giudizio, colpo di spugna per «liberare milioni di italiani incolpevoli ostaggi e farli tornare a lavorare, sorridere e pagare le tasse». In sintesi: versate una frazione del tributo, scordatevi sanzioni e interessi (quelli scontati dalle due rottamazioni in corso) e «amici come prima». Nulla di nuovo sotto il sole della Penisola, si potrebbe dire. Si ripete un copione già ampiamente recitato nella Prima e nella Seconda Repubblica. Sotto varie forme di raffinata fantasia. Il tutto per non chiamare il condono con il suo vero nome: Concordato di massa, scudo fiscale, voluntary disclosure e via di seguito.
Sulle questioni tributarie si esercita il massimo dell’ipocrisia nazionale. Non c’è scampo. Ma in questo caso si registrerebbe uno scatto in più. Un gradino disceso lungo la scala invisibile che porta alla rottura del rapporto fra cittadino e Stato, fra individuo e comunità. La dichiarazione di Salvini suona come un’assoluzione generale, un condono morale per tutti i ritardatari delle tasse.
Vittime di un sistema spietato e disumano che li ha portati sull’orlo del fallimento. Oggi finalmente liberati dal giogo crudele di uno Stato oppressivo. Non stentiamo a credere che non siano pochi i contribuenti nell’impossibilità reale di far fronte ai propri obblighi, in particolare quelli che non sono stati pagati, o pagati in forte ritardo, dallo stesso Stato. Siamo convinti da anni che la tassazione sul lavoro sia eccessiva e ingiusta; il groviglio degli adempimenti infernale. L’effetto della doppia recessione è stato devastante per tanti contribuenti. La necessità di affrontare ed eliminare le scorie, in qualche caso le macerie della crisi, improrogabile. Una stagione di comprensione, e persino di indulgenza, nei confronti di molti contribuenti, benvenuta. Ma che tutti, proprio tutti, siano degli angioletti innocenti e che l’evasione riguardi soltanto i grandi patrimoni, le multinazionali e quel coacervo indistinto di poteri forti, è una interpretazione un po’ esagerata. Chi può muovere con facilità i capitali e spostare residenze paga molto poco. Uno scandalo. Ma se è davvero così, perché il governo non pensa a una patrimoniale? Sarebbe, tanto per essere chiari, un errore, ma certamente in linea con il sentimento dell’esecutivo, specie la parte grillina.
Il caso ha voluto che nello stesso giorno in cui Salvini prometteva la pace fiscale al grido di «amici come prima», il ministro dell’Economia si esprimesse con argomenti e toni del tutto diversi. «I recenti dati Istat — spiegava Giovanni Tria ospite di una cerimonia della Guardia di Finanza — testimoniano che l’Italia è in ripresa, ma la pressione fiscale resta elevata ed è pari al 42,5 per cento rispetto al Pil (il Prodotto interno lordo n.d.r) nel 2017 mentre l’evasione fiscale e contributiva risultava pari a 110 miliardi nel 2015». Il ministro si riferiva al cosiddetto tax gap, ovvero la differenza tra imposte e contributi teorici e quelli effettivamente versati. Secondo il rapporto della commissione Giovannini, l’Iva è l’imposta più evasa. Sono 35 miliardi che sfuggono ogni anno all’Erario. Con un effetto trascinamento su altre imposte. L’evasione annuale su Irap, Ires e Irpef per lavoro autonomo e impresa è stimata in 48,8 miliardi. La propensione a evadere è in media del 23,5 per cento. Ma se si escludono i lavoratori dipendenti, per i quali c’è la trattenuta alla fonte, si arriva alla stima di trentacinque euro evasi ogni cento dovuti. Per le sole imprese che pagano l’Ires l’evasione è pari a 9 miliardi (25,6 per cento). Se teniamo però conto dell’articolazione del tessuto economico italiano, ovvero piccole aziende, artigiani, commercianti che pagano l’Irpef sul reddito d’impresa o sul reddito da lavoro autonomo, arriviamo a un’evasione presunta del 68,5 per cento. Con le cifre può bastare.
È dunque assai difficile pensare che non vi siano tra i responsabili di questo mancato gettito — con il quale si farebbe comodamente sia il reddito di cittadinanza sia la flat tax — anche molti degli «amici come prima, incolpevoli ostaggi» della tenaglia fiscale. L’amara realtà è che evadere paga. E si è pure ringraziati. Non solo condonati, ma innalzati ad esempio. Fine. Ora non resta che rivolgere un pensiero riconoscente a tutti coloro, sconosciuti eroi civili — e per fortuna non sono pochi — che continuano a pagare regolarmente tasse e imposte, a rispettare le scadenze, ossessionati dal dubbio di non avere fatto fino in fondo il proprio dovere. Ligi alle regole anche quando ritengono di essere ingiustamente tartassati. Scrupolosi persino nel momento in cui si sentono vittime di norme farraginose e incomprensibili. Quegli italiani disciplinati che pagano le multe per le infrazioni al codice della strada. Multe che verranno gettate nel cestino del condono fiscale. Connazionali convinti che pagare le tasse sia l’altra faccia della medaglia di una cittadinanza responsabile. Il modo di condividere le spese pubbliche, che vanno dalla sanità alla sicurezza. Interpreti autentici dell’articolo 2 della Costituzione nel quale è scritto che la Repubblica «richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale». Quello che forse non sopporteranno è di fare la figura dei fessi in un Paese di furbi.

La Stampa 24.6.17
“Donne e uomini divisi in piazza”
No del sindaco agli ortodossi
di Elena Loewenthal


Piazza Rabin è il grande cuore di Tel Aviv. Si chiamava piazza “Re d’Israele” prima del 4 Novembre 1995, quando qui si consumò il terribile assassinio del Primo Ministro per mano di un fanatico ebreo. Qui di sera il palazzo del Municipio si tinge a seconda delle occasioni: il due di giugno prende il nostro tricolore, ma nel novembre del 2015, all’indomani della strage del Bataclan, divenne la bandiera francese. In mancanza di ricorrenze, si può usare come schermo gigante per giocare a Tetris. Nella piazza antistante, forse la più grande di Israele, ci sono spesso grandi manifestazioni di massa. Ultimamente ha cantato qui Netta, reduce dalla vittoria a Eurovision.
La polemica
In questi giorni piazza Rabin è al centro di una polemica che sta coinvolgendo il Paese e non poca opinione pubblica ebraica nel mondo. Due blocchi in opposizione frontale, per un dibattito che va ben al di là della circostanza specifica: il comune di Tel Aviv, ma soprattutto il suo attivissimo sindaco Ron Huldai – la cui famiglia ha preso il cognome dal kibbutz Hulda da cui è originaria, baluardo del socialismo collettivista sionista in cui il sindaco è cresciuto insieme, fra gli altri, anche ad Amos Oz – non hanno concesso la piazza per una manifestazione organizzata dalla comunità ortodossa dei Lubatvitch. Che per festeggiare come ogni anno il loro “Messiah in the Square” – un’immensa riunione in memoria del Rebbe Menachem Mendel Schneerson, mancato nel 1994 – avevano chiesto la pubblica piazza con la condizione di porvi una divisione per separare gli uomini dalle donne. Di imporre cioè alle donne di sedersi in un’area separata e chiusa, per assistere all’evento intitolato quest’anno “Fede, Gioia, Redenzione”. Per l’ebraismo ortodosso, infatti, la mehitzah, la separazione fisica fra i sessi, è un imperativo in ogni occasione collettiva, lieta e non: non a caso ai matrimoni ortodossi si vedono gli uomini che ballano fra di loro, non con le donne. «In nessun evento pubblico è ammessa una segregazione di genere» ha annunciato il Sindaco, spiegando che a questo proposito la comunità Lubavitch è stata irremovibile. «Ma come» si domandano indignati gli ebrei osservanti tanto in Israele quanto in Diaspora, «proprio a Tel Aviv che appena qualche giorno fa era invasa dal gay pride? Dove sta la libertà? Questa sì che è emarginazione!». Ma Tel Aviv e il suo sindaco ultra-liberal non ammettono deroghe proprio alla libertà di essere quello che si è senza dover scendere a patti con la delimitazione del proprio spazio fisico e mentale. Con il risultato di indebolire l’immagine di Tel Aviv come città aperta a tutti.

Il Fatto 24.6.18
“Fermiamo la Brexit”, ma Corbyn non si vede
Regno Unito - Nella Capitale manifestazione imponente: chiesto un referendum sull’accordo finale dell’uscita dall’Ue
di Sabrina Provenzani


Nel secondo anniversario del referendum che ha deciso l’uscita del Regno Unito dall’UE, Londra si colora, per un giorno, del giallo e del blu della bandiera europea. Sono decine di migliaia – per gli organizzatori 100 mila – i manifestanti che sfilano dal Pall Mall al Parlamento in un sabato di sole, slogan e speranze. Attivisti anti-Brexit, tanti europei, qualche britannico residente al di la della Manica e tornato per l’occasione.
È una marcia attesa da mesi: a organizzarla, un gruppo eterogeneo di associazioni e gruppi anti Brexit raccolti sotto l’ombrello People’s Vote. Il voto della gente. La gente, per la verità, su Brexit ha già votato a favore, seppure con un margine ristretto. Ma i Remainers di tutti gli schieramenti chiedono un nuovo referendum, stavolta sull’accordo finale, se mai il governo May e Bruxelles riusciranno a emergere da uno stallo che, a nove mesi dalla data ufficiale di uscita, non sembra avere soluzione.
Sul palco si avvicendano Vince Cable, anziano e carismatico segretario dei Lib-Dem; Gina Miller, che per prima, in forma privata, ha sfidato in tribunale il governo sull’articolo 50; Anne Soubry, che sul fronte anti-Brexit è la più coraggiosa e determinata parlamentare Tory. E i ragazzi di Our Future Our Choice, gruppo di pressione nato a febbraio scorso da una considerazione di buon senso: i giovani sono il gruppo demografico che più degli altri ha votato contro Brexit, ma anche quello che ne subirà gli effetti più pesanti. Brexit can be stopped, Brexit può essere fermata, è lo slogan centrale. Da chi? Dalla volontà popolare, che dovrebbe imporsi, con la forza dei numeri e dei fatti, sul governo e su un Parlamento che però, solo la scorsa settimana, ha bocciato un emendamento che avrebbe garantito ai legislatori un certo controllo sugli esiti del negoziato. Di fronte a prospettive economiche da incubo per decenni, 65 milioni di britannici non possono affidarsi ad un governo irresoluto e a poche centinaia di parlamentari: devono potersi esprimere direttamente su un accordo che determinerà il loro futuro. Problema: per quello che valgono, i sondaggi non fanno pensare che una nuova consultazione invertirebbe la rotta: gli ultimi segnalano un timido trend anti Brexit.
Per cambiare le cose ci vorrebbe l’appoggio del Labour di Jeremy Corbyn, che invece non solo alla marcia non si fa vedere – dov’è Corbyn? gridano i manifestanti – ma continua a punire ogni fuga in avanti dei suoi parlamentari anti-Brexit.
Quanto agli scenari economici, venerdì un colosso come Airbus ha anticipato che, in caso di uscita da mercato unico e unione doganale senza alternative potrebbe lasciare il Regno Unito, con le immaginabili ricadute sui 14 mila dipendenti e i 100 mila dell’indotto. Non è l’unica società a minacciare il trasloco.
La risposta dei ministri del governo? Liam Fox, al commercio con l’estero, ha chiarito che Londra non sta bluffando quando sventola lo spettro della rottura dei negoziati. David Davis, del dicastero per Brexit, ha assicurato che il governo sarà pronto in caso di mancato accordo. Quando al solito Boris Johnson, in un editoriale sul Sun ha scritto che Theresa May deve garantire una full British Brexit. E, secondo il Telegraph, la scorsa settimana, ad un evento pubblico per il compleanno della Regina, avrebbe liquidato i timori degli industriali britannici con un oxfordiano Fuck business. “Che vadano a farsi fottere”.

il manifesto 24.6.18
La crisi del sistema Erdogan
Turchia. Oggi si vota, mezzo mondo con il fiato sospeso: dalla Nato all'Unione europea, da Mosca a Teheran. Sullo sfondo un'economia drogata che mostra ormai tutte le sue crepe
di Alberto Negri


Convocate in stato d’emergenza e di guerra aperta ai confini del paese, quelle in Turchia sono elezioni che tengono con il fiato sospeso. Non solo l’opposizione ed Erdogan ma anche la Nato, un’Alleanza che da tempo va stretta al Reìs, la stessa Unione europea che ne ha fatto il guardiano di tre milioni di profughi e lo ha dotato di una temibilissima arma di ricatto.
Ma pure la Russia e l’Iran seguono con grande attenzione gli sviluppi: Mosca e Teheran contano sul patto con Ankara per stabilizzare la Siria, tenere sotto controllo i jihadisti, contenere la presenza americana e occidentale e mantenere al potere Bashar al Assad.
Nella politica degli equilibri tra gli tre ex Imperi, persiano, russo e ottomano, Erdogan è diventato un attore protagonista che tiene in scacco Occidente e Oriente.
Erdogan dovrebbe confermarsi alla presidenza, che si gioca su due turni – nel caso venisse costretto al ballottaggio dal candidato repubblicano Muharrem Ince – ma il partito Akp potrebbe trovare un ostacolo nel peggiore nemico degli iper-nazionalisti turchi, ovvero i curdi.
La partita si gioca nell’Anatolia del sud est: secondo la legge elettorale turca se il partito filo-curdo Hdp non supera la soglia del 10%, l’Akp si aggiudica la stragrande maggioranza dei seggi; in caso contrario il partito del presidente va incontro a una sonora sconfitta, cioè perde la maggioranza assoluta in parlamento.
Per questo ci si aspetta di tutto dalla macchina elettorale di un regime che dopo il fallito colpo di Stato del 2016 ha messo tutto sotto controllo, dalla forze di sicurezza ai media, epurando centinaia di migliaia di funzionari con l’accusa di essere seguaci di Fetullah Gülen.
Non è un caso che le forze armate di Ankara abbiano sferrato in queste settimane un’offensiva senza precedenti in Iraq sulla montagna di Qandil: i turchi sperano di mettere le mani sui capi della guerriglia del Pkk per dare in queste ore una svolta clamorosa alla propaganda nazionalista di Erdogan, alleato dei Lupi Grigi dell’Mhp.
Anche queste elezioni anticipate sono state annunciate in aprile immediatamente dopo che le forze turche e quelle alleate arabo-siriane hanno preso il controllo dell’enclave curda di Afrin, nel nord della Siria, nell’evidente tentativo di fare leva sull’entusiasmo nazionalista e oscurare la realtà di un’economia turca che ormai batte in testa, drogata per anni dal denaro facile a basso costo, dalle colossali opere pubbliche con finanziamenti e prestiti che hanno indebitato lo Stato e il paese.
Con il risultato che l’inflazione aumenta, la disoccupazione pure e la lira ha perso un terzo del suo valore: è il sistema Erdogan che è andato in crisi. Lui, con la legge referendaria votata l’anno scorso, che assegna pieni poteri al presidente, potrà forse restare il padrone del paese ma il suo «gregge», quel popolo turco che in buona parte continua a osannarlo, è stato tosato dalla crisi.
Gli investimenti stranieri latitano, le agenzie di rating, la «lobby dei tassi di interesse» così odiata da Erdogan, manifestano la loro sfiducia: all’orizzonte potrebbe profilarsi l’ennesimo intervento del Fondo monetario. Il Reìs piace ai nostri sovranisti, meno alla direttrice del Fondo monetario Christine Lagarde, che gli rimprovera di avere messo il guinzaglio alla Banca centrale. Erdogan oggi considera la Lagarde un nemica della nazione alla stregua dei curdi.
Anche se Erdogan non smette di far sognare i suoi turchi lanciando un piano per tagliare in due la parte europea del Bosforo per collegare il Mar di Marmara al Mar Nero: una sorta di canale di Panama dell’Oriente.
Pensando a questo delirio di cementificazione che ha arricchito molti e stravolto il profilo di Istanbul arrivo alla fine di Istiqal Caddesi: qui si schiude piazza Taksim dove è stato da poco demolito il Centro culturale Ataturk, un altro schiaffo di Erdogan a un simbolo della laicità.
A ogni tornante della storia turca di questi decenni sono passato da qui. Nel 1994 quando il sindaco Tayyip Erdogan, ancora sconosciuto, già voleva ricostruire a Taksim le vecchie caserme ottomane; nel 2003 quando mi esplose sulla testa una delle bombe che fecero saltare il consolato britannico con una dozzina di morti; nel 2013 ero qui per le manifestazioni di Gezi Park, tra un turbinio di manganellate e lacrimogeni.
Di fianco a Taksim sono passati i jihadisti per disintegrare la discoteca Raia e mettere le bombe allo stadio del Besiktas, proprio qui sopra hanno sorvolato i jet la notte del tentato golpe del 15 luglio 2016. La mattina dopo un banale carroattrezzi della polizia urbana rimuoveva l’ultimo tank abbandonato dai golpisti in fuga.
Meno di un anno dopo il fallito colpo di Stato qui festeggiavano, nell’aprile 2017, la vittoria nel referendum che dava pieni poteri al presidente. Questa piazza, con il monumento ad Ataturk di Pietro Canonica, è un totem irrinunciabile per tutta la Turchia, laici, secolaristi e musulmani tradizionalisti.
Qui convergono i militanti dell’Akp di Erdogan ma anche quelli dell’opposizione e per farsi coraggio strimpellano «Bella Ciao», le prime strofe in italiano, le altre in turco. Tra oggi e domani vedremo se porterà fortuna.

Il Fatto 24.6.17
Elezioni in Turchia, il professore di Fisica che vuole bocciare il Sultano
Il candidato del Chp si oppone allo strapotere di Erdogan: stop allo stato d’emergenza e alla riforma presidenziale
Elezioni in Turchia, il professore di Fisica che vuole bocciare il Sultano
di Roberta Zunini


La data di oggi entrerà nei libri di storia, non solo turchi, indipendentemente da come andrà il voto presidenziale e legislativo, anticipato di un anno e mezzo per volere del presidente uscente Recep Tayyip Erdogan.
Se il reis dovesse essere riconfermato e il suo partito della Giustizia e Sviluppo (Akp) ottenere ancora una volta la maggioranza assoluta in Parlamento, non solo Erdogan si avvierà a raggiungere il primato di Mustafa Kemal Ataturk in quanto a numero di anni al potere, ma si assisterà anche a un passaggio di status epocale: la Turchia da repubblica parlamentare diventerà una repubblica presidenziale. E la sua già ibrida democrazia diventerà di fatto un guscio vuoto. In seguito al referendum dello scorso anno, dopo le elezioni verrà infatti implementata la riforma costituzionale che conferisce enormi poteri, anche in campo legislativo e giudiziario, al capo dello Stato.
Se invece Erdogan dovesse perdere, sarebbe un evento talmente imprevedibile e contrario a tutti i sondaggi che meriterebbe comunque un posto di riguardo negli annali. I suo principali rivali, sia per quanto riguarda le Presidenziali sia per quanto riguarda le Legislative, sono molto più agguerriti e carismatici rispetto a quelli delle precedenti elezioni, mentre la maggior parte dei partiti all’opposizione si sono potuti alleare in una coalizione pre-elettorale grazie alla nuova legge elettorale.
Ciò significa che i quattro partiti alleati, a partire dal maggiore, il repubblicano e laico Chp, potrebbero in cordata impedire all’Akp di riottenere la maggioranza dei seggi nell’aula. Un obiettivo meno irraggiungibile della presidenza, anche se venerdì scorso la maggior parte degli imam ha fatto giurare ai fedeli sul Corano che voteranno per Erdogan e il suo partito. Chi giura sul Corano, deve rispettare la promessa, pena l’inferno, che esiste anche nell’islam.
Nonostante la stampa indipendente sia stata annichilita e quasi tutti i media, tv compresa, appartengano a editori vicini al presidente, l’ex professore di fisica e scienze, Muharrem Ince, candidato alle presidenziali del maggior partito di opposizione, il laico partito e democratico partito repubblicano Chp è riuscito a guadagnarsi l’attenzione dei turchi con i suoi trascinanti ed energici comizi.
Ince sembra in grado di galvanizzare, come faceva molto bene Erdogan agli inizi della carriera, anche la gente di campagna, non solo l’élite filo europea di Istanbul e Smirne, questa ultima roccaforte del partito repubblicano. Nato 54 anni fa in un villaggio agricolo della provincia nord-occidentale di Yalova, nelle sue apparizioni pubbliche il professore non tralascia mai di ricordare di aver imparato prima a guidare il trattore e poi l’auto, di aver frequentato corsi coranici da bambino e che la sua famiglia include donne che indossano il velo islamico. Un modo per tentare di sottrarre altri voti all’Akp mentre predica la scienza e la nanotecnologia ai giovani e promette di non abolire l’insegnamento nelle scuole superiori della teoria di Darwin che invece Erdogan vorrebbe cancellare a partire dalla auspicata rielezione. Qualora eletto, Ince promette abolire immediatamente lo stato di emergenza, ripristinare la separazione dei poteri e cancellare la riforma costituzionale.
Abolirebbe inoltre il Consiglio di istruzione superiore, che Erdogan ha usato per licenziare migliaia di accademici per ragioni politiche, e riformerebbe il Consiglio supremo di giudici e pubblici ministeri, le cui regole e membri Erdogan ha cambiato per avere una magistratura amica. In una intervista il candidato ha detto: “Se la ricchezza di Erdogan deve essere investigata, deve esserci un sistema giudiziario indipendente”. Qualche chance in più di competere con Ince per andare al ballottaggio contro Erdogan ce l’ha Meral Aksener.
L’ex ministro degli Interni, soprannominata Lady di Ferro ha fondato il Buon partito (Iyi) dopo aver abbandonato il partito nazionalista perché in disaccordo sulla fedeltà a Erdogan da parte del leader dei Lupi Grigi, il vecchio Devlet Bahceli. Colui che ha chiesto formalmente al Sultano di anticipare le elezioni proprio per impedire ad Aksener di guadagnare troppo consenso nel corso dei mesi. Gli ultimi sondaggi danno Erdogan al 46 per cento e Ince al 30: qualora confermati, si andrà al ballottaggio.

Il Fatto 24.6.18
Ankara, scontro di civilità per un posto sull’autobus
Il giorno delle elezioni - Basta salire sui mezzi pubblici per cogliere la faglia che divide i laici liberali dai conservatori più devoti all’Islam
Erdogan ovunque. I cartelloni pubblicitari celebrano il presidente al potere dal 2003
di Selvaggia Lucarelli


Nella giornata di ieri sono arrivata ad Ankara per una sosta di un giorno prima di raggiungere la Cappadocia. Non ero mai stata nella Capitale turca e avevo dimenticato che qui in Turchia è periodo di elezioni, ma appena salita in taxi dall’aeroporto qualcosa di sussurrato, di impalpabile, di appena percettibile me lo ha rammentato istantaneamente. Sto parlando dell’accennata propaganda del presidente in carica Recep Tayyp Erdogan il quale, solo lungo la strada dal mio terminal all’hotel, appare col suo faccione e lo slogan “vakit türkiye vakti” su ogni palo, ponte, pilone, palazzo, fiancata d’autobus e kebabbaro si incrocino nel percorso.
I suoi competitor sbucano qua e là tipo gli adesivi di Scientology sui pali dei semafori, tipo gli annunci di babysitter e dei tizi che aiutano a svuotare le cantine (che poi non ho mai capito perché ci siano annunci specifici solo per le cantine. Svuotare un piano terra richiede un’altra specializzazione?).
Il tassista, ridacchiando, mi dice in un inglese stentato: “Ha visto quante foto di Erdogan sui muri qui in Turchia?”, io gli rispondo che lui non ha visto quante foto di Matteo Salvini ci sono sui giornali in Italia e la chiudiamo lì. Fatto sta che all’arrivo in hotel ne approfitto per leggere un po’ sul voto in Turchia e io e il mio fidanzato commentiamo qualcosa di trito su quanto questo sia il Paese delle contraddizioni, di quanto Islam e Occidente si mescolino in un calderone poco comprensibile per i turchi, figuriamoci per noi turisti. Di quanto le donne, per strada, sembrino italiane, di quanto fanatismo, censure e repressioni risultino invisibili per chi passa qualche giorno in vacanza da queste parti.
La sera andiamo in un noto ristorante della città e ci sembra di essere in un qualunque locale milanese. Dopo la sfilza di donne in burkini viste nei giorni precedenti immergersi nel Mar Morto (specialmente turiste arabe con la famiglia), appaiono nuovamente short, tacchi e minigonne. Dopo la scena sempre straniante delle donne in burqa al ristorante che mangiano alzando il velo sotto il collo e infilandosi il cibo in bocca con un gesto furtivo della mano, vediamo di nuovo tante donne mangiare in libertà.
La mattina dopo andiamo alla stazione degli autobus e acquistiamo tre biglietti per Göreme, in Cappadocia. Il tizio della compagnia ci spiega che ci sono due posti vicini e uno separato in un’altra fila. Decidiamo, ovviamente, che io siederò accanto a mio figlio e che il mio fidanzato occuperà il posto più avanti. Saliamo sull’autobus, io e il bambino ci sediamo, il mio fidanzato si siede e la giovane signora accanto a lui fa un cenno alla responsabile della compagnia che viaggia con noi. Dopo pochi secondi quest’ultima mi raggiunge e mi fa cenno di alzarmi pronunciando frasi in turco a cui io rispondo in inglese dando vita a un siparietto a tema incomunicabilità che al confronto Carlo Sibilia e Samantha Cristoforetti hanno un sacco di argomenti in comune. La tizia si irrita sempre di più, va dal mio fidanzato e fa cenno anche a lui di alzarsi. Chiediamo perché, lei a quel punto è incazzata che nemmeno Erdogan dopo il tentativo di colpo di Stato. Un ragazzo molto giovane si offre di fare da interprete in inglese e ci spiega che la ragazza che occupa il posto accanto al mio fidanzato non vuole uomini vicino. Io replico che in un viaggio di 4 ore e mezzo voglio mio figlio accanto, mio figlio replica che mi vuole accanto, il mio fidanzato mostra i biglietti numerati e spiega che ha pagato regolarmente e gli è stato assegnato quel posto, non intende rinunciarci.
Ne nasce una bagarre in almeno quattro lingue e principi diversi, in cui io dico che nessuno chiederebbe a una mamma turca di viaggiare separata da suo figlio per assecondare un qualsiasi principio religioso di un’italiana, non vedo perché si chieda a un’italiana di farlo.
Il mio fidanzato non intende cedere e chiede se esista una legge turca che gli impedisca di sedersi lì. La responsabile/bigliettaia si altera ulteriormente e mi ordina di andarmi a sedere accanto alla signora in maniera così risoluta e perentoria che per poco non solo vado dove mi dice lei, ma do pure una passata ai vetri dell’autobus col Vetril.
In tutto questo, la ragazza seduta davanti non si gira, non interviene, non esiste. Lei è l’origine del problema, ma non ha alcun ruolo attivo nella discussione e probabilmente anche nella sua vita. Noi non cediamo di un centimetro. La responsabile minaccia di chiamare la polizia e comincia a parlare al telefono.
Io penso che ho visto molte cose brutte nella vita, dall’ex sindaco di Milano Gabriele Albertini sfilare in mutande a una Leopolda, ma che il carcere turco me lo risparmierei. Scorgo una signora anziana con un fazzoletto rosso in testa, seduta in un posto singolo, in fondo all’autobus. Chiedo al nostro giovane traduttore di proporle di sedersi accanto alla donna così da cedere il posto al mio fidanzato. La signora anziana ascolta la proposta e annuisce senza proferire parola. Si alza e va a sedersi dove le abbiamo chiesto.
Ed è così che in questa trascurabile bagarre in cui per dieci minuti, in un semplice autobus Ankara-Göreme, si sono scontrati Islam, Occidente, uomini, donne, leggi coraniche, culture milionarie e buonsenso, ho visto tutte le contraddizioni di questo Paese, nonché il terreno complesso su cui giocano queste elezioni: la Turchia laica e liberale contro quella religiosa e conservatrice.
La donna responsabile del bus che urla a un uomo di andare a sedersi dove dice lei altrimenti chiama la polizia e quella col velo, seduta di spalle, che non può stare seduta accanto a quell’uomo e non ha neppure la voce per dirlo.

La Stampa 24.6.8
Reportage
Il popolo di Ince sogna nel nome di Atatürk
Un milione in piazza con il leader dell’opposizione: “Lottiamo per un Paese moderno e libero”
di Marta Ottaviani

qui

La Stampa 24.6.18
Addio a “Chichita”, moglie di Calvino
Di lei diceva: “Vede il mondo per me”
di Ernesto Ferrero

Era stata una tata messicana a ribattezzare «Chichita», piccolina, Esther Judith Singer, nata a Buenos Aires nel 1925 da una famiglia di ebrei russi arrivata in Argentina a fine Ottocento; e Chichita è rimasta per tutti.
Della famiglia non ha mai parlato: «Le origini non mi interessano», tagliava corto. «È una donna piccola, molto lentigginosa, rossa di capelli e con occhi di rara luminosità. Al collo o ai polsi porta sempre qualche squisito gioiello vittoriano… È celebre per il suo umorismo sarcastico»: così la descrive Carlo Fruttero. Sempre avvolta nel fumo delle sue Gauloises, orgogliosamente argentina ed elegantemente cosmopolita come gli amici del giro Borges-Bioy Casares-sorelle Ocampo. Si sposa in giovane età, ha un figlio, ma quando il matrimonio scricchiola non ha esitazioni. Prende il bambino e viene in Europa, a Parigi e a Vienna, a lavorare come traduttrice per l’Unesco e altre organizzazioni internazionali, mettendo a frutto la sua perfetta conoscenza di francese e inglese. A Parigi ha come collega Julio Cortázar, e frequenta il giro letteratissimo delle Editions du Seuil.
Lì incontra Italo Calvino nel 1962. Tra il taciturno scrittore ligure e la poliglotta tutto pepe capace di toreare da pari a pari con quegli intellettuali anche troppo sofistici, è amore immediato. Si sposano nel febbraio 1964 a Cuba, dove lui era nato nel 1923, nell’ufficio di un notaio dell’Avana. L’anno dopo nasce la figlia Giovanna. Prendono casa a Roma, che però a lei va stretta, come pure il giro degli scrittori che gravitano attorno a Moravia e Pasolini: le sembrano una congrega di provincialotti un po’ maschilisti. Nell’estate del ’67 si trasferiscono a Parigi, in una villetta di Square de Châtillon, dove restano sino al 1980, l’anno del definitivo ritorno a Roma, in uno arioso appartamento affacciato sui tetti della città, a due passi da Montecitorio, con lunghi soggiorni estivi nella pineta di Roccamare, a Castiglione della Pescaia.
Quando Italo se ne va nel 1985, a soli 62 anni, Chichita gestisce un’eredità difficile con mano fermissima. Tra i suoi amici, Salman Rushdie, Gore Vidal e Richard Gere, che anni fa voleva portare sullo schermo Il barone rampante. Editori, agenti, studiosi e postulanti imparano presto a rispettarla, a temerla. È a lei che Italo sottoponeva ogni pagina appena scritta per un giudizio. È lei la Olivia di Sotto il sole giaguaro o Ludmilla, la lettrice dalla memoria di ferro in Se una notte d’inverno un viaggiatore. «Lei è i miei occhi. Guarda il mondo e me lo racconta», diceva.
Era una miniera di ricordi, ma di scrivere, come qualcuno le chiedeva, non se ne parlava proprio. Non solo perché detestava fare la parte della «vedova di» che dispensa aneddoti. Alla rigidità della scrittura preferiva il libero gioco di un movimento perpetuo, fatto di associazioni di immagini, danza e musica. Difficile pensare che si è spenta quella pirotecnia di intelligenza e di humour abrasivo, intatta sino ad oggi.

La Stampa 24.6.17
Arabia Saudita, cade il divieto per le donne al volante ma la disparità resta
La novità voluta dal principe ereditario Mohamed bin Salman che vorrebbe portare nella modernità il regno finora simbolo della teocrazia islamica

qui

il manifesto 24.6.18
Avanguardie storiche in fuga da Hitler
Maria Passaro, "Artisti in fuga da Hitler. L’esilio americano delle avanguardie europee", Il Mulino. Da Chagall ai Bauhaus Albers e Moholy-Nagy, da Hans Hoffmann a Mondrian, Maria Passaro ricostruisce, in un libro edito dal Mulino, storia e dinamiche dell’emigrazione artistica in U.S.A.
László Moholy-Nagy, "The Transformation", 1925, Los Angeles, Getty Museum
di Marco M. Mascolo


Quando nel 1933 il partito nazionalsocialista arriva al potere in Germania lo storico dell’arte Erwin Panofsky si trovava negli Stati Uniti. Professore all’Università di Amburgo, Panofsky insegnava alla New York University dal 1931 alternando i semestri tedeschi e quelli americani. Il nuovo cancelliere mise subito in atto il suo piano di epurazione: Panofsky, in quanto ebreo, perse il posto ad Amburgo. Così, di fatto, la sua vita prese una svolta inaspettata: costretto a rimanere negli Stati Uniti, lo studioso non avrebbe più scritto o parlato in tedesco, sua lingua madre. A distanza di molti anni, con uno sguardo retrospettivo in un saggio rimasto assai celebre e pubblicato per la prima volta nel 1954, Panofsky provò a tirare le fila di che cosa aveva significato per la storia dell’arte in America l’arrivo di così tanti studiosi europei, in particolare tedeschi.
Con grande pragmatismo da parte americana si comprese per tempo che quel flusso di emigrazione era un’occasione da non lasciarsi assolutamente sfuggire: «Hitler’s gift to America» titolava un articolo di Martin Gumbert uscito nel 1943 su «The American Mercury». Era l’élite intellettuale europea che guardava all’America come all’unica «terra di speranza», come scrisse nel gennaio 1938 Ernst Ludwig Kirchner all’amico Wilhelm Valentiner. Rifugiato in Svizzera, Kirchner si sarebbe tolto la vita nel giugno dello stesso anno.
Scienziati, professori, scrittori, critici, artisti sbarcavano a Ellis Island lasciandosi alle spalle il Vecchio Mondo. Non per tutti fu una scelta ‘pacifica’; molti di loro, una volta conclusa la Seconda Guerra Mondiale, rientrarono in Europa, chiudendo così quella che sin dall’inizio avevano considerato una parentesi dettata dalla situazione d’emergenza. Per altri, invece – come nel caso di Panofsky, ma anche di Albert Einstein –, gli States divennero la loro casa, la loro terra.
Un punto di svolta tanto importante quanto tragico fu la capitolazione della Francia nel 1940. L’armistizio conteneva precise istruzioni sulla cosiddetta «consegna su richiesta»: la Gestapo poteva richiedere, cioè, la consegna dei rifugiati tedeschi. Per contrastare questo provvedimento un gruppo di americani diede vita all’Emergency Rescue Committee e si adoperò per far sì che in molti venissero salvati, inviando il giornalista Varian Fry a Marsiglia con una lista di nomi. Marcel Duchamp, André Masson, Franz Werfel, Hannah Arendt, Max Ernst, Heinrich Mann espatriarono tutti grazie all’aiuto di Fry e all’impegno del governo americano che garantiva uno speciale visto per chi entrava nel Paese. Tra intellettuali, scrittori e critici furono molti gli artisti a emigrare verso ovest.
Proprio sull’emigrazione degli artisti si concentra il libro di Maria Passaro, Artisti in fuga da Hitler L’esilio americano delle avanguardie europee (Il Mulino, pp. 182,euro 16,00). L’obiettivo del volume è di seguire le vicende dell’esilio di alcuni dei protagonisti della scena artistica degli anni venti, costretti loro malgrado a rifugiarsi di là dall’Atlantico. Ci fu chi, come Marc Chagall, non si abituò mai all’idea di abbandonare la Francia, tanto che non parlò mai inglese e, appena gli fu possibile, fece ritorno a Parigi. Altri invece, in special modo coloro che avevano insegnato al Bauhaus come Joseph Albers e László Moholy-Nagy, accolsero con entusiasmo le possibilità che la nuova terra gli offriva. Albers iniziò insegnare al Black Mountain College (North Carolina) – dove fu insegnate, tra gli altri, dei giovani Robert Rauschenberg, Kenneth Noland e Cy Twombly – prima di approdare alla School of Art and Design di Yale; Moholy-Nagy venne reclutato per dare vita al «New Bauhaus» a Chicago.
Con loro emigrava dall’Europa anche un’intera tradizione di studi e di saperi che sarebbe stata cruciale per molte delle future generazioni di artisti e critici americani: basti pensare al ruolo di Albers per un artista come Donald Judd. Ma, forse, il caso più eclatante è quello di Hans Hofmann che, con la sua scuola d’arte a New York, avrebbe esercitato un ruolo di catalizzatore per i giovani Jackson Pollock, Mark Rothko e Arshile Gorky. Così come la tradizione di studi che Panofsky ricordava nel 1954 era stata innestata con successo nelle maggiori università americane, anche le spinte dell’avanguardia trovavano terreno fertile a un loro adattamento. Si pensi al caso di uno dei padri del costruttivismo, Piet Mondrian, che proprio a New York risiedeva dal 1940 e che avrebbe vissuto un’ultima folgorante stagione creativa, stimolata dalla metropoli e dalla sua vita brulicante, interrotta solo dalla morte dell’artista nel 1948.
Per quanto il libro di Passaro concentri la sua analisi sugli artisti, merita sottolineare come il successo e l’accoglienza dei rifugiati europei fosse per molti aspetti il frutto di legami culturali che avevano radici molto salde nel passato. Sia le migliori università (il caso di Harvard è esemplare) che le più alte istituzioni museali americane guardavano all’Europa, e alla Germania in particolare, per colmare il divario culturale che a inizio Novecento le separava dalle rispettive istituzioni europee. Non a caso il giovane Alfred Barr jr., negli anni venti, in vista dell’apertura del MoMA, compì un viaggio europeo dove rimase particolarmente colpito dal Kronprinzenpalais a Berlino, dove era ospitata la sezione di arte moderna della Alte Nationalgalerie. Ancora, era stato guardando proprio alle università tedesche che quelle americane avevano dato vita ai primi corsi di dottorato; e infatti molti studenti trascorrevano interi semestri proprio in Germania.
Da queste dinamiche (che con orrenda parola oggi spesso si definiscono «transnazionali») non erano certo esenti gli artisti, che spesso avevano Monaco come meta per perfezionare i loro studi. Dovette apparire naturale, allora, dare asilo e facilitare in ogni modo la permanenza dei rifugiati tedeschi, dopo il 1933. È importante tenere presenti queste linee di continuità per comprendere ancor meglio il vero e proprio turning point che fu quel 1933 e le possibilità che dischiuse tanto a chi arrivava quanto a chi accoglieva. «Tutto appare possibile. La finalità paralizzante del disastro europeo è lontana. Amo l’aria nuova e piena d’aspettative che mi circonda»: così scriveva Moholy-Nagy alla moglie Sybil nell’agosto del 1937, e concludeva: «Sì, voglio restare». Questa prospettiva della ‘lontanaza’ è assai importante per capire alcune delle scelte di fondo di molti degli emigrati. Da oltreoceano si guardavano con distanza anche gli studi e la tradizione in cui, consapevoli o meno, si era inseriti. E, allo stesso tempo, si stringevano legami e ci si inseriva in un nuovo contesto. Fu un processo che coinvolse, praticamente, tutti gli émigrés e che avrebbe dato i suoi frutti negli anni successivi. Si determinò così una vera e propria Wissenschaftstransfer, cioè il trasferimento, lo scambio e la trasformazione della conoscenza scientifica – basti citare i casi degli storici Felix Gilbert o Ernst Kantorowicz.
Quanto agli artisti americani, in un breve giro d’anni si sarebbero scrollati di dosso il senso di inferiorità nei confronti della cultura del Vecchio Continente. E in questo giocò un ruolo anche l’insegnamento degli europei emigrati in America. Sarebbe bastato qualche anno, e l’americano Rauschenberg avrebbe vinto il primo premio alla Biennale del 1964.

Corriere 24.6.17
Quel treno per Kathmandu La linea dalla Cina al Nepal che passerà sotto l’Everest
Si farà la ferrovia strategica per Xi. L’India osserva con sospetto
di Guido Santevecchi


PECHINO Una ferrovia himalayana per collegare la Cina al Nepal. Si parla da anni di questo progetto ardito, forse temerario, ma i tecnici di Pechino sono sicuri di poterlo realizzare e ora il premier nepalese Khadga Prasad Sharma Oli e il collega cinese Li Keqiang hanno firmato un’intesa per la costruzione della linea. Per raggiungere Kathmandu, circondata dalle montagne più alte del mondo, sono possibili due direttrici, una che passa da Gyirong e l’altra che scorre ai piedi dell’Everest (Qomolangma in lingua locale): in ogni caso bisognerà scavare una lunga galleria, dice Wang Menshu, esperto dell’Accademia di scienze ingegneristiche.
Le ricognizioni sono già state effettuate, il tracciato parte dal polo commerciale tibetano di Xigaze e dovrà percorrere più di 700 chilometri in alta quota. Dal 2014 una linea ferroviaria collega Xigaze alla capitale della regione cinese del Tibet, Lhasa, capolinea della ferrovia Qinghai-Tibet. Si tratta di 1.900 chilometri e con l’esperienza acquisita i cinesi sostengono che anche la nuova tratta verso il Nepal «è tecnicamente ed economicamente fattibile». Agli scettici, che ricordano come Kathmandu sia 1.800 metri sopra il livello del mare e Gyirong, alla frontiera tra i due Paesi, sia ad un’altitudine di 2.800 metri, viene risposto con il dato di fatto che Lhasa e Xigaze, sono rispettivamente a 3.700 e 3.800 metri.
La Repubblica popolare cinese è all’avanguardia nella tecnologia ferroviaria: si è dotata in poco più di dieci anni di circa 20 mila chilometri di linee ad alta velocità, con treni che percorrono enormi distanze a una media di 350 km all’ora. Ma per i 700 chilometri verso la capitale del Nepal si prevede di non poter superare i 120 sul versante cinese e i 160 su quello nepalese. Tempi di costruzione previsti quattro anni. Costi non ancora precisati.
Si tratta anche di una sfida geopolitica, oltre che ingegneristica, perché il Nepal è considerato strategico dai due grandi rivali Cina e India. Xi Jinping ha impegnato il suo Paese nel progetto delle Nuove Vie della Seta e New Delhi lo osserva con sospetto, temendo un piano egemonico. A Pechino replicano che collegare Tibet e Nepal servirà lo scopo di incrementare gli scambi commerciali, far uscire la popolazione del piccolo Stato himalayano dalla povertà e aprirlo alla modernità.
Il premier Khadga Prasad Sharma Oli è in Cina da una settimana, con una delegazione di ministri che hanno firmato una decina di intese che prevedono il miglioramento dei collegamenti stradali, la costruzione di altri nove varchi alla frontiera, 50 chilometri di cavi a fibra ottica per le telecomunicazioni in territorio nepalese e cooperazione agricola e industriale. Il Nepal nel 2015 ha subito un terremoto devastante, costato la vita a 9 mila persone e la potenza economica cinese si offre di intervenire, prendendo il posto dell’India. Nella visita del premier nepalese si è discusso anche di due progetti per una centrale idroelettrica da 2,5 miliardi di dollari e una diga da 1,8 miliardi. Erano stati accantonati ma ora il premier Oli ha detto alla stampa di Pechino che il suo governo di ispirazione marxista-leninista, insediato a febbraio, è pronto a rivitalizzarli.
La Cina sta esportando la sua tecnologia ferroviaria nel mondo: ha aperto nel 2016 la prima linea completamente elettrificata in Africa Orientale, tra Addis Abeba a Gibuti: 760 chilometri costruiti in tre anni e mezzo a un costo di circa 4 miliardi di dollari. Ha firmato i contratti per completare una linea ad alta velocità tra Mombasa in Kenya e Malaba, al confine con l’Uganda. Xi ha proposto anche di costruire una tratta tra la costa del Perù sul Pacifico e quella del Brasile sull’Atlantico. Le Vie della Seta sono infinite.

La Stampa 24.6.17
Giacometti
Apre a Parigi il museo che riproduce il suo celebre atelier
di Leonardo Martinelli


Una vita lì dentro, in quei 23 metri quadrati, tra il caos e la polvere, a dipingere e scolpire. Per capire l’opera di Alberto Giacometti, artista svizzero, che sino alla fine dei suoi giorni parlò francese con un forte accento italiano, da ora in poi bisognerà venire qui, in un’elegante dimora art-déco, che si affaccia sul cimitero di Montparnasse: l’Istituto Giacometti, dove è stato ricostituito il leggendario e minuscolo atelier di Alberto. Perché Annette, la moglie, quando lui morì di cancro a 64 anni, l’11 gennaio 1966, conservò tutto di quello spazio creativo, il suo universo.
L’ultimo modello
Ci sono i pochi mobili, rudimentali. E i pennelli, le spazzole, le bottiglie di trementina. I mozziconi di sigarette. Un’opera abbozzata, scultura in terra cruda, che ritrae il volto del fotografo Eli Lotar, l’ultimo dei numerosi modelli venuti a sottoporsi a estenuanti sessioni, mentre Giacometti, ossessivo e perfezionista, creava e distruggeva, ci riprovava, si arrabbiava. Nello studio ricostituito c’è anche la testa scolpita di Diego, il fratello più piccolo, adorato, che poi lo raggiungerà a Parigi e gli farà da assistente. Questa scultura Alberto l’aveva fatta ad appena 11 anni, quando vivevano ancora a Stampa, nelle montagne dei Grigioni, con la famiglia e il padre Giovanni, un pittore.
L’Istituto Giacometti sarà inaugurato martedì, voluto dalla Fondazione omonima, che gestisce l’enorme eredità di Annette. È una sorta di museo (ma per visitarlo bisognerà prenotarsi online). Occupa quella che fu la casa di un noto decoratore della Parigi anni Trenta, Paul Follot, con i suoi caminetti e i mosaici dorati d’origine. L’atmosfera è molto diversa da quella dell’atelier di Giacometti, che «al lusso e agli onori preferiva l’ascesi e il rigore», osserva Catherine Grenier, direttrice della Fondazione. Alberto arrivò a Parigi a 21 anni, nel 1922. E nel dicembre 1926 si installò nel suo antro, l’atelier, al 46 di rue Hippolyte-Maindron, pochi minuti a piedi dalla casa art-déco dell’Istituto. Accanto ai 23 metri quadrati d’origine, c’era un’umile stanzetta, dove dormiva. A mangiare andava nei vicini ristoranti, dove si ritrovavano gli altri artisti, come la Coupole, che ancora esiste, intatta (in ogni caso Alberto non ingurgitava molto più di un uovo sodo). Durante la Seconda guerra mondiale si trasferì a Ginevra, dove conobbe Annette, di vent’anni più giovane, semplice e libera, che lo raggiungerà a Parigi dopo il conflitto e lo sposerà nel 1949. «Accettò di andare a vivere lì con lui nello studio, sempre con il sorriso, come sottolineava ammirata Simone de Beauvoir: con Jean-Paul Sartre erano amici della coppia e frequentavano l’atelier», ricorda la Grenier.
Le donne di Venezia
Annette, dopo la scomparsa del marito, conservò addirittura i muri scarabocchiati di quello studio, ora riutilizzati nella ricostituzione. Nel resto dell’Istituto, sono esposte varie opere dell’artista, pure le Donne di Venezia, da lui create per la Biennale del 1956. « Negli ultimi anni aveva ormai le possibilità economiche di trasferirsi in spazi più confortevoli – ricorda l’italiana Serena Bucalo-Mussely, specialista di Giacometti -, ma non ce la faceva proprio ad abbandonare l’atelier».
I bordelli
Solo concesse ad Annette di vivere in un piccolo appartamento a parte. L’Istituto ospita anche una mostra su Jean Genet, che fu ritratto da Alberto e proprio sul suo studio scrisse un libro nel 1956. Genet era uno dei rari che poteva piombarvi a ogni ora, senza prevenire. Come ricorda la Bucalo-Mussely, l’artista svizzero, nonostante la sua immagine di tenebroso, «in realtà, uscito dall’atelier, era una persona divertente e amava stare in compagnia». Lavorava di notte e la mattina dormiva. Poi ancora a dipingere e scolpire nel pomeriggio. La sera, dopo la cena, camminava per Parigi. E girava per i bordelli. Annette accettava. E Alberto non cercava solo sesso, ma pure tanta umanità.
«Giacometti era a suo agio con chiunque: i ricchi collezionisti, i grandi intellettuali ma anche la gente semplice – ricorda la Grenier, che su di lui ha scritto una biografia, pubblicata l’anno scorso da Flammarion -. Era curioso e faceva domande a tutti. E gli piacevano i marginali. Riservava le sue angosce e le sue insofferenze, a tratti violente, solo al suo lavoro». Nell’atelier, tra polvere e caos.

Corriere La Lettura 24.6.18
Non salverò nessuna vita con i romanzi (tranne, forse, la mia)
di Paolo Giordano


Della mia infanzia ricordo i videotape. Quando mio padre guardava i filmati degli interventi chirurgici sul televisore del soggiorno, io mi fermavo dietro il divano, attratto dall’interno svelato di quei corpi femminili: gli organi irrorati di sangue e gli strumenti che ci rovistavano dentro, che tagliavano, aspiravano, tamponavano, «clampavano». Avevo il sospetto che guardare non mi facesse bene, ma non riuscivo a staccarmi. Se azzardavo una domanda, mio padre rispondeva sbrigativamente, come se gli stessi turbando la concentrazione. Eppure non mi allontanava mai. Immagino che considerasse quei video un modo come un altro di avvicinarmi a una verità tanto cruda quanto banale: non siamo altro che anatomia, ammassi di cellule e vertebre e tessuti connettivi.
Un giorno eravamo insieme all’aeroporto. Un signore enorme si è messo a sputare fiotti di sangue, che in un attimo gli hanno imbrattato la maglietta bianca, poi è crollato a terra di faccia, con uno schianto. Mio padre è corso da lui. Senza alcun ribrezzo, come se neanche vedesse tutto quel sangue, l’ha girato e gli ha praticato un massaggio cardiaco. Io osservavo tutto da distante, impalato dove mi aveva ordinato di restare, in preda a una strana eccitazione. All’arrivo dei soccorsi mio padre è tornato da me, per nulla scosso, e abbiamo proseguito verso il gate senza dire una parola. Quando ho trovato il coraggio di domandargli cosa fosse successo all’uomo con la maglietta insanguinata, me l’ha spiegato in poche frasi asciutte, tecniche. Sempre più in ansia, gli ho chiesto se sarebbe sopravvissuto e lui ha risposto con la stessa imperturbabilità: «Quasi sicuramente no». Non mi ha posato una mano sulla spalla, non ha cercato di addolcire la notizia, ha enunciato quella che per lui era la verità clinica e basta. Credo di non averlo mai ammirato tanto come in quel momento.
I mestieri dei genitori fanno sempre la differenza nella vita dei figli. Un padre ginecologo, ho l’impressione, fa solo un po’ più di differenza. La nostra quotidianità era caratterizzata da un vocabolario speciale, che mi affascinava e atterriva, e che sapevo non esistere altrove. Da bambino ho intuito lo scopo di una «spirale» prima di associarla a una forma geometrica astratta, e nell’astuccio di scuola avevo spesso articoli di cancelleria sponsorizzati da pillole anticoncezionali — Ginoden, Arianna, Diane —, che per fortuna i miei compagni non riconoscevano, sebbene si mostrassero un po’ sospettosi verso quell’eccesso di rosa. Ho familiarizzato, senza capirli, con termini come «amniocentesi» ed «endometrio», «laparoscopia» e «colposcopia», con termini come «retroverso» e «transvaginale» e con certe loro implicazioni oscure, prima d’incontrare parole assai più ovvie, tipo «biliardo». Il nostro numero di casa era sull’elenco telefonico, quindi c’erano chiamate a cui rispondere a tutte le ore del giorno e della notte. Avevo memorizzato una serie di formule e sapevo applicarle a seconda dei casi. Capitava spesso che le signore fossero in uno stato di estrema agitazione. Nonostante sentissero dall’altra parte la voce di un bambino, in molte non resistevano alla tentazione di raccontarmi nei dettagli quale fosse il problema, se un’improvvisa eruzione cutanea, delle perdite anomale a metà ciclo, l’indecifrabilità della calligrafia di mio padre sulla ricetta oppure la posologia di un farmaco: per caso la sapevo io? A volte si mettevano a piangere, allora attivavo il protocollo di emergenza per farle parlare subito «con il dottore».
A cena ascoltavo i resoconti delle giornate in ospedale, resoconti in cui i nomi delle pazienti venivano sostituiti quasi sempre dalla loro condizione clinica: «l’extrauterina di ieri», «l’isterectomia di domani», «un altro cerchiaggio». Biasimavo mio padre per questo, la sua mi sembrava una mancanza di tatto, prima di comprendere che si trattava in realtà di difese linguistiche necessarie, che quello era il solo modo possibile di arginare il coinvolgimento emotivo schiacciante del suo lavoro.
Di quell’età ricordo la frustrazione di non capire le parole, d’intuire la vastità del lessico che mi circondava e la mia inadeguatezza nei suoi confronti. Certo, avrei potuto fare più domande a mio padre, ma non me la sentivo. Il suo sapere m’intimoriva. Oppure ci sarebbe stata la Treccani verde chiusa nella libreria della mansarda, il vetro ne lasciava vedere le indicazioni alfabetiche in caratteri dorati e la chiave era sempre a disposizione nella toppa, ma non osavo affidarmi nemmeno a quella. Forse perché, quando ci avevo provato, ero rimasto più confuso di prima. Ciò che facevo, era riempire il vuoto di senso lasciato da quel gergo misterioso con immagini del tutto personali, spesso riconducibili al viluppo di organi che sbirciavo nei videotape, alcune delle quali durano ancora oggi.
Quella frustrazione è stata importante. Ho idea che sia stata responsabile di molte scelte che avrei fatto negli anni a venire. Quando, dopo il diploma, mi sono iscritto all’università di Fisica, è stato soprattutto perché desideravo appropriarmi di un linguaggio assoluto, capace di descrivere tanto le meccaniche siderali quanto quelle microscopiche dell’universo. E, in effetti, nel periodo universitario ho sperimentato il conforto — no, non il conforto: il senso di supremazia, di trovarmi immerso in un linguaggio scientifico. Nulla che desse più piacere a noi giovani fisici dell’esprimerci usando un codice che pochi altri erano in grado di comprendere, un linguaggio per iniziati. Al bar facevamo sempre in modo che qualcuno ci ascoltasse.
Raggiunsi a un certo punto la convinzione che le parole della scienza fossero le migliori di tutte, perché erano neutrali, si limitavano a indicare i concetti a cui facevano riferimento senza enfasi, senza complicazioni sentimentali, senza ambiguità. La scienza tutta, in un certo senso, mi appariva così: un luogo impermeabile alle brutture del mondo, equanime, disinteressato. Con le parole della fisica e della matematica sarei stato in grado di tenere a bada la paura, proprio come mio padre mentre soccorreva l’uomo all’aeroporto. Ma potevo spingermi oltre rispetto a dov’era arrivato lui. Il mio sogno delirante si avvicinò per un periodo alla volontà di esprimermi solo attraverso il formalismo matematico, di ricondurre tutto a matrici e distribuzioni di probabilità, a sistemi non lineari e trasformate di Fourier. Dicevo frasi senza senso, come: «La vita andrebbe compresa nello spazio delle fasi». Chi aveva più bisogno dell’approssimazione del linguaggio comune, una volta sfiorata l’immensità racchiusa nell’equazione di Boltzmann? Oppure una volta intuito, seppur fuggevolmente, che esistono infiniti più infiniti di altri, e che possiamo metterli in ordine come ci ha insegnato Cantor?
Qualche giorno dopo la laurea ero seduto in cucina con i miei genitori. Mio padre mi ha detto: «Va bene, hai fatto quello che volevi. Adesso puoi smettere di giocare e prenderti una laurea seria». Sono scoppiato a ridere, era chiaro che stesse scherzando. Stava scherzando, vero? Lui è rimasto perfettamente serio. Sapevo di avergli procurato una delusione quando avevo scartato l’ipotesi di medicina senza nemmeno discuterne con lui, ma ero altrettanto sicuro che gli fosse passata. Invece era disposto a sostenermi economicamente per altri sei o chissà quanti anni di studi, a patto che arrivassi infine a possedere quello che per lui restava l’unico linguaggio adeguato a spiegare il mondo.
Non molti mesi prima era morta l’ostetrica con cui aveva lavorato a stretto contatto per lungo tempo. Si era ammalata di cancro e, quando l’oncologia aveva gettato la spugna, era andata in India a farsi curare da un santone. Mi sembrava che in cuor suo mio padre non gliel’avesse mai perdonato come se, con quella debolezza, lei avesse voltato le spalle a tutto ciò in cui avevano creduto insieme, vanificato ogni sforzo congiunto delle loro vite. Ebbene, in una maniera diversa, l’avevo fatto anch’io, l’ho capito il giorno in cui, fresco di laurea, mi ha proposto d’iscrivermi a medicina. E quello stesso giorno ho capito che la profondità del mio tradimento non era ancora abbastanza. Mi ero allontanato dalle sue parole, è vero, ma ne avevo scelte altre troppo simili, ero rimasto dentro il suo cono d’ombra, al sicuro nel dominio scientifico che gli apparteneva e nel quale non mi sarei mai differenziato del tutto da lui. In effetti, avevo già iniziato a scrivere dei racconti, nessuno lo sapeva e d’un tratto intuivo il perché di quella segretezza, verso chi era diretto il sottile senso di trasgressione che provavo facendolo.
Lo sappiamo: ogni figlio, per esistere, deve tradire il padre. E una lingua nuova, una lingua per sé stessi, è il tradimento dei tradimenti. Secondo Benjamin, che interpreta la Genesi, il linguaggio è la prima disubbidienza a Dio che infetta il Paradiso Terrestre, «il peccato originale è l’atto di nascita della parola umana». Mi chiedo tuttavia se mio padre sia cosciente di averlo fatto a sua volta, molto prima di me. Sono pochissime le storie della sua giovinezza alle quali mi abbia dato accesso, forse due soltanto: la prima riguarda il suo esordio al liceo classico in centro città, lo sforzo avvilente di ripulirsi del dialetto piemontese per adattarsi all’italiano; la seconda è l’ostruzionismo tenace che mio nonno fece al proseguimento dei suoi studi dopo la maturità, un ostruzionismo di cui non ha mai fatto ammenda, neppure dopo. Ecco, mi domando se mio padre si renda conto di aver tradito mio nonno con il linguaggio, assai più drasticamente di come ho fatto io quando è arrivato il mio turno.
Un giorno, avevo sei o sette anni, mi portò a tagliare i capelli dal suo barbiere. Si trattava di un’eccezione, perché di solito ero affidato al contesto più protetto della parrucchiera di mia madre. Il barbiere teneva a disposizione dei clienti una selezione ampia di fumetti porno, segno di un’epoca che stava già scomparendo. Ne avevo subito preso uno, mascherandolo dietro una copertina di Tex, e mi ero messo a sfogliarlo con un nodo alla gola. Ma mio padre sapeva che non sopportavo Tex, oppure dovevo avere gli occhi così spalancati da farlo insospettire, fatto sta che mi aveva colto in flagrante, mentre fissavo la vignetta di un pompino. La sera, a cena, mi aveva preso in giro. Già ch’ero stato denunciato, avevo pensato che fosse l’occasione buona per togliermi un dubbio che mi vorticava in testa da mesi, e avevo domandato se la pratica che avevo visto nel fumetto fosse una «emestruazione», marcando bene la «e» iniziale.
È il ricordo di un’umiliazione. Ma è uno dei ricordi al quale sono più attaccato. Molta della tensione che nel tempo avrei sviluppato verso le parole, molto del desiderio che avrei avuto verso di esse, si è giocato in quel fraintendimento. Se mio padre si addentrava nelle cavità proibite che vedevo nei videotape, io, ascoltandolo, imparavo ad addentrarmi nelle gallerie carsiche delle parole. Mi sono nascosto nello spazio fra i suoi termini medici e il loro significato, e in quell’intervallo buio è nata la mia immaginazione.
Ci sono voluti molti anni e molti sforzi per scrollarmi di dosso l’epiteto di «figlio del dottore», per sradicarlo anzitutto dalla mia mente. Un padre che nel corso della sua vita ha portato alla luce non centinaia, ma migliaia di bambini e bambine, significa una moltitudine di fratellastri e sorellastre sconosciuti, significa riserve di gratitudine eterna sparse nei luoghi più inaspettati. E quando quel padre ha fatto ormai nascere i figli dei figli dei figli, la moltitudine diventa una strana, pressante famiglia invisibile. Ancora oggi, in situazioni insospettabili, capita che una signora si avvicini e mi sussurri: «Suo padre mi ha fatto nascere», con gli occhi accesi da un bagliore. A cosa si può aspirare di più in un’esistenza?
Così, sebbene nel tempo mi sia avvicinato a posizioni critiche nei confronti del «potere medico», a condividere quello che dei dottori dicevano sarcasticamente Foucault e Deleuze e Thomas Bernhard, la mia ammirazione è rimasta intaccata, ferma al giorno in cui mio padre soccorse l’uomo collassato in aeroporto. E la fantasia, irrealizzabile, è sempre la stessa: in volo, una hostess chiede al microfono se c’è un medico a bordo, io mi alzo e dico: «Eccomi!» Perché so bene, dentro di me, che a prescindere dall’impegno profuso e dai risultati che magari ne verranno, non salverò nessuna vita con la scrittura, se non forse la mia.

Corriere La Lettura 24.6.18
Origini Sapienza antica
Stephen Greenblatt, docente di letteratura, sottolinea la potenza dei miti
Shakespeare batte Bacone nel rispondere alle domande sulla natura dell’uomo
Sul piano conoscitivo la concezione ciclica degli autori classici è molto più valida rispetto all’idea del progrresso lineare
di Giulio Giorello


Nella Bibbia Dio sembra convinto di aver fatto «cosa buona» creando il primo uomo e la prima donna. Quando ho letto il libro di Stephen Greenblatt Ascesa e caduta di Adamo ed Eva (Rizzoli) mi ha colpito il gesto di ribellione di Adamo: «Odio Dio». Era quel che gli aveva messo in bocca l’ex monaco agostiniano Lutero, peraltro così attento alla parola biblica. Ma Greenblatt, riprendendo il titolo del celebre poema di John Milton, concludeva che «il Paradiso terrestre non era affatto perduto, piuttosto non era mai esistito». Dello straordinario Giardino dell’Eden, almeno come è stato rappresentato da poeti e narratori soprattutto di cultura inglese, Greenblatt, che insegna letteratura alla Harvard University e che mercoledì 27 giugno sarà a Venezia, si è occupato a lungo, arrivando alla tesi che la storia di Eva e di Adamo ha preteso di spiegarci un «fatto» che forse non è mai avvenuto. Ho l’occasione di discuterne proprio con lui, muovendo dalla differenza tra letteratura e scienza, ovvero tra due modi talvolta contrapposti di decifrare e interpretare la realtà.
In che cosa consiste davvero la diversità tra il letterato e lo scienziato? Letteratura e scienza sono destinate a combattersi?
«La nave della letteratura ha le vele gonfie di un vento millenario. La scienza, in confronto, è ancora adolescente. Quando William Shakespeare attingeva alla sapienza secolare del mondo classico greco e latino, Francesco Bacone era ancora incerto sulla via che avrebbe imboccato una scienza che si proponeva il benessere dell’umanità».
Lei, dunque, non è certo tra coloro secondo cui Shakespeare faceva da prestanome al filosofo della natura…
«Non mi riconosco per nulla in quella particolare concezione dell’autore dell’Amleto, anche perché se Shakespeare si appoggia a una grande tradizione, Bacone, nella sua Nuova Atlantide (come altrove), vuole piuttosto inaugurarne una nuova. Ma gli inizi sono sempre difficili».
Del resto, Bacone non guardava nemmeno con troppa simpatia a figure come Giovanni Keplero e Galileo Galilei, colpevoli ai suoi occhi di perdersi in eccessive sottigliezze matematiche...
«È davvero così. Galileo aveva anche un suo particolare senso del teatro, come mostra la disputa che mette in scena nel Dialogo sui massimi sistemi del mondo. Ma a mio parere la letteratura, specie quando si tratta di indagare la natura umana, con tutti i suoi misteri, dalla sofferenza all’amore, e di darci qualche risposta alla domanda che non riusciamo a eludere, quella del significato della vita, ci dà delle risposte più coinvolgenti. Penso appunto al teatro shakespeariano, ma anche allo stesso Milton. E Shakespeare mostra talvolta di non ignorare un grande dibattito che oggi noi chiameremmo scientifico, il conflitto tra tolemaici e copernicani, come ha mostrato bene Gilberto Sacerdoti nel bellissimo libro Nuovo cielo, nuova terra (il Mulino, 1990)».
Quali sono, allora, le relazioni che possono emergere tra il mito e la scienza? È ancora legittimo pensare che l’uno tramonti quando l’altra sorge?
«Il mito non va confuso con la favola o la leggenda: è una modalità di conoscenza che si rivolge all’interno dell’animo umano, laddove la scienza indaga l’esterno. Il mito, insomma, nell’accezione data da Mircea Eliade, si può intendere come la fonte di ogni forma di religiosità apparsa su questa Terra e, con la sua concezione ciclica e ricorrente delle vicende umane si rivela forse ben più efficace di una concezione troppo lineare della crescita della conoscenza».
Le magnifiche sorti e progressive su cui ironizzava Giacomo Leopardi…
«Dico questo perché una delle cose che la vita mi ha insegnato è che non puoi mai prevederla. Uno pensa che le cose stiano andando e debbano andare in una direzione “razionale”, e all’improvviso tutto prende una piega inaspettata: la direzione imprevista! Questo è per me contemporaneamente fonte di disappunto e di piacere. Sono un professore di letteratura, e quando, all’età di vent’anni, ero un combattivo e convinto marxista, mi sentivo sicuro che le cose andassero secondo la Ragione, ma ora so che non è così, e dunque avevo torto allora. Quindi so che è un bene che le cose vadano come devono andare, anche se, talvolta, ciò può risultare frustrante. Comunque, ci tengo a precisare che, per quanto possa apprezzare il mondo dei miti, e la loro numinosa bellezza, quando mi ammalo e ho bisogno di curarmi, mi rivolgo a un dottore e non a uno sciamano. Se, a volte, posso essere scettico sui risultati della scienza, non lo sono sui metodi. Del resto, vivo in un mondo che è pieno di brillanti scienziati, persone che hanno saputo mettere bene a frutto le conoscenze ereditate dai predecessori. Nella stessa biologia evoluzionistica — che, come ho avuto modo di scrivere in un mio libro, pretende di aver confutato la storia di Adamo ed Eva — non troviamo delle risposte così articolate e soddisfacenti quanto quelle che ci vengono offerte dalle grandi opere letterarie, se le sappiamo leggere bene».
Su che cosa sta lavorando adesso?
«Uno dei problemi che mi affascinano di più è come sia nata e si sia faticosamente affermata l’idea di tolleranza in Occidente».
Sono portato a credere che la tolleranza sia un concetto moderno. Non voglio però sostenere che nelle società antiche proliferassero troppe forme di intolleranza. Anzi, anche nel mondo pre-greco c’era almeno un atteggiamento che considerava come «ospiti» coloro che avevano miti e riti differenti.
«Mi viene in mente una testimonianza del mondo classico, che racconta di tre dotti amici, due cristiani e un pagano, che approfittano di un giorno di pausa nelle loro ordinarie occupazioni per andare al mare e arrivano alla spiaggia di Ostia, dove il clima è mite, il mare calmo e la spiaggia piena di fanciulli che giocano spensierati. Qui si imbattono nella statua di un’antica divinità. Il pagano le manda un bacio per onorarla, il che irrita uno dei cristiani, che chiede all’altro se non sia il caso di intervenire per rimproverare quel nostalgico degli Dei di un tempo. Essendoci rapporti di amicizia e trattandosi comunque di un’anima confusa, non era forse loro dovere riportarlo sulla retta via? Il pagano rimane sorpreso e turbato dalle loro ammonizioni, e il fatto che quest’opera sia datata 190 o 192 d.C. ne fa una delle testimonianze più antiche del genere. Questo è un segno di come si spense quello spirito di accoglienza che abbracciava tutti gli Dei, e di come cominciò a prendere forma un sentimento di angoscia provocato da un unico Dio, che era per di più “geloso”».
Una domanda su Lucrezio e il suo «De rerum natura», che è un singolare connubio tra un’arte poetica raffinata e un atteggiamento scientifico poi interpretato come profondamente secolarizzato. Lucrezio dispiega sotto gli occhi stessi di noi moderni, in modo potente, un universo in cui dominano atomi e vuoto. In me i suoi versi suscitano sempre un’intensa emozione, e in lei?
«Certamente sì. Dal punto di vista scientifico, ovviamente, le sue intuizioni hanno fatto il loro tempo. Però, hanno reso un gran servizio al mondo. Ora che ci confrontiamo con nozioni come quella di “materia oscura”, se la paragoniamo agli atomi immaginati dalla tradizione che va da Leucippo e Democrito fino a Epicuro e a Lucrezio stesso, il De rerum natura, per quanto brillante, non può esserci di grande aiuto. Ma senza le idee metafisiche degli antichi atomisti, Lucrezio incluso, non ci sarebbe stata la catena di ripensamenti che ha portato alla fisica delle particelle cosiddette elementari».

Corriere La Lettura 24.6.18
Piacere e tristezza, gioia e sgomento: il cervello emotivo
di Luigi Ripamonti


«Tu chiamale se vuoi emozioni». Lucio Battisti avrà avuto idea di quale bomba concettuale gli aveva piazzato Mogol sotto lo spartito? Forse no, altrimenti avrebbe proposto alternative meno problematiche. Ne spiega bene il perché Jan Plamper in Storia delle emozioni, a partire dal mainstream divulgativo che associa le emozioni alle reazioni tipo «fuggi-o-combatti», che sarebbero mediate dall’amigdala, piccola ghiandola più o meno al centro del cervello. Anche fosse così semplice (e non lo è) si tratterebbe solo di un’estrema semplificazione della visione neuroanatomica, deterministica, delle emozioni, a cui se ne contrappone una antropologica, socio-culturale. L’ipotesi deterministica-universalistica sostiene che le emozioni hanno un sostrato costante trans-storico e una validità generale: la paura davanti al nemico è sempre la stessa per tutti e produce le stesse manifestazioni corporee. Secondo la lettura antropologica le emozioni non hanno invece lo stesso valore sempre e dappertutto e, in ogni caso, i modelli culturali possono neutralizzare risposte emotive ritenute innate e automatiche.
Già la definizione stessa di emozioni, del resto, è ardua. Se ne sono occupate filosofia, teologia, retorica, medicina, letteratura, psicologia sperimentale e neuroscienze. Solo fra il 1872 e il 1980 ne sono state date 92 definizioni diverse. La storia delle emozioni è una storia, appunto, e l’autore ne traccia le tappe fondamentali nella filosofia occidentale da Aristotele a Kant, passando per Agostino, Cartesio, Spinoza, Hobbes e Locke. Ma non basta, perché è difficile una descrizione panculturale delle emozioni. A noi appare bizzarra l’esplosione di riso ai funerali e di tristezza ai matrimoni, normale in certi Paesi. Può sorprenderci constatare il tenace controllo della rabbia negli eschimesi e, al contrario, la favorevole accoglienza delle esplosioni d’ira presso i tahitiani. A partire dal Novecento queste osservazioni, da cui trae argomenti il costruttivismo sociale, hanno dovuto fare i conti con l’ingresso sulla scena di nuove visioni, che hanno spostato l’interesse verso il «partito» universalistico delle emozioni. Fra queste la posizione di Paul Ekman, sostenitore della necessità di superare la prospettiva linguistica delle emozioni per passare a un loro studio fondato sulle espressioni del viso. Per Ekman ci sono reazioni invariabili in tutti i volti, riferibili a emozioni base, programmi affettivi predefiniti che sono destati da stimoli esterni, indipendentemente da fattori culturali. La tesi di Ekman viene messa in discussione da Plamper, che richiama le critiche, soprattutto di metodo, di cui è stata fatta oggetto. Dagli anni Sessanta del secolo scorso la ricerca sulle emozioni è poi virata sul paradigma della misurazione attraverso strumenti ad hoc (modificazione del battito cardiaco, pH, eccetera, a seguito di precisi stimoli). Ma mai è stato provato che a essere misurate così fossero proprio le emozioni.
A sparigliare davvero le carte è stato invece l’avvento della risonanza magnetica funzionale, capace di registrare in vivo l’attivazione delle diverse aree del cervello sulla base dell’irrorazione di sangue. Lo tsunami di studi e di investimenti che ne sono seguiti ha convogliato un enorme interesse sull’argomento, ma ha anche condotto a semplificazioni talora azzardate. Plamper traccia i limiti di questo approccio anche in chiave tecnica, insistendo in particolare sull’insufficiente definizione anatomica e sul rumore di fondo statistico del metodo (che ha consentito, fra l’altro, di registrare l’attività cerebrale di un salmone morto). Nondimeno l’avvento del moderno imaging cerebrale ha generato modelli interpretativi che hanno avuto larga diffusione, grazie anche a divulgatori scientifici brillanti come LeDoux, Damasio o Rizzolatti. Plamper illustra le loro tesi non senza spirito critico, soprattutto relativamente al ruolo della pubblicistica scientifica. Il suo auspicio è che si giunga a una ricomposizione fra visione universalistica e costruttivista. E se l’approccio socioculturale e storico dev’essere valorizzato, i suoi fautori vengono però invitati ad avvalersi delle neuroscienze, seppure in modo consapevole e informato.

Corriere a Lettura 24.6.18
Secoli di umori contraddittori: la devozione e l’ira dei crociati, il riso dei popolani, la tristezza del re
Cattedrali di paura (e di vergogna): il Medioevo emotivo
di Amedeo Feniello


Emozione. Forse una delle parole più belle del nostro vocabolario. Infinita nelle sue sfumature. Nelle impressioni che può animare. Invade la nostra esistenza. La ravviva e la vivacizza. Ma cosa resta di essa, quando la vita termina e del vissuto non resta più niente, neanche la memoria? È questa la domanda che come un filo rosso ispira il libro di Damien Boquet e Piroska Nagy Medioevo sensibile (Carocci). Un libro non fatto «di gerarchie, ritmi di produzione o tassi d’imposta» o espressione di una storia sociale fredda e rigida. Ma, invece, costruito sull’empatia, su «desideri e fremiti, fiati sospesi e sospiri senza fine». Un libro cioè diverso, ricco di umanità, ma assai difficile da scrivere. Che ha richiesto un peculiare acume filologico. Con uno sforzo ambizioso, perché «le società umane rimangono impenetrabili all’osservatore che non si sforzi di auscultarne le palpitazioni emozionali, dalle più spettacolari alle più sottili».
Il Medioevo è forse l’ambito emotivo più bello da descrivere. Forse il più spettacolare. L’immaginario stesso ci spinge verso la sua irrazionalità. Con il contrasto frequente tra atteggiamenti divergenti, tra pianto e ira, spirito e carne, santità e sangue. Ma è vero che nel Medioevo le emozioni sono ovunque. Chiare. Aperte. Manifestate in maniera limpida e netta. I re e i signori si disperano. I crociati massacrano e si commuovono allo stesso tempo. I toni di sconforto e costernazione sono profondi, esasperati e non tenuti al laccio. Le passioni altrettanto. I romanzi cortesi sono una selva di stati d’animo, di pulsioni, espresse con codici e topoi tanto dissonanti dai nostri canoni moderni. Il riso e lo scherno, la disgrazia e l’abbattimento animano invece l’agire politico e alimentano gli squilibri sociali. L’ira è dappertutto. Incontrollata: per un affronto, uno sgarro, una vendetta, una rappresaglia. Come è dappertutto la vergogna, temuta più del dolore fisico — e, per la Chiesa, nulla poteva liberare dal peccato quanto la vergogna, vissuta in modo autentico se non addirittura mostrata in pubblico. Dove la strada della penitenza non passava soltanto «attraverso la riparazione della colpa ma esigeva l’espressione sincera, patetica, della sofferenza morale e del pentimento». Infine, dominava su tutto l’altra grande emozione. La paura. Che, con l’angoscia, aleggia dappertutto. Nel quotidiano, tante volte insopportabile, disseminato di fame, malattia e morte. Come nell’idea di un destino eterno di dannazione e supplizio.
Ma le emozioni sono anche frutto di modifiche sociali, di mutamenti, di trasformazioni che coincidono con le grandi rivoluzioni che il Medioevo esprime con pienezza. E in questo volume la carrellata si dispone sul lungo periodo, con svolte emozionali che marcano tempi e periodi. Si parte dalla grande trasformazione del patrimonio emotivo nell’età della cristianizzazione, tra IV e VI secolo, con la codifica di una vera teologia delle emozioni. E, da qui, via via ci si inerpica tra i secoli centrali del Medioevo, esplorando ambienti diversi (il monastero, la corte franca, la dimensione della nuova realtà delle lacerazioni post-carolingie) fino a giungere al grande momento feudale, dei valori aristocratici, della donna signora e domina, della cortesia, della cavalleria. Con ritratti che emergono per la loro incisività, come quello del re di Francia Luigi IX il Santo, descritto alla fine della crociata del 1254 in un atteggiamento emotivo a metà fra la depressione e il declino psicologico, lui sconfitto e inconsolabile per lo scacco subito e «nulla lo distoglieva dal fissare gli occhi a terra con profonda tristezza, e dal pensare — fra profondi sospiri — che la sua prigionia aveva cagionato la generale confusione della Cristianità».
Una storia, quella che propongono gli autori, «ad altezza d’uomo, dell’essere umano nella sua interezza e delle singolarità condivise». Che ci spinge a riconsiderare l’uomo medievale, non più «gigante dalla testa di bimbo», secondo le suggestive parole dello storico Huizinga, ossia sedotto e condizionato da una perenne bipolarità tra emozioni discordanti; ma figlio di un contesto che si sagoma nel tempo, fino alla costruzione di enormi cattedrali di emozioni che caratterizzarono, definendola, un’intera società.