giovedì 28 giugno 2018

Corriere 28.6.18
Piketty misura il crollo della sinistra
di Danilo Taino


In tutto l’Occidente ci si domanda cosa sia successo alla sinistra, quella socialdemocratica e quella «rivoluzionaria». Come mai abbia perso consensi in misura drammatica, al punto da fare pensare a una sua possibile estinzione. Un lungo studio di Thomas Piketty — l’economista diventato famoso con un libro sulle disuguaglianze, Il capitale nel Ventunesimo secolo — ha evidenziato una serie di dati statistici che possono fare riflettere. Il lavoro — intitolato «Sinistra bramina versus destra dei mercanti» — riguarda i risultati elettorali degli scorsi decenni negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e soprattutto in Francia: piuttosto simili nonostante le differenze istituzionali e dei sistemi elettorali. Una lettura utile anche in Italia dopo le votazioni più recenti. Il risultato principale dello studio è, secondo Piketty, «il rovesciamento completo della frattura dell’istruzione». All’inizio del periodo preso in considerazione, gli anni 50 e 60, «gli elettori più istruiti votavano sistematicamente più per la destra». Ora, a partire dai primi anni Duemila, si osserva «un andamento completamente opposto: più alto il livello di istruzione, più alto il voto a sinistra». Un indicatore che illustra questo cambiamento è la differenza tra il numero dei laureati votanti a sinistra e i non laureati votanti a sinistra. Negli anni 50 e 60, questa differenza era negativa attorno al 20%, cioè erano i meno istruiti a votare molto più i partiti di sinistra (i democratici in America, i laburisti nel Regno Unito, i socialisti e i comunisti in Francia). Con il passare del tempo, il gap è venuto via via chiudendosi, è sceso a zero negli anni 80, è diventato leggermente positivo negli anni 90 e nel primo decennio del Duemila è diventato positivo del 10%. Si tratta di un cambiamento del 30% in alcuni decenni che segnala l’enorme spostamento nei comportamenti elettorali. Negli Stati Uniti, la differenza tra il numero di laureati e di non laureati che hanno votato a sinistra (democratici) era di meno 11% nel 1964 e di più 17% nel 2016. In Gran Bretagna di meno 17% nel 1955 e di più 7% nel 2017. In Francia, di meno 16% nel 1958 e di più 13% nel 2017. È in sostanza un rovesciamento storico: le élite (inevitabilmente minoritarie) votano le sinistre e la popolazione meno istruita tende a non votarle più. Fenomeno che secondo Piketty vale anche, ma in misura minore, per le élite del denaro.

Corriere 28.6.18
Il frontismo non risolverà la crisi  dei  democratici
di Antonio Macaluso


Tu chiamale, se vuoi, emozioni. Non basterà un magistrale verso di Mogol a un Pd in coma farmacologico da troppo tempo. Ma certo è proprio di emozioni che avrebbe bisogno il suo popolo, quel poco che è rimasto fedele a un simbolo vuoto e quello assai più numeroso che una dolorosa diaspora ha portato chi a destra, chi nel M5S, chi al non voto.
Il punto è che emozionare è difficile, esige testa, cuore, gambe. Tre virtù che da molto tempo non riescono a entrare in uno stesso corpo di leader progressista. Abbiamo visto quindi alternarsi alla guida del Pd quelli che si sono poi rilevati — senza offesa — mezzi leader: chi ha avuto cuore e gambe ma poca testa, chi testa e gambe, ma cuore deboluccio e così via. I risultati, del resto, questo ci dicono. Come nello sport, sarà pure che ultimamente il partito ha trovato avversari più forti, più in forma, ma questo non giustifica il calo impietoso di rendimento. Calcisticamente, per dirla con l’ex ministro Carlo Calenda, che paventa ormai il rischio irrilevanza, potremmo parlare non più di serie B ma di zona retrocessione in C. Calenda rilancia dunque l’idea di un Pd che si faccia guida di uno schieramento più largo, che torni a recuperare i pezzi che ha perso a sinistra. Il reggente del partito, Maurizio Martina, invoca un cambio di persone e di idee. Verrebbe da dire: complimenti, ci siete arrivati.
E comunque né la soluzione «frontista», né quella di un cambio di pelle tutto interno al Pd sono semplici. In comune hanno che un leader tutto nuovo e che funzioni va comunque trovato e rapidamente. Ma si sa che i numeri uno non sono quelli costruiti in un’assemblea o in un congresso sulla base di giochi di corrente o convenienze personali. Al contrario, gli organismi collegiali dovrebbero investire leader un uomo o una donna che abbiano già mostrato in modo chiaro e inequivocabile di avere le doti necessarie o che le abbiano ma non del tutto espresse. Matteo Salvini è il capo indiscusso della Lega perché si è imposto — dentro e fuori il partito — come leader. L’investitura ha formalizzato una situazione di fatto. E così dovrà essere per il Pd se vorrà metter fine a giochetti di potere di piccolo cabotaggio.
Ci si interroga oggi, con qualche anno di ritardo, se quella fusione «a freddo» tra ex comunisti e mondo della sinistra cattolica che diede vita all’Ulivo non sia stata un errore o se — buone le intenzioni — ci siano stati errori umani di gestione. Come in un disastro aereo, ci vorrebbe una «scatola nera» che desse delle risposte incontrovertibili. Ma quella scatola non c’è e le testimonianze dei sempre meno sopravvissuti — davvero ne hanno l’animo — sono, come spesso accade, incerte, lacunose e contraddittorie.
In queste ore, in questi giorni è cominciata la sagra delle parole, delle accuse, dei rimpianti, delle buone intenzioni. Ogni tanto sibila qualche idea, ma ci vuole ben altro per dare un segnale forte di vitalità. Ed è assai dubbio che ciò possa avvenire andando a ripescare esperienze frontiste di cui al momento si avverte più il rischio anacronistico di una impaurita trincea che non la costruzione di una snella sinistra moderna. Il rischio è che quel fronte raccolga una buona parte dei reduci e dei fuoriusciti in uno spirito di disperata resistenza. Una linea del Piave buona per giocare con i soldatini, non per affrontare uno schieramento mixato populista-sovranista in una battaglia vera e internazionale.
La via maestra per il rilancio — se mai verrà individuata — appare ancora lontana, ben nascosta, impervia. Né è alle viste — tra i volti di una classe dirigente squalificata da tante sconfitte — l’immagine di un leader operaio che possa appassionare, unire, stupire, perfino. Siamo certi che da qualche parte sia, che già esista — magari senza saperlo — e bisogna solo trovarlo. Forse è un dirigente locale, o solo un «simpatizzante», un giovane, un ragazzo o una ragazza pieni di passione e di idee pulite, con una carica umana che riesca a ricreare emozioni. Emozioni a sinistra. Trovarlo è il compito dei Renzi, dei Martina, degli Orlando e così via. Trovarlo e fargli largo, lanciarlo, accreditarlo. Lasciando da parte, almeno a un passo dal baratro, le loro vanità sconfitte.

Il Sole 28.6.18
La minaccia di un paese senza opposizione
di Pietro Paganini


L’ultima tornata elettorale conferma che in Italia potrebbe esserci un problema democratico. Non è il governo Giallo-Verde e i suoi componenti come molti analisti vogliono farci credere (per mascherare la loro precedente insensibilità) . È l’opposizione (che negli ultimi due decenni fu maggioranza) che non c’è più. I partiti che dovrebbero rappresentare l’altro 40% degli elettori o provare a rispondere ai problemi del 100% dei cittadini, si stanno sciogliendo tra le banalità dei grossolani errori tattici e strategici che continuano a compiere.
Viene a mancare di fatto il pluralismo tipico delle liberaldemocrazie a fondamento della Società aperta. Senza il conflitto democratico l’ossigeno per la convivenza tra cittadini diversi si affievolisce, si riduce la libertà individuale, rallenta l’innovazione e quindi lo sviluppo economico.
Il populismo riempie un vuoto. Come la gramigna germoglia dove non cresce l’erba buona. I populisti reagiscono alle amnesie dell’establishment finanziario e burocratico rispondendo ai problemi dei forgotten, di quella parte della popolazione che è rimasta esclusa o è vittima – mai protagonista – dei processi decisionali. Chi è stato ed era convinto di essere la guida costruttiva del futuro dei cittadini, sta sbagliando tutto, e oggi rischia di sparire nell’irrilevanza danneggiando se stesso e tutti noi.
Dove è chi dovrebbe contrastare il populismo? Il problema non è solo italiano, è europeo, e americano. In Italia il Partito democratico (Pd) sta confermando di non avere un progetto da presentare al Paese. Ha perso la sua identità. Ha inseguito (sarebbe stato giusto) la voglia di mercato globalizzato, ma dimenticandosi totalmente dei cittadini (e quindi del mercato). Il centro-destra e l’area così detta moderata vorrebbero il potere senza idee.
I governi precedenti dicevano di voler proiettare l’Italia nel futuro, di digitalizzare l’economia e modernizzare la società. Hanno però evitato con cura il metodo sperimentale tipico delle liberaldemocrazie, cioè lo strumento che avrebbe loro consentito di diagnosticare i problemi ed elaborare delle soluzioni alle sfide del nuovo. Il futuro è diventato così una religione, un obbligo ideologico (se non di mero potere), privo di qualsiasi sostanza, cui i cittadini avrebbero dovuto affidarsi.
I cittadini non sono sciocchi come spesso crede (si leggano i commenti di questi giorni) chi distorce l’idea di epistocrazia, il primato della competenza. Di fronte ai problemi di tutti i giorni i cittadini temono il salto nel vuoto, e rifiutano quel futuro a loro oscuro.
E hanno ragione. In quel futuro il pluralismo svaniva e con esso il conflitto tra cittadini diversi; il mercato era un oligopolio delle élite, inaccessibile ai più; la tecnologia, la globalizzazione, la frammentazione del mercato del lavoro, erano diventati un’imposizione dall’alto e non una naturale evoluzione delle cose. Le elezioni recenti confermano questa tendenza con la crescita continua di consensi per la reazione detta populista. Così negli Usa il presidente Trump che è un corpo estraneo rispetti all’establishment del partito raccoglie – secondo i sondaggi – il 90% dei consensi tra gli elettori repubblicani.
Dobbiamo elaborare una nuova idea di futuro. Che non è quella indefinita della reazione populista. Essa ha furbescamente risposto con la stessa religione e ideologia dei partiti tradizionali, ma partendo dal rassicurare emotivamente l’elettore e mettendolo davanti a tutto. Fa proposte, a volte interessanti, ma prive di razionalità. La gramigna può essere sradicata, ma va sostituita con l’erba buona, altrimenti ricresce. I cittadini vanno inclusi e stimolati a contribuire al progetto del futuro, anche e soprattutto quando è complesso e faticoso. Le reazioni alla disfatta del Partito democratico perpetuano incredibilmente gli stessi errori: ignorare i cittadini (salvo chiedere il voto), evitare di stimolare il conflitto democratico, pensare il futuro senza il metodo sperimentale, rassicurare i cittadini con risposte ideologiche e religiose, senza renderli consapevoli che problemi nuovi richiedono risposte diverse.
Si insiste nel tentativo di convincere gli elettori che non servono le idee ma bastano le sigle e, i contenitori, e lo scimmiottamento incondizionato delle élite estere (la Francia è di moda).
L’opposizione deve ripensarsi nei contenuti (le sigle conseguono) sfruttare questo fallimento dei vecchi gestori come un’opportunità per reniventare il futuro ma coinvolgendo i forgotten, non ignorandoli. La diversità di genere, per esempio, o l’accoglienza, sono un tema tra i tanti per un liberale. Se dovessero diventare, come in Italia, o negli Usa per i Democratici, il punto principale dell’agenda, allora cadremmo nuovamente nello storicismo ideologico tipico delle élite radicali da salotto. La Società aperta deve puntare alla pluralità degli interessi dei cittadini dimenticati, e non alle questioni di una sola parte. La sconfitta elettorale può essere salutare. Ma il male va prima diagnosticato e poi curato con le medicine giuste. Chi ripete il medesimo errore di sempre, è destinato a sparire. Svegliati opposizione. Non servono nomi o volti, ma idee su come concretamente favorire una società più libera e prospera dei cittadini.

La Stampa 28.6.18
Il piano di Vienna
“Via i migranti da tutta l’Europa”
Arresti e rimpatri immediati”
di Marco Bresolin

Pieno controllo delle frontiere esterne. Rafforzamento dei poteri di Frontex. Arresto dei migranti ai confini fino al termine delle procedure di registrazione. Sviluppo di un sistema di asilo per vagliare le domande soltanto fuori dal territorio Ue. Protezione dei rifugiati lontano dall’Europa, nelle regioni vicine alle aree di crisi. Apertura dei corridoi umanitari soltanto a coloro che rispettano i valori europei. Espulsione degli irregolari e, in assenza di accordi di riammissione, deportazione in Paesi terzi. 
Incapace di trovare una soluzione interna sulla gestione dei migranti, l’Europa è pronta a trasformarsi in un bunker. C’è già un piano pronto e porta la firma del governo austriaco, che da domenica guiderà il semestre di presidenza Ue. Stasera il Consiglio europeo darà infatti all’Austria il mandato per prendere in mano il dossier immigrazione e in particolare la riforma di Dublino. 
«La Stampa» ha avuto accesso al documento che Vienna presenterà lunedì al Cosi, il Comitato per la sicurezza interna. Già, perché il governo austriaco parte da una tesi molto chiara: i fenomeni migratori sono una minaccia per la sicurezza. 
E ha deciso di fondere i due dossier. «La crisi migratoria - esordisce il paper di 7 pagine - ha avuto un impatto negativo sia sulla fiducia delle persone nella sicurezza, sia sulla sicurezza in quanto tale». E mette subito le cose in chiaro, sbarrando la strada a ipotesi di redistribuzione dei migranti: «In caso di ulteriori crisi migratorie, che purtroppo sono prevedibili, la distribuzione dei migranti negli Stati Ue potrebbe portare a un’ulteriore destabilizzazione della situazione». Quindi, niente da fare.
«Inclini al crimine»
La linea, dunque è molto chiara: i migranti vanno tenuti tutti fuori. Un approccio che probabilmente piacerà ad alcuni ministri dell’Interno europei. La terminologia usata nel documento richiama infatti il linguaggio tipico dei leader anti-migranti. «Non sono principalmente i più bisognosi che vengono in Europa - si legge -, ma soprattutto le persone che possono permettersi di pagare i trafficanti e che si sentono abbastanza forti da intraprendere viaggi pericolosi». Alcune righe dopo, il documento rincara la dose: «A causa di fattori legati al loro background e alle loro scarse prospettive, (i migranti, ndr) hanno problemi nel vivere in società libere o addirittura nel rigettarle». E quindi «molti di questi sono particolarmente suscettibili alle ideologie ostili alla libertà e/o inclini a rivolgersi al crimine».
Rimpatri e deportazioni
Il paper propone «un cambiamento di paradigma completo nella politica di asilo Ue» e fissa alcuni obiettivi chiari: il primo è «l’arresto dell’immigrazione illegale in Europa». Va sviluppato un «nuovo e migliore sistema di protezione in base al quale nessuna richiesta di asilo viene presentata sul territorio dell’Ue». E, se mai qualcuno riuscisse a presentarla, «in caso di decisione negativa, la persona deve essere trasferita nel suo Paese di origine oppure - opzione che deve essere esaminata - in un centro di rimpatrio in un Paese terzo». L’Austria insiste con la proposta di allestire campi in uno Stato extra-Ue (nei Balcani o in Nordafrica) in cui mandare i migranti espulsi dal territorio Ue. Ma questa soluzione trova già molte resistenze a Bruxelles.
Gestione in outsourcing 
Il progetto prevede un potenziamento di Frontex, dal punto di vista delle risorse ma anche delle competenze. Con un’armonizzazione delle procedure di rimpatrio. Alla necessità di «migliorare le condizioni di vita delle persone nelle regioni di origine» il piano dedica solo tre righe. In sostanza, la strategia punta a esternalizzare l’intero procedimento di gestione dei flussi attraverso «accordi globali con Paesi terzi». Un processo di «outsourcing» che parte dai salvataggi in mare («Sostenere i Paesi terzi nell’istituzione di centri di ricerca e salvataggio»), al controllo dei loro confini terrestri, per poi passare all’esame delle domande in loco, fino alla protezione stessa. Secondo Vienna bisogna «dare priorità alla protezione il più vicino possibile alle regioni in crisi». 
I rifugiati dovrebbero dunque essere accolti nei Paesi limitrofi a quelli da cui fuggono. «L’asilo in Europa - recita il documento - è concesso solo a coloro che rispettano i valori europei e i diritti e le libertà sostenuti nell’Ue».

La Stampa 28.6.18
Rabbia e paranoie
L’onda populista può durare a lungo
di Alan Friedman


Il successo elettorale della Lega e del M5S in Italia si inserisce in un trend sociopolitico che sta dilagando rapidamente in tutto il mondo occidentale. E se la Storia è maestra di vita, i movimenti populisti su entrambe le sponde dell’Atlantico appaiono destinati a dominare la politica nei prossimi anni, mentre l’opposizione di centrosinistra sarà ancora impegnata a leccarsi le ferite e ricostruire la propria identità.
Per cercare di capire le cause alla radice dei populismi del XXI secolo, possiamo certamente guardare agli effetti di decenni caratterizzati da gravi disparità di reddito e dal declino degli standard di vita, così come alla mancanza di sensibilità delle élite nei confronti delle vittime della globalizzazione e dell’innovazione tecnologica, alle ripercussioni devastanti della crisi innescata dal fallimento della Lehman Brothers, alle sofferenze determinate dalle misure di austerità che hanno interessato molti europei. Negli Stati Uniti e in Italia, i salari reali sono rimasti fermi e la spesa pubblica dedicata agli ammortizzatori sociali è stata fortemente ridotta, mentre i working poor e la classe media si stanno ribellando a gran voce contro l’establishment. Stanno portando avanti un messaggio molto chiaro: «Quando è troppo è troppo! Vogliamo una fetta più grande della torta!».
Ma se vogliamo davvero comprendere perché Donald Trump e Matteo Salvini continuano ad accrescere il loro consenso elettorale, e perché potrebbero seguitare a vincere alle urne nei prossimi anni, potrebbe essere opportuno guardare agli antenati degli odierni populismi occidentali, e osservare come questi sono nati e si sono diffusi. Non vorrei limitarmi ai paralleli con l’ascesa del fascismo e del nazismo in Europa negli Anni Venti e Trenta. Invece, credo sia opportuno scavare più in profondità per comprendere come e perché i movimenti populisti si sono originati e come hanno prosperato nel corso della storia. Nessuno ha spiegato questi fenomeni meglio dello storico Richard Hofstadter, che ha scritto due libri fondamentali: Anti-Intellectualism in American Life (1962) e The Paranoid Style in American Politics (1964).
Hofstadter avrebbe potuto tranquillamente riferirsi ai movimenti guidati da Salvini, Casaleggio e Di Maio, Orban, Le Pen, Farage o Trump, quando più di mezzo secolo fa scriveva queste parole sulle pagine di Harper’s Magazine: «La politica americana si è spesso rivelata un’arena per gli animi rabbiosi. Negli anni recenti abbiamo visto animi rabbiosi all’opera, soprattutto tra gli esponenti della destra estrema (…). Ma dietro questo [fenomeno], credo che ci sia uno stile di pensiero per nulla nuovo, e la cui appartenenza non è necessariamente di destra. Io lo chiamo stile paranoico».
In questo celebre articolo, Hofstadter fa l’esempio del populismo degli Anni Cinquanta guidato dal senatore Joe McCarthy, e riporta un discorso del giugno 1951 in cui il politico statunitense, ferocemente anticomunista, sostiene l’esistenza di una «grande cospirazione» da parte di «uomini in alto». L’uso delle teorie del complotto è un tratto distintivo del populismo attraverso tutta la storia moderna.
Hofstadter riporta poi un programma elettorale, risalente al 1895, del Populist Party (un partito americano attivo tra il 1891 e il 1908), nel quale i firmatari se la prendono con «un complotto ordito dai giocatori d’azzardo dell’oro (ovvero le banche, ndr) in Europa e Usa», chiaramente allo scopo di rendere i ricchi più ricchi a spese dei poveri. A metà del XIX secolo, quando gli Stati Uniti vivevano l’ascesa del Know-Nothing Party, un movimento xenofobo e anticattolico, la teoria del complotto in voga vedeva tra i cospiratori «i monarchi europei e il Papa», accusati di «progettare il nostro annientamento e minacciare l’estinzione delle nostre istituzioni politiche, civili e religiose».
Alla fine del Settecento, ricorda ancora Hofstadter, approda in America un testo britannico dal titolo piuttosto evocativo: Prove di una cospirazione contro tutte le religioni e i governi d’Europa, perpetrata nelle adunanze segrete dei Massoni, degli Illuminati e delle Società di lettura. Questi concetti, anche grazie all’onda emotiva e al panico provocati dalla Rivoluzione francese, si radicano profondamente nella psiche degli Stati Uniti. Gli Illuminati e i Massoni diventano velocemente i protagonisti di innumerevoli e fortunate teorie del complotto che ricordano da vicino quelle che oggi aleggiano intorno al Gruppo Bilderberg e al cosiddetto Nuovo ordine mondiale, tanto care a diversi esponenti ed elettori del M5S.
Hofstadter sostiene che se vogliamo comprendere il successo dei movimenti populisti nel corso della storia dobbiamo capire il modo in cui questi hanno tradizionalmente incoraggiato la paranoia di massa e gli attacchi rivolti alle élite.
In tempi normali, i populisti restano ai margini della società, rappresentandone solo una piccola parte. Ma in presenza di gravi crisi o traumi collettivi, come una guerra o una depressione economica, questi gruppi minoritari possono trasformarsi in movimenti politici di massa, e diventare così la maggioranza. È ciò che è accaduto negli Anni Trenta in Europa a seguito della crisi del ’29, o negli Usa degli Anni Cinquanta durante la Guerra fredda. E questo è il motivo per cui è verosimile che sia Trump sia Salvini continueranno a vincere finché riusciranno a sfruttare le paure più primordiali e la rabbia della loro base elettorale.
La Storia ci mostra come le energie primordiali della propaganda paranoica possono essere incanalate e rilasciate nella società quando sfruttate sapientemente da un demagogo. Questo capopopolo può ereditare una crisi o può fabbricarla, e tutto funziona ancora meglio se riguarda persone di differenti etnie o culture, che possono essere efficacemente rappresentate come una minaccia al lavoro, al benessere, o alla società in generale. Ebrei, rom, cattolici, omosessuali, persone con la pelle più scura, musulmani, messicani. Non mancano certo nella storia gli esempi in grado di mostrare come il populismo sia quasi sempre venato di razzismo.
I populisti spesso utilizzano queste raffiche di attacchi nei confronti dei loro nemici, oggettivi o inventati. E, come abbiamo visto in passato, questi movimenti di massa sono in grado di prosperare a lungo dopo la presa del potere, anche uno o due decenni. Se la Storia è davvero maestra, questa è la prospettiva con cui gran parte dell’Occidente si trova a dover fare i conti.

La Stampa 28.6.18
Per i supplenti si torna alla graduatoria
I sindacati: “Vittoria”
Eliminata la chiamata diretta da parte dei presidi Per i rappresentanti degli insegnanti “era un pasticcio”
di Flavia Amabile


Era uno dei punti presenti nel contratto di governo: far fuori la possibilità da parte dei presidi di chiamare in modo diretto i loro insegnanti. A nemmeno un mese dall’insediamento alla guida del ministero dell’Istruzione, Marco Bussetti ha eseguito la condanna. Con un’intesa raggiunta due giorni fa con i sindacati la misura è stata eliminata. Si tratta di un intervento urgente per garantire l’assegnazione dei posti nelle scuole in modo regolare il prossimo settembre ma si procederà presto a un intervento tramite legge, ha assicurato il ministro.
Dunque, eliminata la chiamata diretta, si torna al sistema delle graduatorie. Innanzitutto si procederà alla copertura dei posti disponibili destinandoli a personale che ha ottenuto la mobilità su ambito, ovvero il trasferimento sulle aree di competenza e non sulla scuola, con una delle precedenze previste da contratto nazionale (ad esempio disabilità o gravi motivi di salute).
Subito dopo si procederà alla copertura dei posti rimanenti scegliendo il personale in base al punteggio di mobilità. La presentazione della domanda sarà possibile da oggi, il personale dovrà utilizzare la sezione “Istanze on line” e indicherà la scuola da cui partire. Per la scuola secondaria bisognerà attendere invece la pubblicazione dei trasferimenti, programmata per il 13 luglio.
La scelta degli insegnanti
Gli insegnanti , invece,sceglieranno la scuola dalla quale partire per l’assegnazione d’ufficio da parte dell’Ufficio Scolastico provinciale. Se il posto scelto non sarà libero, si scorreranno i posti per vicinanza. Nel caso di mancata indicazione sarà considerata la scuola capofila dell’ambito. La procedura riguarderà anche i docenti che saranno assunti a tempo indeterminato nell’anno scolastico 2018/19. Entro il 27 luglio la procedura sarà completata. Subito dopo saranno avviate le operazioni per l’assegnazione della sede per il personale che è stato da quest’anno immesso in ruolo. Anche in questo caso si seguirà il punteggio di graduatoria.
I vincitori di concorso ordinario precederanno i docenti provenienti dalle graduatorie ad esaurimento. L’assegnazione della sede di incarico avverrà allo stesso tempo dell’assegnazione dell’ambito di titolarità.
Il successo dei sindacati
Per i sindacati si tratta di una grande vittoria. «L’accordo - chiariscono Flc-Cgil, Cisl e Uil scuola, tre delle sigle che hanno firmato l’intesa - prevede che le operazioni avvengano attraverso una procedura trasparente e oggettiva gestita dagli Uffici scolastici territoriali».
Rino Di Meglio, coordinatore nazionale della Fgu-Gilda degli insegnanti, il quarto sindacato firmatario dell’intesa, ricorda che negli ultimi due anni la Gilda, sola tra i sindacati rappresentativi, non ha sottoscritto i contratti sulla mobilità proprio come forma di opposizione alla chiamata diretta.
L’Anief, invece, non è stata tra i firmatari ma era comunque contraria.
Il presidente Marcello Pacifico definisce la chiamata diretta «un pasticcio» perché «per la mancanza di linee guida univoche, ci siamo ritrovati con adozioni troppo diversificate e quindi discriminanti». Inoltre secondo il presidente sindacale si è rivelata anche «inutile, poco praticabile e per di più immotivata, perché per scegliere dei docenti già formati e graduati in base ai titoli e servizi svolti, non c’era alcuna esigenza di selezione. Basterebbe ricordare che in Italia per diventare oggi insegnante occorre intraprendere un percorso universitario lungo ben otto anni».

La Stampa 28.6.18
“Hanno tradito noi presidi
I miglioramenti sono banditi”
di Flavia Amabile


I presidi si sentono traditi. Avevano creduto nella chiamata diretta, ricorda Antonello Giannelli, presidente dell’Anp, l’Associazione nazionale presidi.
1Perché traditi?
«Era uno strumento che permetteva ai dirigenti scolastici di migliorare la qualità della didattica. Ci avevano creduto in tanti, infatti, quella prima estate in cui era andata in vigore la chiamata diretta. Avevano anche rinunciato alle ferie di agosto per migliorare il servizio offerto agli studenti».
2 E poi?
«Lo sforzo dei presidi è stato vanificato dagli interventi del sindacato. Si è data ai docenti la possibilità di spostarsi in modo provvisorio. Gli insegnanti scelti dal dirigente hanno preferito rimanere vicino alla famiglia, un desiderio legittimo ma resta il fatto che l’interesse pubblico della scuola viene in second’ordine».
3 Il primo a sostenere la cancellazione è stato il ministro Bussetti .
«Ha privilegiato un accordo con i sindacati che garantisce la pace sociale e cristallizza, invece, la situazione nelle scuole. I miglioramenti sono banditi».

Corriere 28.6.18
Scuola,  l’abolizione della  chiamata  diretta è  un  pessimo  segnale
di Andrea Ichino

I presidi sono tornati a essere come capitani di nave che non possono scegliere il loro equipaggio, pur essendo responsabili della rotta. La chiamata diretta dei professori da parte dei presidi era uno dei pochi passi nella direzione giusta fatto dalla c.d. «Buona scuola», ed è stato annullato. Il nuovo governo ha usato la scuola per fare una cattiva «politica del lavoro», sacrificando l’interesse degli studenti a quello della parte peggiore degli aspiranti insegnanti. Ma gli studenti e le generazioni future non votano alle prossime elezioni. Votano invece gli insegnanti e i sindacalisti che preferiscono le graduatorie alla selezione discrezionale.
Discrezionalità non vuol dire arbitrio, se guidata da incentivi corretti. Il passo in avanti della scuola renziana era insufficiente proprio perché non aveva curato la necessità di incentivare i presidi ad assumere gli insegnanti migliori invece che i loro protetti. La soluzione non era, però, tornare indietro quanto piuttosto andare avanti abbinando la discrezionalità con un sistema efficace di valutazione. Così si fa nei sistemi che danno i risultati migliori, perché la scuola veramente buona la fanno i buoni insegnanti. Tutto il resto conta meno e lo dicono i dati.
Questo passo indietro è un pessimo segnale per la scuola, ma anche per chi vuole fare politica seriamente in questo Paese. Per definizione, la buona politica non può dare benefici nel breve periodo e se fatta «a metà» lascia il Paese in mezzo al guado, con i difetti della vecchia sponda e senza i benefici della nuova. Oggi gli elettori non sono più legati ai partiti per motivi ideologici che li aiutino a superare i costi di breve (come accadeva nel secolo scorso). Diventano quindi soggetti al fascino del Gatto e della Volpe, che offrono benefici immediati ma nascondono i disastri che seguiranno dopo per tutti. Gli italiani, ahimè, perderanno tutte le loro monete, come il povero Pinocchio.

Repubblica 28.6.18
Il ministro Bussetti “Ma la Buona scuola non è tutta da buttare”
Intervista di Corrado Zunino,


ROMA Ministro Marco Bussetti, sta andando via il primo mese dal giuramento. Che macchina ha trovato in Viale Trastevere: sfiancata, motivata?
«Ho trovato persone con straordinarie professionalità, al centro e in periferia. Sono contento della macchina del ministero dell’Istruzione. Le molte sollecitazioni dell’ultima riforma hanno disorientato e stressato gli uffici, dobbiamo tornare a una gestione più ordinata e con una programmazione a lunga scadenza. Basta scossoni».
Martedì ha siglato un accordo con i sindacati per cancellare la chiamata diretta. Perché togliere a un preside la possibilità di intervenire sulla scuola che dirige?
«Era un impegno del contratto di governo. La cosiddetta chiamata diretta era troppo discrezionale e con inefficienze. Ora abbiamo criteri oggettivi di mobilità e assegnazione dei docenti».
A proposito di mobilità, lei ha spiegato che chi ottiene un lavoro fuori regione non dovrà rientrare subito, ma la Lega ha preso voti dicendo nei comizi: riunifichiamo le famiglie lontane.
«Le due cose non sono in contrapposizione. La mia sensibilità nasce dalla constatazione dei danni derivati dal trasferimento forzato degli insegnanti. Non si può sradicare un docente-genitore dalla famiglia e dal territorio, molti supplenti del Sud avrebbero preferito restare precari a casa loro. La Buona scuola è stata una scelta obbligata, noi offriremo una scelta consapevole».
Ovvero? Gli insegnanti sono ancora in prevalenza al Sud e gli studenti in prevalenza al Centro-Nord.
«Propongo questo: dal 2019 concorsi per docenti su base regionale. Significa che prima di fissare le prove spiegheremo a tutti i candidati quanti posti sono disponibili in una regione e su quali discipline. Devono essere consapevoli prima di partecipare».
Gli aspiranti docenti vinceranno il concorso al Nord e al gennaio successivo chiederanno il trasferimento al Sud.
«Metteremo vincoli per i neo assunti».
Almeno tre anni sulla stessa cattedra?
«Si può ragionare su questo periodo».
Così la promessa della Lega non si realizza: chi andrà ad insegnare al Settentrione resterà al Settentrione.
«Ho conosciuto molti docenti meridionali che vogliono restare al Nord, d’altronde se le cattedre al Sud sono occupate come possono rientrare?».
Ci dice come sarà il decreto sulle diplomate magistrali?
«Le dico che è già stato inviato a Palazzo Chigi per la condivisione.
Ho appena rassicurato le diplomate: rispetteremo la sentenza del Consiglio di Stato che le toglie dalle Graduatorie a esaurimento, ma andremo incontro alle aspettative di tutte le maestre interessate. Diplomate, laureate. Posso dire che non ci sarà una terza graduatoria. Bisogna garantire un corretto avvio dell’anno scolastico e le maestre diplomate sono parte di questo corretto avvio».
Matteo Renzi aveva messo al centro la fine del precariato scolastico, ma le Gae, le graduatorie ad esaurimento, sono piene di supplenti. Lei in quanti anni conta di esaurirle?
«I precari non scompariranno mai del tutto, ci sarà sempre bisogno di un serbatoio di supplenti. Un sistema che funziona, però, non può basarsi su un precariato storico di lunga durata. Una cattedra è parte integrante dello status di un docente autorevole».
Che ne farete dei due concorsi per precari previsti nel 2018?
«Sono in stand-by».
Sposterà la prova selettiva del concorso per dirigenti scolastici, oggi fissata il prossimo 23 luglio? Quindicimila candidati stanno facendo gli orali della Maturità come commissari.
«Non la sposteremo, i candidati hanno avuto due anni per prepararsi. Studieranno il pomeriggio, terminati gli orali dell’Esame di Stato».
Quali altri elementi della Buona scuola eliminerete o modificherete?
«Useremo la pausa estiva per misurare le performance. Sono pragmatico, quello che funziona si tiene, ciò che va migliorato si cambia. Abbiamo mantenuto, per esempio, gli incentivi per i docenti migliori, ma li distribuiremo anche ai supplenti».
A dicembre scade il contratto dei docenti firmato lo scorso febbraio. Quanto dovrebbe guadagnare in più un insegnante di una scuola media?
«Al pari di medici e magistrati, dalle aule passa il futuro del Paese. Non possiamo nascondere, però, la difficile situazione delle finanze pubbliche».
Sulle scuole paritarie il Governo Renzi ha già previsto sgravi fiscali sensibili.
«La libertà di educazione è un valore, le scuole paritarie svolgono un ruolo complementare importantissimo. Limitare finanziamenti creerebbe nuovi costi».
Lavorerà sull’equipollenza del titolo delle università vaticane?
«Mi sono attivato dai primi giorni, bisogna accelerare per arrivare a un accordo tra Italia e Vaticano nel 2019. Riguarda migliaia di ragazzi».
Ministro, che voti aveva alle scuole superiori?
«Ho fatto il mio dovere senza essere il primo della classe. Non sono mai stato bocciato o rimandato, ma ho potuto studiare con maggiore profitto all’università».
Sembra diffidente, come molti genitori, a proposito dello smartphone a scuola.
«Non chiuderò dopo le aperture della ministra Fedeli. L’uso di smartphone e tablet può essere molto utile a fini didattici».
Che ministra è stata, vista da provveditore, Stefania Giannini?
«Ha portato avanti una riforma in condizioni molto difficili con un fuoco amico che ha danneggiato lei e la stessa Buona scuola».
Il suo sarà il ministero del cambiamento o della restaurazione?
«La scuola ha bisogno di innovare, sfruttare le tecnologie, migliorare la didattica, ma è giusto cambiare senza strappi. Senza introdurre l’ennesima grande riforma».

Repubblica 28.6.18
La polemica
Presidi divisi sull’addio alla chiamata diretta
Il rimpianto: “Prima potevamo scegliere, ora conterà solo la fortuna” Ma c’è anche chi esulta: “Non funzionava”
di Ilaria Venturi


La sua Scuola ne ha selezionati nove in due anni, tra i criteri c’era anche quello che arrivassero da fuori per dare ai ragazzi maggiori possibilità: « Un’insegnante di storia dell’arte aveva fatto esperienze in Germania dopo gli studi a Firenze: bravissima, ha innovato la didattica. Lo hanno fatto anche gli altri, tutti giovani e motivati». E ora? Anna Maria Maullu, preside del liceo scientifico e artistico Brotzu in provincia di Cagliari, sospira: « Ora conterà la fortuna: chi ti arriva arriva, si torna indietro. Invece sarebbe ora che i ragazzi avessero gli insegnanti che meritano. Non tutti, per quanto bravi, sono adatti a tutte le scuole » . Non l’hanno presa bene i presidi. La cancellazione della chiamata diretta, uno dei pilastri della Buona scuola, li fa arrabbiare perché « l’idea era buona » . Solo che — riconoscono in coro — «è stata applicata male». E così c’è anche chi non disdegna questo passo indietro imposto da un accordo sindacale siglato col neo ministro Bussetti che sarà operativo da subito (poi seguirà intervento legislativo) come i presidi di prestigiosi licei romani, vedi il Mamiani e il Tasso: «Il meccanismo non funzionava».
Il più arrabbiato è Lamberto Montanari, preside del polo liceale di Imola, alle porte di Bologna. «Ci hanno dato degli sceriffi, dei presidi- padroni. Una guerra tutta e solo ideologica. La chiamata diretta consentiva un accordo positivo: vieni nella mia scuola perché ci sono le condizioni adatte per fare un buon lavoro. L’insegnante poteva anche non accettare. Alla fine hanno perso gli studenti ed è passata l’idea della scuola ammortizzatore sociale — il suo sfogo — Non è stata ascoltata la voce di chi ha avuto un figlio che non ha trovato un docente bravo e che per questo ha odiato la disciplina, ha perso motivazione ». L’associazione presidi, di cui è portavoce per l’Emilia Romagna, è stata netta: « Un errore cancellare la chiamata diretta».
Approvata nel 2015 è stata applicata nell’estate successiva: i presidi hanno lavorato sui criteri per scegliere i neoassunti da curriculum, poi è intervenuta la mobilità che ha riportato gli stessi a trasferirsi vicino a casa. « Avevo un solo candidato in elenco per la disciplina che mi interessava, mentre il professore di Lettere che veniva dall’Australia, perfetto per il nostro istituto a vocazione internazionale, si è trasferito col vecchio sistema » , osserva amareggiato Flavio Filini, preside del tecnico Einaudi a Verona. «Un vero peccato, il principio della chiamata era giusto » . Tiziana Sallusti, che guida il classico Mamiani, è sincera: « Se fosse stata una misura ben architettata e durevole nel tempo allora poteva avere un senso. Ma non è andata così: da noi dei cinque selezionati, vere eccellenze, è rimasta una sola docente e per un anno. Abbiamo fatto un gran lavoro per nulla, dunque sono contenta che sia stata cancellata». Paolo Pedullà, preside del classico Tasso, è sulla stessa linea: « La modalità con cui è stata realizzata l’ha resa inutile. Poteva essere una buona idea, ma la scuola non è pronta. Le riforme vanno realizzate senza strappi, con una faticosa opera di convincimento».

La Stampa 28.6.18
Legge sulla Shoah
Il Parlamento polacco fa marcia indietro
di Monica Perosino


La controversa legge polacca sull’Olocausto ha avuto vita breve. Dopo solo cinque mesi di vita e durissime reazione della comunità internazionale, il primo ministro della Polonia, Mateusz Morawiecki, ha presentato in Parlamento un emendamento che ne modifica un punto fondamentale. Il testo originario prevedeva l’imposizione di pene detentive per chiunque parlasse di una co-responsabilità della Polonia con i crimini di guerra del nazismo tedesco. L’emendamento prevede di rimuovere le conseguenze in sede penale per chiunque venga riconosciuto colpevole di ascrivere allo Stato polacco crimini nazisti, e prevede di lasciare solo conseguenze in sede civile.
Nella prima formulazione, approvata dal senato polacco lo scorso febbraio, la legge sui campi di sterminio prevedeva pene fino a tre anni di carcere per chiunque si riferisca ai lager nazisti come campi «polacchi». Ma il punto che più aveva fatto scatenare le reazioni era un altro: diventava illegale accusare la nazione polacca di collaborazionismo con il regime hitleriano e quindi di negare quanto in realtà successo.
Il buon nome del Paese
«Stiamo lasciando la penalizzazione criminale che potrebbe distrarre l’attenzione dall’obiettivo», ha detto ieri Morawiecki, perché «va ricordato che questo obiettivo era ed è di difendere il buon nome della Polonia e della verità storica». Il Paese è stato occupato dalla Germania nazista durante la Seconda guerra mondiale e ha perso sei milioni dei suoi cittadini, fra cui tre milioni di ebrei.
«Mi felicito che il governo polacco, il parlamento, il senato e il presidente abbiano deciso di annullare quei paragrafi che avevano scatenato una tempesta e malumore in Israele e nella comunità internazionale», ha commentato il premier Benyamin Netanyhu. «A tutti è chiaro che la Shoah è stato un crimine senza precedenti, perpetrato dalla Germania nazista contro la nazione ebraica e gli ebrei polacchi. Abbiamo raggiunto con la Polonia una formula concordata». Dopo mesi di trattative, scandite da tensioni e polemiche tra i due governi, sembra che la pace diplomatica tra Israele e Polonia sia stata ristabilita: «Nessuna legge può cambiare e cambierà quanto purtroppo è successo», ha aggiunto Netanyahu, che ha voluto sottolineare di aver sempre convenuto che l’espressione «campi di concentramento polacchi» era «chiaramente sbagliata e riduce la responsabilità della Germania per averli istituiti».

Repubblica 28.6.18
No alla detenzione
Legge sulla Shoah perché la Polonia ha fatto retromarcia
di Andrea Tarquini


BERLINO, GERMANIA Criticata dalle comunità ebraiche mondiali e dalla Ue alla fine la Polonia della maggioranza nazionalconservatrice ha deciso per la prima volta un passo indietro. Su richiesta del premier Mateusz Morawiecki, il Sejm, camera bassa del Parlamento, ha apportato una significativa modifica alla recente, contestata legge sull’Olocausto. Quella che punisce e condanna chiunque parli di complicità di cittadini polacchi con l’esecuzione della Shoah da parte degli occupanti nazisti. I legislatori hanno eliminato dalla legge il capitolo che prevedeva persino pene detentive per chiunque parlasse o scrivesse di partecipazione di polacchi all’Olocausto. «La modifica era necessaria», ha detto il premier,«per noi resta imperativo difendere la nostra Storia, ma non possiamo imporlo al mondo con pene detentive».

La Stampa 28.6.18
Pedro Sánchez rimuove i resti di Franco dal mausoleo
di Francesco Olivo


Nel dubbio di durar poco, la legislatura scade fra meno di due anni, il nuovo governo socialista continua con un ritmo di un annuncio al giorno. Attivissimo in politica estera, Pedro Sánchez vuole lasciare il segno anche in casa a costo di riaprire vecchie ferite. I resti del dittatore Francisco Franco verranno riesumati, e in gran fretta, dalla basilica della Valle de los Caídos (la valle dei caduti), il faraonico santuario a memoria dei morti della Guerra Civile spagnola, non lontano da Madrid, fatto costruire dallo stesso Generalissimo, con il lavoro dei prigionieri repubblicani.
Il proposito non è nuovo, sin dal ritorno della democrazia la presenza di questo mausoleo con una croce di 150 metri è diventata ingombrante e non solo da un punto di vista paesaggistico. L’attuale parlamento aveva votato un anno fa una mozione che chiedeva al governo Rajoy di procedere con la rimozione dei resti di Franco, ma l’esecutivo di centrodestra si era tolto dall’imbarazzante (per loro) operazione adducendo ragioni di budget, «è troppo caro». Ora però, con la sinistra improvvisamente al governo la vicenda è tornata prioritaria, tanto da accelerare la data, «entro luglio», anticipa il quotidiano El Mundo. . «Credo che una democrazia matura come la nostra, europea, non possa mantenere dei simboli che dividono gli spagnoli», ha dichiarato Sánchez negli scorsi giorni.
I fantasmi della Guerra civile continuano ad agitare e dividere la Spagna, anche perché se mentre i resti del dittatore vengono celebrati nella basilica scavata nella roccia, migliaia di morti repubblicani restano nelle fosse comuni ancora senza nome, nonostante le maxi operazioni di scavi partite nell’epoca di Zapatero. Sistemato il tema di Franco, il tema è cosa fare della Valle de Los Caidos, convertirlo in un museo o lasciarlo così com’è (pur senza il grande protagonista di quell’epoca). Sánchez ha spiegato di voler «trasformare la Valle in un luogo di riconciliazione»-
Billy il torturatore decorato
Ma i protagonisti dell’epoca della dittatura non sono tutti morti, resta in vita, ad esempio, Antonio Gobzalez Pacheco, commissario di polizia che durante il regime con il nome di Billy El Niño, torturava i detenuti politici con particolare crudeltà. Billy non solo non ha pagato per le malefatte, ma ha ricevuto 4 medaglie al valore (mai revocate) e attualmente percepisce una pensione maggiorata. Podemos chiede di sanare questa ingiustizia e il governo di Sánchez potrebbe dargli presto ascolto.

il manifesto 28.6.18
Primarie Usa, una portoricana ex barista batte il super candidato democratico
Stati uniti. Primarie in sette Stati, sorpresa a New York: a Queens e nel Bronx, con il 57% dei voti, la giovane socialista portoricana Alexandria Ocasio-Cortez batte il veterano Joseph Crowley, uno dei politici più potenti di Washington
di Marina Catucci


NEW YORK Si è appena svolta un’altra tornata di votazioni: in sette Stati Usa si sono svolte le primarie di entrambi i partiti per cariche diverse. Confermata la tendenza ad allontanarsi dal centro tradizionalmente occupato tanto dai repubblicani che dai democratici.
A destra a vincere sono i candidati di Trump che prevalgono su quelli espressi dal partito; unica eccezione il moderato Mitt Romney che in Utah ha vinto la nomination Gop per la corsa al senato, rientrando così nell’agorà politica che gli consente di proporsi come la faccia repubblicana ragionevole da contrapporre a Trump.
A sinistra la vera sorpresa è arrivata da New York City, dove con il 57% dei voti, contro il 42%, a diventare il candidato democratico alle elezioni di mid-term di novembre per il distretto di Queens e Bronx, è la ventottenne socialista di origini portoricane Alexandria Ocasio-Cortez.
La vittoria ha sorpreso tutti, candidata inclusa: contro di lei c’era una vecchia conoscenza democratica, il 56enne Joseph Crowley, uno dei candidati più potenti di Washington, deputato dal 1999 e successore designato di Nancy Pelosi come futuro leader della minoranza liberal al Congresso, sostenuto da tutto il partito e da Wall Street.
Nel giro di una notte Ocasio-Cortez, che solo lo scorso anno lavorava come barista, grazie a un programma che parla di sanità, istruzione pubblica, riforma delle prigioni, diritto alla casa, è diventata una super star. Avere un’intervista con lei è impossibile: i maggiori network tv americani si sono affollati davanti al minuscolo ufficio del Queens che è stato la sua centrale operativa in campagna elettorale.
«Ho fatto campagna per lei perché voglio andare a votare – dice Elizabeth, madre single 42enne – ma non riesco a votare per i candidati del partito. Sostenevo Sanders e poi ho votato per Hillary e sappiamo cosa è successo. Crowley aveva gli endorsement del governatore Cuomo, dei sindacati tradizionali e del leader dei democratici al senato Schumer: ecco, questo per me già era un dato negativo».
Anche Alexandria, come la chiamano a Queens, nel 2016 aveva sostenuto Sanders, aveva fatto campagna elettorale per lui e come il suo mentore nella corsa a rappresentante dei due quartieri newyorchesi ha rifiutato le donazioni delle lobby e contato su piccoli finanziatori: ha raccolto 300mila dollari, che sono bastati a farla vincere.
Questa vittoria è uno scossone per il partito che cerca di ostacolare come può i candidati che non sono espressione dell’ingranaggio politico, come se non avessero ancora capito la sconfitta elettorale contro Trump.
Chi ha capito e lo ha dimostrato con grande classe è stato proprio lo sconfitto Crowley: appresa la notizia, nel suo quartier generale già addobbato per festeggiare, si è tolto la giacca, ha imbracciato la chitarra e ha dedicato una canzone alla sua rivale vittoriosa, Born to Run, nata per correre.

Corriere 28.6.18
Alexandria, la «millennial» radicale batte i boss democratici a New York
di Giuseppe Sarcina


WASHINGTON Lo sconfitto, il deputato uscente Joe Crowley, 56 anni, boss del partito democratico, l’ha presa bene. La sera delle primarie di New York, martedì 26 giugno, ha suonato la chitarra con altri maturi signori. Prima canzone dedicata alla giovane rivale che probabilmente ha posto fine alla sua carriera: Alexandria Ocasio-Cortez. Partono le note di Born tu Run, nato per correre, musica e testo composti da Bruce Springsteen nel 1975. Quattordici anni prima che nascesse Alexandria, il 13 ottobre 1989. In quello stesso momento la trionfatrice della serata commentava in diretta televisiva i risultati: 57,5% per lei contro il 42,5% del deputato in carica da vent’anni. «Oh my Godness».
Alexandria ha vinto nel 14° distretto di New York, che comprende il suo territorio, l’East Bronx, e una parte del Queens. Qui è cresciuta con la sua famiglia: mamma portoricana, papà del Bronx. Si è diplomata nella Yorktown High School, una cittadina alla periferia dello Stato di New York. A Manhattan ci andava per fare la cameriera in un ristorante messicano di Union Square. La sua vita, però, cambia a Boston, dove frequenta l’università, si laurea in economia e relazioni internazionali, si avvicina alla grande politica: entra come stagista nella squadra del senatore Ted Kennedy.
Torna a New York nel 2011 e trova un impiego come educatrice. Arriva il 2016, l’anno più tumultuoso nella storia recente americana. Come tanti altri giovani, Alexandria è attratta dall’outsider Bernie Sanders. Si butta nella campagna di «Bernie», entra nella corrente d’entusiasmo dei comizi affollati, degli slogan contro «lo strapotere di Wall Street», contro «i millionaires and billionaires» che monopolizzano i benefici della crescita economica. Trova conferma alle sue convinzioni: l’America è lacerata dalle diseguaglianze; è necessaria una dura battaglia per le pari opportunità, cominciando da università e cure mediche che devono essere accessibili e gratuite per tutti. La «rivoluzione radicale» predicata da «Bernie» ha fatto breccia in una parte cospicua del Paese: Alexandria ne è la prova. Nel suo video di presentazione, postato sui Twitter e «visualizzato» 2,1 milioni di volte, tornano tutte le proposte di Sanders, rilanciate con grinta e con lo stile, i tic linguistici della generazione dei «Millennials».
Nelle elezioni di midterm, il prossimo 6 novembre, Alexandria quasi certamente batterà il repubblicano Anthony Pappas, in una circoscrizione che è da decenni un fortino progressista. Dovrebbe diventare, quindi, la parlamentare più giovane al Congresso.
La competizione decisiva è stata proprio quella contro Joe Crowley. Ocasio-Cortez l’aveva presentata in questi termini: «Ormai abbiamo capito che i democratici non sono tutti uguali. Gli amici di Wall Street, quelli che accettano i fondi delle grandi corporation, quelli che non mandano i figli nelle nostre scuole, quelli che non respirano la nostra aria, non bevono la nostra acqua, non possono più rappresentarci. Loro hanno i soldi, noi abbiamo la gente». Alexandria ha raccolto e speso circa 300 mila dollari nella campagna elettorale, contro il milione e mezzo di Crowley. La sua «gente», il suo blocco sociale tiene insieme le associazioni più militanti, dai pacifisti di MoveOn agli afroamericani di Black Live Matter fino alle formazioni socialiste.
È una formula che ha funzionato nel Bronx e nel Queens. Vale per tutto il resto dell’America? Finora i segnali sono contrastanti. Nel turno precedente delle primarie democratiche, il 5 giugno scorso, i moderati erano andati meglio dei radicali, dalla California al New Jersey.

La Stampa 28.6.18
Giovane, ispanica e paladina dei poveri
I democratici ripartono da Alexandria
di Paolo Mastrolilli


Non ci credeva neppure lei, quando ha visto le prime proiezioni che la davano vincente. E in fondo si capisce, perché la vittoria della ventottenne Alexandria Ocasio-Cortez nelle primarie democratiche di martedì a New York vale molto più del suo seggio.
Potrebbe rappresentare l’inizio di una rivoluzione nel suo partito, per spostarlo sulle posizioni di sinistra abbandonate da Obama prima, e da Hillary Clinton poi. Una svolta auspicata dalla corrente che nel 2016 si era riconosciuta nella candidatura presidenziale di Bernie Sanders, ma applaudita dietro le quinte anche dai repubblicani, convinti che abbandonando la linea moderata l’opposizione perderà la Casa Bianca anche nel 2020.
Alexandria è nata nel Bronx 28 anni fa, da una madre portoricana che faceva le pulizie nelle case, e da un padre morto di cancro prima ancora che lei lanciasse la sua carriera politica. Siccome le scuole del suo quartiere erano orribili, i genitori erano riusciti a mandarla a studiare a Yorktown, nella Westchester County dove si rifugiano i ricchi di New York. Lei aveva sfruttato l’occasione, ottenendo poi l’ammissione alla Boston University, dove aveva studiato economia e relazioni internazionali. Per aiutare la madre a mantenerla durante l’università, aveva lavorato come cameriera in un bar. Nel frattempo si era appassionata alla politica, facendo la volontaria per il senatore Ted Kennedy, soprattutto sui temi dell’immigrazione.
Nuovi leader progressisti
Una volta tornata nel Bronx con la laurea, la passione per l’attivismo le era restata appiccicata addosso. Così si era mobilitata per aiutare la campagna presidenziale di Bernie Sanders, come molti altri giovani americani, convinta che solo lui potesse rigenerare il Partito democratico, riportandolo alle origini dell’attenzione per le classi e gli individui più deboli. Invece di deluderla, la sconfitta di Bernie contro Hillary l’aveva motivata ancora di più, e sempre nel 2016 era diventata uno dei leader della protesta nella riserva indiana dei Sioux a Standing Rock, per bloccare il progetto del gasdotto Dakota Access Pipeline. Laggiù l’aveva notata l’organizzazione Brand New Congress, che cercava nuovi leader progressisti, e le aveva proposto la candidatura al Parlamento.
Le sue promesse
Lei era caduta dalle nuvole, anche perché le avevano suggerito di sfidare Joseph Crowley nel 14th District di New York. Crowley è un politico potentissimo del Queens, che occupa il quarto posto nella graduatoria della leadership democratica alla Camera. Da mesi era impegnato in una sfida sotterranea contro Nancy Pelosi, per prendere il suo posto come Speaker, se l’opposizione riconquisterà la maggioranza dei deputati nelle elezioni midterm di novembre. Batterlo sembrava impossibile, e infatti Crowley si era persino rifiutato di partecipare a un dibattito con Ocasio, mandando al suo posto un’assistente latina. Alexandria però non si è scoraggiata, puntando sulla sua biografia di ispanica della classe più dimenticata di tutte: «Una donna come me - aveva detto nel suo video promozionale - non dovrebbe candidarsi a cariche pubbliche». Quindi ha condotto la campagna quasi interamente sui social media, scegliendo temi molto popolari nell’elettorato progressista, come la sanità gratuita del Medicare per tutti, la cancellazione delle tasse per accedere alle università pubbliche, e l’abolizione dell’Immigration and Customs Enforcement, ossia l’agenzia che arresta gli immigrati al confine col Messico. Infatti negli ultimi giorni di campagna elettorale, invece di restare nel suo distretto a New York, è andata in Texas per protestare contro la separazione degli illegali bambini dai loro genitori. Risultato: martedì sera ha massacrato Crowley, rimettendo in discussione l’intera leadership e la strategia del Partito democratico. Se vincerà a novembre contro il repubblicano Pappas, diventerà il deputato più giovane mai eletto negli Usa. E il volto della rivoluzione di sinistra, con cui lei spera di far rinascere l’opposizione.

Repubblica 28.6.18
Le primarie di Ocasio-Cortez
Ciclone Alexandria dal Bronx al trionfo è la speranza dem
28 anni, latina. Nel voto di New York ha sbaragliato uno dei leader del partito
di Arturo Zampaglione


NEW YORK Chiede un sistema di assistenza sanitaria gratuita per tutti gli americani. Vuole abolire le tasse universitarie nei college statali.
Protesta per la linea dura di Donald Trump contro l’immigrazione e si è recata di persona nelle zone alla frontiera messicana dove i bambini dei migranti sono separati dai genitori. E a soli 28 anni Alexandria Ocasio-Cortez, “socialista democratica” e seguace ispanica di Bernie Sanders, è diventata all’improvviso la faccia e il simbolo della rivolta dei giovani liberal contro l’establishment del partito democratico.
“Questa vittoria è solo l’inizio di una svolta”, ha promesso la Ocasio-Cortez, rivolgendosi martedì notte ai suoi sostenitori dopo una sorpresa elettorale che i politologi americani hanno definito un “piccolo terremoto”.
Alexandria (come tutti la chiamano) è infatti riuscita a sconfiggere e umiliare nelle primarie democratiche Joseph Crowley, 56 anni (cioè il doppio di lei), soprannominato il “re del Queens”: un potente parlamentare che per vent’anni ha controllato le sorti dei democratici in quella parte di New York e che ambiva a diventare leader del partito nella Camera dei rappresentanti al posto di Nancy Pelosi.
Sostenuto dai sindacati e dalla organizzazione del partito, Crowley era di gran lunga il favorito nelle primarie della 14ma circoscrizione di New York, a cavallo tra il Queens e il Bronx.
Aveva speso per le elezioni cinque volte di più della sua rivale, alla quale avevano detto di “essere matta” nel voler sfidare il “boss”. Ma Alexandria non si è mai persa d’animo.
Concentrandosi sui social media e sui contatti personali con gli elettori, ha schiacciato il suo avversario con il 57,5 dei voti rispetto al 42,5. Nelle elezioni di midterm di novembre dovrà vedersela con il repubblicano Anthony Pappas, ma non sarà molto difficile: quella circoscrizione è saldamente in mano ai democratici (Hillary Clinton vinse con più del 70 per cento) e tutto lascia pensare che a gennaio Ocasio-Cortez diventerà la più giovane parlamentare del nuovo Congresso.
I democratici, ovviamente, sperano che il voto di midterm, con il rinnovo di tutta la Camera e di un terzo del Senato, si trasformi in una riscossa sul trumpismo, restituendo loro la maggioranza parlamentare. Un risultato meno scontato di quanto si possa pensare, specie al Senato: anche perché i repubblicani si stanno ricompattando attorno al presidente che, proprio l’altroieri, ha visto la vittoria di alcuni suoi candidati nelle primarie (solo nello Utah ha vinto un “anti-Trump”, cioè Mitt Romney).
L’altra difficoltà è che il partito democratico sembra ancora allo sbando dopo la sconfitta della Clinton. I suoi leader sono vecchi e con poco appeal tra i giovani. E’ spaccato tra un establishment molto legato ai vecchi schemi e la base di giovani liberal che chiedono uno spostamento su posizioni più progressiste.
Persino il peso morale di Bernie Sanders è apparso in declino. Ma il successo di Alexandria può cambiare le dinamiche interne nel partito. Sicuramente dà nuovo vigore ai Millennials, ai seguaci di Sanders, ai sostenitori di politiche più coraggiose a favore delle minoranze e a un nuovo modo di intendere la militanza politica.
La Ocasio-Cortes incarna tutto questo: figlia di una portoricana che lavorava come colf e di un piccolo commerciante del Bronx, si è laureata a Boston in economia e ha lavorato come barista, senza mai rinunciare all’attivismo politico. Ha preso parte alle grandi mobilitazione della sinistra americana: dalle proteste nella riserva Sioux contro il passaggio dell’oleodotto nel Dakota, alla rivolta a Flint, nel Michigan, contro l’acqua avvelenata. E durante la campagna per le primarie, Alexandria ha sempre sostenuto che i democratici non devono scimmiottare Trump, né rassegnarsi a battaglie di retroguardia: ma puntare con coraggio alle istanze sociali di giovani, di donne e di minoranze.

Repubblica 28.6.18
Messico
Chi è il favorito nelle elezioni presidenziali di domenica
Obrador, il Messia tropicale che conquisterà il Messico
Idolo dei poveri, promette lotta a privilegi e corrotti. Gli avversari: “ È come Chávez”
di Omero Ciai


Città del Messico È davvero imparabile la corsa verso la presidenza del Messico dell’uomo che, sostenitori e avversari, definiscono come il nuovo “Messia tropicale”, eroe anti-corruzione e anti- narcos, che ieri notte ha chiuso la sua trionfale campagna elettorale davanti a 120mila fan nello stadio Azteca di Città del Messico, quello famosissimo per la “Mano de Dios”, il gol di Maradona all’Inghilterra. Nei sondaggi Andrés Manuel López Obrador, per tutti familiarmente Amlo, non ha avversari in questo Paese alla disperata ricerca di una svolta dopo quasi vent’anni di governi liberisti di centrodestra, dal Pan al Pri, che hanno lasciato soltanto macerie. Più di 200mila morti e un numero imprecisato di desaparecidos nella guerra dei narcos, a cui bisogna aggiungere — ricorda lo storico Jorge Volpi — « la corruzione senza freni a ogni livello della vita pubblica ». Amlo, o meglio adesso “Amlove”, l’hashtag che i suoi elettori ( si vota domenica) hanno scelto per spingerlo sui social, è un uomo del sud povero e agricolo. Viene dallo Stato di Tabasco, quello dei peperoncini piccantissimi, tra il Chiapas e lo Yucatan, dove i suoi genitori gestivano un piccolo negozio.
Politicamente è cresciuto nel Pri, il partito- stato messicano, per uscirne, e partecipare alla fondazione della nuova sinistra, il Prd, ai tempi di Salinas de Gortari e del primo patto scellerato del governo con i narcos. Era il 1988. Una decina di anni dopo, López Obrador divenne sindaco di Città del Messico e fu la sua stagione migliore, con indici di consenso elevatissimi, una rigorosa e austera gestione dei fondi pubblici, e molti programmi sociali. Nel 2006 si candidò per la prima volta alle presidenziali ma perse per una manciata di voti contro Felipe Calderón. All’epoca tutti erano convinti che la sua sconfitta fosse stata provocata da una pesante frode elettorale. Così migliaia di poveri e contadini occuparono lo Zócalo, l’immensa piazza centrale di Città del Messico, e lo nominarono “presidente legittimo”, con tanto di fascia e cerimonia presidenziale. La protesta andò avanti per settimane e terminò solo per sfinimento davanti al rifiuto del governo di ricontare le schede. Obrador perse anche nel 2012 e fu dopo quella sconfitta che fondò il nuovo movimento di “ rigenerazione nazionale”, Morena, grazie al quale oggi è lanciato verso la vittoria.
Lontano dal Messico si crede che la spinta più forte alla sua ascesa, a 64 anni e dopo due sconfitte, sia stata l’elezione di Trump e la sua guerra contro i messicani. È vero che Obrador ha sfruttato la circostanza, iniziando la sua campagna due mesi fa sulla frontiera, a Ciudad Juarez; coniando lo slogan “ Prima i messicani”; e promettendo di difendere i migranti centroamericani e i milioni di suoi concittadini che vivono negli Stati Uniti. Ma le ragioni profonde della sua popolarità sono endogene, tutte interne a un Paese sull’orlo dell’inferno, cui egli offre la rinascita, un ritorno alle origini, e una nuova rivoluzione come quella dei padri, da Pancho Villa a Emiliano Zapata. Le tre promesse di López Obrador appena eletto sono: vendere l’aereo presidenziale, tagliarsi lo stipendio, e trasformare il luogo dove dovrebbe vivere, la bellissima residenza di Los Pinos, in un centro culturale aperto a tutti. E poi un governo morigerato e nazionalista per combattere la corruzione di quella che definisce “la mafia al potere”. Vuole cancellare l’immunità oggi concessa ai funzionari governativi e governare direttamente via referendum. Dal sud povero, la sua base di consenso è andata crescendo tra le classi medie urbane e i giovani laureati, anche se adesso i suoi critici, tra i democratici, temono che accentri troppo potere se il suo partito dovesse stravincere conquistando la maggioranza anche al Congresso.
Finora i suoi avversari, per scongiurare questa vittoria annunciata, le hanno provate tutte. « Falso profeta » , « un altro Chávez » , e via denigrando con la minaccia che, se vincerà, la Borsa e il Peso crolleranno. Ma stremati da criminalità e corruzione sembra davvero che la maggioranza dei messicani sia pronta a scegliere come unica alternativa il nuovo “Messia”.

Corriere 28.6.18
Comunista, nonostante tutto. La parola che dannò Berlinguer
Novecento In un volume a più voci edito da Pendragon, Domenico Del Prete ricostruisce le contraddizioni del leader del Pci che si distaccò, ma non abbastanza, dall’Urss
di Marco Ascione


C’è Biagio de Giovanni, che sentenzia: «Neanche Berlinguer si è mai posto il problema di salvare il Pci dal suo destino, quello di non potersi liberare del 1917». E poi Claudio Petruccioli, il quale ricorda che Alessandro Natta, il successore di Berlinguer, davanti al crollo del Muro di Berlino restò muto per alcuni minuti e poi alzò gli occhi al cielo e disse: «Ha vinto Hitler». O Massimo D’Alema, che di fronte all’obiezione sul perché il Partito comunista del compromesso storico non ruppe con Mosca per diventare una forza occidentale, così replica: «Il Pci era una forza comunista che faceva parte del movimento comunista internazionale. Il comunismo era una visione del mondo che nasceva con la Rivoluzione d’ottobre. Certo, uno poteva sentirsi comunista e non riconoscersi in questo movimento. Ma sarebbe stato un gioco puramente intellettuale».
Prove d’accusa, testi a discolpa. Sul banco degli imputati è Enrico Berlinguer, icona alta e intangibile della sinistra italiana. E, infatti, sebbene si tratti di un tema ormai antico, ci vuole un certo coraggio a scrivere un libro intitolato L’inganno di Berlinguer (edizioni Pendragon). L’autore è Domenico Del Prete, giornalista e scrittore, certo per storia personale non sospettabile di pregiudizio, già autore di libri che hanno cercato di gettare un po’ di luce sulla storia della sinistra italiana, lì dove c’erano ombre.
Il libro su Berlinguer è una polifonia. Osservatori e protagonisti di quella storia raccontano. Ricostruiscono. Ciascuno con i propri accenti. Ma l’intento dell’autore è chiaro. E suona appunto come un capo di imputazione: la mancata svolta verso una sinistra di governo. Ossia verso la costruzione di un partito socialdemocratico che avrebbe consentito un’alternativa di governo con la Democrazia cristiana.
Berlinguer, quindi, che certo aveva infine scelto l’ombrello della Nato e che indubbiamente ai sovietici proprio non piaceva, ma che ancora nel 1976 «definiva l’Urss un Paese socialista con alcuni tratti illiberali». Si domanda con rispetto Paolo Mieli: «Insomma, noi oggi cosa diremmo di qualcuno che, senza voler fare paragoni, sostenesse che il fascismo era un regime politico tutto sommato buono, ma con alcuni tratti illiberali?».
La sintesi di Del Prete è questa: «La sua non fu mancanza di coraggio ma di visione. Non avrebbe mai ingannato consapevolmente il suo popolo. Ma era convinto che non si dovesse diventare socialdemocratici e bisognasse restare ancorati al campo del comunismo. La sua ostinazione a non passare il Rubicone facendo diventare il Pci un partito di governo in Occidente fece pagare un prezzo molto salato al partito e più in generale al popolo italiano rinviando all’89, quando ormai era inevitabile, quello che poteva essere fatto dieci anni prima per libera scelta e con altra efficacia».
Viene da chiedersi, venendo all’oggi, se una certa sinistra, al di là dei suoi meriti e demeriti, non riesca a perdonare a Renzi proprio questo: di aver reciso per sempre il cordone ombelicale che ancora in qualche modo collegava il Pd a quella parola. Comunista.

il manifesto 28.6.18
Chichita Calvino, gli affetti di una ragazza d’altri tempi
Scomparsa qualche giorno fa a Roma, all'età di 93 anni, la vedova dello scrittore di cui fu traduttrice finissima
di Ginevra Bompiani

Chichita Calvino è morta il 23 giugno scorso. Ci conoscevamo da moltissimi anni. Lei diceva che ci eravamo conosciute a Parigi, nei primi anni ’60, e che io portavo un vestito di mia madre. Non lo ricordo e mi sembra strano: mia madre era più piccola di me. Ma lei ricorda tutto alla perfezione, voglio dire che il suo ricordo era perfetto anche quando non era giusto. Me lo ha detto recentemente, quando sono riuscita finalmente a rivederla. Per anni, dopo la morte di Calvino, ci eravamo perse di vista, e da anni chiedevo agli amici di portarmi da lei. Finalmente Goffredo Fofi lo ha fatto e così l’ho ritrovata. Era nella sua casa di Campo Marzio, dove sono stata tante volte negli anni ’80, confinata a una piccola camera da letto, che non era la sua, dove la sua vita si svolgeva interamente.
VIVEVA seduta sul letto, non semidistesa, ma come se stesse per alzarsi, con le gambe verso il pavimento dove non arrivavano, quasi senza appoggio perché la schiena dolorante non glielo permetteva. Sul letto teneva il computer, tutt’intorno aveva un tavolino con sigarette e portacenere, ripiano con televisore, il mobile delle medicine, i ritratti.
Eravamo tutt’e due, credo, imbarazzate e un po’ commosse. Ma lei cominciò subito a parlare, e quando Goffredo si alzò e andò via, continuò con me, come se ci vedessimo tutti i giorni da sempre. Raccontava episodi della sua vita, della mia, la morte di Cortazar, il Che che apre la porta e la fa entrare, Italo che la prima sera a Parigi, dopo una cena con amici, la prende sotto braccio e dice: «Io vado con Chichita», e poi mi fa leggere sul pc altri pezzetti di vita, finché anch’io mi alzo e faccio per andarmene.
Allora astutamente tira fuori i suoi aneddoti più suadenti, quelli che non possono non fermarmi, un piede sulla porta, e io mi risiedo, e poi mi rialzo, e poi oscillo da un piede all’altro, finché con un piccolo strappo che graffia più me di lei, vado via. E così è stato per gli ultimi mesi, con l’aggiunta di messaggi e missive notturne, quando lei è sempre sveglia e io prima o poi.
Mi racconta quel che mangia: tre midolli al giorno (scivolano nella gola) e un panino al salmone frullato. Non può inghiottire altro. Gli amici provano a variare la sua dieta, io le porto un foie gras che rimane a sciogliersi sul comò, provo a suggerire una poltrona a rotelle, suggerisco di andarla a provare. Mi dice: «Sei meglio di una parente, sei un’amica». Ma forse scherza, perché lei scherza sempre. È la persona meno sentimentale che conosca. Ma i suoi affetti, specialmente quello per la nipotina Violette, arrivano all’entusiasmo.
QUALCHE VOLTA, seduta accanto al suo letto, mi domando: «Ma che vita è questa?..»: senza mai uscire dalla stanza, né alzarsi dal letto, senza trangugiare veramente altro che il fumo della sigaretta, sola per lo più, soprattutto la notte, i figli lontani, a volte perfino la magnifica Vicky che la assiste si allontana.. Che vita è, mi chiedevo. Stupidamente.
Ora che non c’è, quel flusso continuo e fascinoso di parole, ironico, pungente, quella voce che cade come un uccello sulla preda e vola con la parola palpitante nel becco, quella ricchezza sciorinata in disordine, non solo mi manca, ma mi pare una forma di vita fastosa e irriproducibile. All’inizio avevo pensato di raccogliere i suoi racconti come in un’intervista, ma presto ho capito che non era possibile, perché non rispondeva alle domande e non seguiva un filo. Si trattava semplicemente di ascoltare.
È femminile questa parola che non si sottrae e non si fa catturare. È la parola orale di cui la donna è maestra. È il meraviglioso «spreco» di cui la vita della donna è fatta.
Se ne può solo essere spettatori e piangerne ogni volta la scomparsa.
(E ora che siamo entrati nell’epoca delle urla e dei latrati, come ci manca la sua voce!)

il manifesto 28.6.18
Gli ultimi vincenti di un duello secolare
«L’età della moneta» di Rita Di Leo per il Mulino
di Andrea Fumagalli


Presentare un affresco di storia europea (e non solo) lungo sei secoli sapendo cogliere i momenti essenziali della dinamica del rapporto, ora controverso, ora sinergico, tra potere e le élites non è un compito facile. E farlo con un linguaggio semplice, immediatamente comprensibile, costellato anche da un certo immaginario umanista, è ancor più difficile.
EPPURE L’ULTIMO LIBRO di Rita Di Leo (L’età della moneta, Il Mulino, euro 19, pp. 190) riesce in questa difficile impresa. In poco meno di centottanta pagine, la nota studiosa del comunismo sovietico, da giovane appartenente al primo operaismo italiano dei Quaderni Rossi di Raniero Panzieri e Mario Tronti, descrive la storia dei mutevoli rapporti di forza tra uomini della moneta, della spada, del lavoro, dei libri, fra élite economiche ed élite politiche. Le pagine descrivono una parabola che attraverso il feudalesimo, il nazionalismo, l’imperialismo, il socialismo, la democrazia e la finanziarizzazione dell’economia, giunge al tempo presente dell’information technology. Grazie agli algoritmi dopo secoli di subalternità dell’economia al potere politico, si è passati al conflitto per la guida della società, che vede prevalere gli «uomini della moneta» con una vittoria di cui la stessa costruzione europea è massima espressione.
L’ATTUALE EGEMONIA degli «uomini della moneta» è l‘esito di una successione di conflitti che ha inizio nel medioevo quando «gli uomini della spada» erano in grado di comandare perché detentori del monopolio della difesa del territorio, fonte di produzione naturale da cui dipendeva la possibilità di sopravvivenza e di riproduzione del genere umano. Sarà solo con l’affrancamento degli «uomini dei libri» e lo sviluppo di un autonomia del ruolo intellettuale come strumento di controllo e di indirizzo del potere sovrano che a partire dal periodo del mercantilismo e soprattutto dopo la rivoluzione industriale e francese, con il sorgere del capitalismo, che gli «uomini del lavoro» e «della moneta» cominciano ad assumere un ruolo rilevante.
Gli «uomini del lavoro» nascono dopo che gli uomini della moneta hanno cominciato a muovere i primi passi, con lo sviluppo del sistema creditizio e bancario del XVII e XVIII secolo (ad esempio, i Fugger), in grado di condizionare il finanziamento dei progetti di espansioni degli «uomini della spada». Come scrive Di Leo, «gli uomini della moneta creano gli uomini del lavoro». Riproponendo un’intuizione trontiana, gli «uomini della moneta» hanno però vitale bisogno degli «uomini del lavoro» mentre non è vero il viceversa. Da qui la necessità di subordinarli.
NASCE COSÌ LA DIALETTICA conflittuale moderna tra capitale (uomini della moneta) e lavoro, con il tentativo di liberare il lavoro dal capitale, esemplificato dall’esperimento sovietico nel XX secolo.
Di Leo, grande esperta di questa materia, mostra come tale tentativo non avrebbe potuto avere successo. Gli uomini del lavoro si traformano in «uomini del piano», cercando di sostituire gli uomini della moneta.
LA CONSEGUENTE «gestione popolare dell’economia – scrive Di Leo – salva il ruolo del partito (bolscvico, n.d.r.), ma via, via, consegna il paese alla logica del capitale». La logica del capitale è quella della competizione: «La concorrenza tra l’economia del socialismo e l’economa del capitalismo è stata la scelta che ha fatto fallire l’esperimento sovietico e franare l’universo del lavoro nel mondo intero». Così: «l’uomo della moneta si è affermato nel ruolo guida all’alba del XX secolo». E tale affermazione dipende anche dal fatto, con un implicito riferimento alla Nuova ragione del mondo di Pierre Dardot e Christian Laval, che «l’uomo della moneta è antropologicamente oltre l’uomo economico nella definizione che si ritrova nella letteratura dei filosofi, degli economisti dei politologi» (il concetto di homo oeconomicus di Stuart Mill).
Se il concetto di Stuart Mill, si riferiva al comportamento utilitaristico come base dell’attività di scambio (tra un dare e un avere), l’antropologia culturale dell’uomo della moneta «sta nel vedere l’uomo così come è, nelle sue capacità di autodirigersi o di concerto di accettare di essere autodiretto».
Ne consegue che, in modo naturale, «esiste la divisione tra capaci e incapaci, tra forti e deboli: sono due universi paralleli che non si incrociano come nel passato era successo all’universo del capitale e all’universo del lavoro».
IN TALE CONTESTO, anche gli «uomini del libro» diventano inutili così come il loro «pensare».
C’è una vena di pessimismo nelle conclusioni di Rita Di Leo quando scrive: «Nell’età della moneta, l’uomo si riconosce primariamente nella condizione originaria di animale asociale». Una concezione ben diversa da quella aristotelica, secondo la quale l’Homo Sapiens è un «animale che ha linguaggio» e un «animale politico».
C’è tuttavia una considerazione finale che preme fare. Rita Di Leo nel suo racconto storico parla sempre di «uomini», al maschile, crediamo non casualmente. Sappiamo che le donne hanno contributo in maniera determinante all’evoluzione progressista della società umana. È arrivato il momento, per fermare la deriva attuale, che ne diventino le principali protagoniste.

Repubblica 28.6.18
Vita amore e poesia
Ogni poeta scrive di se stesso
Eugenio Scalfari

Il fondatore di “Repubblica” ha scelto una serie di versi più o meno celebri. Li ha cuciti insieme in un’antologia personalissima senza svelare i nomi degli autori: un gioco divertito sulla forza della letteratura
Chi scrive libri parla di se stesso se dorme e sogna anch’esso lo riguarda ed è l’anima sua che soffre o gode.
Il corpo segue come un animale sente i bisogni senza sentimenti e li soddisfa, predatore e preda.
I romanzi raccontano la vita soprattutto l’amore e le sue stelle ma non dicono mai la verità.
Mentire su se stessi è legge di natura a me non piace e quel romanzo non lo scriverò.
La vita è quasi sempre tormentata e talvolta è divina poesia.
Il campo dei poeti coglie la gioia ed il tormento, l’inferno e il paradiso e quei poeti citerò senza nome. Sarà un’antologia.
(...)