Corriere La Lettura 24.6.18
Grazie Stephen
La grandezza di Hawking
Ero certo che la vita non continua in alcun modo dopo la morte
Come
molti scienziati amava usare “dio” per frasi ad effetti, ma era
limpidamente e risolutamente ateo, senza ambiguità o incertezze e non ha
esitato a dirlo chiaramente
Soprattutto dobbiam essergli grati per
l’amore per la vita che ha trasmesso fino all’ultimo, quando comunicava
unicamente con gli occhi
di Carlo Rovelli
Stephen
Hawking non è più con noi. Ci mancano il suo sorriso sornione e
l’irriverenza ragazzina che non ha mai perso neanche da vecchio e
malato. E quanto malato... Sono trascorsi solo tre mesi e dieci giorni
dalla sua scomparsa, ma possiamo forse già provare a chiederci,
serenamente e al di là delle reazioni immediate, che cosa ci ha davvero
lasciato, nella fisica e non solo.
Provo a farlo, in punta di
piedi, in nome dell’amicizia e della grande ammirazione che ho per lui.
Stephen è stato per prima cosa un ottimo fisico, uno fra quelli davvero
bravi della sua generazione, non il grande scienziato del secolo, il
novello Einstein o il novello Newton delle tante esagerazioni,
esagerazioni che lui stesso non ha esitato un attimo a nutrire nella sua
giocosa sfacciataggine. Inizio quindi provando a dire quali sono stati i
suoi risultati scientifici importanti.
La scoperta maggiore,
quella che resterà legata al suo nome, è stata la dimostrazione che i
buchi neri si comportano come fossero caldi: irraggiano calore come una
stufa. Vi è arrivato nel 1974 con un calcolo complesso e delicato che
mescolava abilmente tecniche di relatività generale e di teoria delle
particelle elementari. La temperatura che ha calcolato si chiama oggi
«temperatura di Hawking»: dipende da quanto è grande il buco nero. Più
un buco nero è grande, più è freddo. I buchi neri caldi sono quindi
quelli piccoli.
Il risultato ha suscitato sorpresa negli anni
Settanta, rendendo Stephen, poco più che trentenne, assai noto fra i
fisici teorici. Prima, nessuno si aspettava che ci potesse essere una
temperatura per un buco nero. Neanche lui, prima di terminare il conto.
Il calore irraggiato dai buchi neri caldi è chiamato oggi «radiazione di
Hawking». Non è mai stato osservato, e sarà difficile sia osservato
presto, perché è debole. Ma la sua esistenza è stata poi derivata
nuovamente in molti modi diversi, ed è oggi accettata come molto
plausibile dalla larga maggioranza degli scienziati. Ci sono tentativi
di riprodurre qualcosa di simile in laboratorio, ma senza i veri buchi
neri, usando sistemi che ne mimino alcuni aspetti.
Perché è
importante la «radiazione di Hawking»? Perché è un fenomeno che
coinvolge tanto la struttura dello spaziotempo quanto la meccanica
quantistica. Questo lo rende un indizio importante rispetto al grande
problema aperto della fisica contemporanea: trovare una teoria di
«gravità quantistica», cioè una teoria che descriva tutti gli aspetti
«quantistici» dello spazio e del tempo. Molta ricerca attuale fa quindi
uso del risultato di Hawking, o cerca di approfondirlo. Nel gruppo di
ricerca dove lavoro, per esempio, stiamo ora cercando di usare una
possibile teoria di gravità quantistica per calcolare che cosa succede a
un buco nero dopo essersi consumato irraggiando radiazione di Hawking.
C’è una formula bellissima che riassume il risultato di Hawking. Non è
la formula che dà la temperatura, ma quella che dà l’entropia S del buco
nero (da cui la temperatura deriva) in funzione dell’area A della sua
superficie. La formula, semplice, è questa:
La bellezza di questa
formula consiste nella sua semplicità, ma sopratutto nel fatto che
combina le 4 costanti che stanno alla base dei quattro capitoli
fondamentali della fisica: la costante di Boltzmann k alla radice della
termodinamica, la velocità della luce c della relatività, la costante di
Newton G che caratterizza la gravità, cioè la struttura dello
spaziotempo, e la costante di Planckħh alla base della meccanica
quantistica. Nessuna altra formula nota mette insieme così elegantemente
tutti i capitoli di base della nostra fisica. Stephen ha chiesto, a
ragione, che questa formula sia scritta sulla sua tomba.
Fra i
risultati minori di Stephen, i più rilevanti sono due. Da giovane, in
collaborazione con il grande matematico inglese Roger Penrose, ha
dimostrato che la teoria di Einstein prevede che l’universo sia nato da
un «big bang»: punto singolare dove la teoria non funziona più. Questa
conclusione era stata ottenuta precedentemente solo assumendo, poco
realisticamente, che l’universo sia esattamente omogeneo. Il teorema di
Penrose e Hawking mostra che la semplificazione non è necessaria. Questo
ha reso il Big Bang più credibile.
Stephen è poi tornato sulla
questione del Big Bang negli anni Ottanta, cercando di mostrare come una
teoria quantistica possa effettivamente descrivere la nascita
dell’universo. Ha costruito un affascinante modello intuitivo di gravità
quantistica e l’ha applicato all’inizio dell’universo. Il modello è
oggi considerato una delle possibilità, ma altre idee, forse più
plausibili, sono oggi discusse.
C’è un filo che unisce questi
risultati. Da ragazzo Stephen si è appassionato alla grande teoria di
Einstein. Allora le applicazioni erano poche e la ricerca era
matematica. Le previsioni fisiche spettacolari come buchi neri e Big
Bang erano ancora considerate esoteriche e sospette. Penrose le aveva
rafforzate mostrando che i buchi neri si formano di sicuro quando
abbastanza materia si concentra, e Stephen ha avuto l’idea di usare le
tecniche di Penrose per studiare la nascita dell’universo. L’idea è
stata che in fondo la nascita dell’universo è un po’ come un collasso di
un buco nero visto a ritroso nel tempo. Aver chiarito che dentro i
buchi neri e nell’universo primordiale la relatività generale di
Einstein diventa insufficiente ha spinto Stephen a cominciare a
considerare effetti quantistici. In questo modo è arrivato alla
radiazione di Hawking. Poi negli anni successivi ha cercato di usare
pienamente la meccanica quantistica per rivedere il problema dell’inizio
dell’universo alla luce dei quanti. Tutti questi problemi, sia chiaro,
non sono ancora risolti. Ma in una discussione oggi su di essi non è
raro sentire citato il nome di Hawking o una qualche sua idea.
Questi
cenni non esauriscono l’attività teorica di Hawking, ma spero possano
dare il senso di quello che ci ha lasciato nella fisica.
La vera
grandezza di Stephen, però, io credo sia altrove. La sua grandezza è
stata umana. Inchiodato su una sedia a rotelle, ha progressivamente
perso il controllo di tutti i muscoli del corpo. L’ultima volta che l’ho
incontrato, a Stoccolma, riusciva a muovere appena gli occhi.
Comunicava muovendoli: un sistema elettronico leggeva il movimento dei
suoi occhi con una piccola telecamera, e grazie a questo Stephen
controllava un computer e metteva laboriosamente lettere in fila, per
costruire parole, che venivano infine pronunciate da un sintetizzatore
vocale. Uno strazio, guardarlo in questo processo faticoso e lentissimo.
Eppure la voce di quel sintetizzatore vocale è arrivata al mondo
intero. Quella voce metallica così caratteristica, Stephen è riuscito a
farla sua e farne il tramite quasi naturale della sua brillante
intelligenza e della sua ironia.
Non si è perso d’animo. Ha
continuato a produrre fisica di grande qualità, mentre lo stato del suo
corpo non faceva che deteriorare. In condizioni che rasentano
l’impossibile, è riuscito a comporre un libro di immenso successo (Dal
big bang ai buchi neri. Breve storia del tempo). Nei trent’anni dalla
sua pubblicazione ha venduto oltre 10 milioni di copie, e continua a
essere letto. Attraverso questo libro ha parlato ai giovani del mondo
intero, incantandoli e ispirandoli a studiare l’universo.
Nell’estrema
sfortuna di una simile disabilità, Stephen ha avuto anche non poche
fortune: un’intelligenza molto rara, un’ottima famiglia
dell’intellighenzia inglese, un’educazione di primissimo ordine, un
decorso della malattia lento nonostante catastrofiche previsioni
iniziali. Il suo valore scientifico, poi la sua fama, gli hanno permesso
quello che altri con simili infermità non possono permettersi. Ma anche
tenendo conto di tutto questo, Stephen, nel suo modo un po’ sfacciato
da eterno ragazzetto impunito, ha dato al mondo una lezione umana
straordinaria. Una lezione di amore per la vita, per l’intelligenza, per
la curiosità.
Il giorno successivo al piccolo meeting di
Stoccolma dove era così difficile e straziante comunicare con lui,
Stephen dava una conferenza nel più immenso teatro della città. Gremito
all’inverosimile di giovani che pendevano dalle sue labbra. È arrivato
sul palco con il suo sorriso mite, la sua mitica sedia a rotelle, e ha
fatto partire la registrazione della sua conferenza, preparata muovendo i
muscoli degli occhi. Ha raccontato i suoi ultimi tentativi di
comprendere il futuro dei buchi neri, ha scherzato, preso in giro i
francesi, giocato sul senso della vita, irrispettoso, ribelle, con un
sorriso fra le labbra che traspariva da ogni frase. L’immenso pubblico
ne era stregato. Le parole finali erano ancora una dichiarazione di
amore per la vita, come sempre giocata sull’ambiguità: dai buchi neri si
può uscire.
Stephen era certo che la vita non continua in alcun
modo dopo la morte. Come molti scienziati, amava usare «Dio» per frasi a
effetto, ma era limpidamente e risolutamente ateo, senza ambiguità o
incertezze, e non ha esitato a dirlo chiaramente. Non era in
consolazioni trascendenti che trovava forza. Era prigioniero della più
debilitante delle infermità, legato al resto di tutti noi da un filo
sempre più esile. Eppure ha continuato a vivere fino all’ultimo istante
con intensità bruciante, a scherzare, a parlare al mondo intero, a
comunicare allegria e gioia, a trascinare la gioventù nei suoi
entusiasmi. Non è questa una straordinaria lezione di vita per tutti noi
lagnoni? Non è questo il dono infinitamente prezioso che Stephen ci
lascia? L’irresistibile luminosa forza della vita, della curiosità, del
pensiero, dell’intelligenza.
Ora quel filo esilissimo si è
spezzato. Prima di sparire del tutto, come succede a ogni cosa,
sciogliendosi nell’immensità di quello sterminato cosmo che tanto amava,
Stephen resta ancora per un po’ vivo e operante nella nostra scienza,
nella nostra memoria, nelle nostre emozioni, nei nostri pensieri.
Grazie, Stephen.