Corriere 26.6.18
Lo storico francese Yann Le Bohec, in un
saggio pubblicato da Carocci, critica l’immagine ideologizzata del
gladiatore ribelle, enfatizzata anche dal cinema. Non era un eroe della
democrazia ma trasformò degli sbandati in veri guerrieri
spartaco fuori daL mitO
di Paolo Mieli
Non aspirava ad abolire la schiavitù
voleva solo tornare libero in tracia
Tutta
colpa degli storici marxisti e di qualche regista americano se abbiamo
di Spartaco un’immagine «completamente falsata». È questa la tesi di
Yann Le Bohec, autore del saggio Spartaco, signore della guerra che sta
per essere pubblicato da Carocci dopo una «navigazione tra gli scogli
delle fonti e della bibliografia» che l’autore ironicamente si augura
sia avvenuta correttamente, consentendo alla nave di subire soltanto
«qualche danno superficiale». Le Bohec ha passato in rassegna l’intera
letteratura sullo schiavo ribelle e mostra un particolare apprezzamento
per Spartaco. Le armi e l’uomo di Aldo Schiavone (Einaudi), da lui
definito «l’ultimo grande libro» su quella rivolta. Grande attenzione è
stata data anche ad altri testi che considera di un certo valore: Il
guerriero, l’oplita, il legionario di Giovanni Brizzi (il Mulino);
Schiavi in Italia. Gli strumenti pensanti dei Romani fra tarda
Repubblica e medio Impero di Andrea Carandini (Carocci); Esercito e
società nella tarda Repubblica romana di Emilio Gabba (La Nuova Italia);
Spartaco. Analisi di un mito di Antonio Guarino (Liguori).
Per il
resto, denuncia l’autore, troppe indulgenze nei confronti del mito del
«precursore della lotta di classe» e di tutto quel che quasi duemila
anni dopo avrebbe teorizzato Karl Marx. «Concediamo pure agli
sceneggiatori il diritto all’inesattezza», scrive Le Bohec, «dopotutto
il cinema si fonda sulla finzione, non sulla scienza». E qui, ad ogni
evidenza, l’autore non ce l’ha solo con l’«ottimo film, completamente
inattendibile da un punto di vista storico», uscito nel 1960, Spartacus
di Stanley Kubrick tratto dal romanzo di Howard Fast (in cui il ribelle
veniva raccontato come un «protocomunista»), sceneggiato da Dalton
Trumbo: film che il grande pubblico ricorda per la parte principale
affidata a Kirk Douglas. Le Bohec è critico anche nei confronti della
serie televisiva che per tre stagioni (2010-13) ha riproposto la storia
leggendaria della rivolta che spaventò Roma tra il 73 e il 71 a.C.
(trentanove episodi che, a suo avviso, si sono distinti solo per aver
fatto «largamente uso di scene di sesso e di sangue» ed esser stati
caratterizzati «da un linguaggio molto crudo»).
Più sottili sono
stati, a suo avviso, i romanzieri che si sono cimentati con questa
vicenda. Nel 1938, poco prima di Buio a mezzogiorno, Arthur Koestler
scrisse I gladiatori, che rievocava la storia del combattente tracio che
nel 73 a.C. capeggiò la rivolta degli schiavi contro Roma. I centomila
rivoltosi — ne I gladiatori — dopo una guerra assai feroce fondano una
loro Repubblica da cui sono bandite gerarchie e ingiustizia. Ma un
gruppo di ribelli capeggiati da Criso il Gallo vuole continuare a
saccheggiare e stuprare; ne deriverà una guerra civile tra schiavi che
porterà alla rovina il movimento rivoluzionario; Spartaco sarà costretto
a crocifiggere alcuni dei suoi seguaci della prima ora e finirà lui
stesso crocefisso dai romani. Una vicenda che ha sempre ispirato le
fantasie del romanticismo rivoluzionario, ma che Koestler presentò come
una metafora del potere in conflitto con la giustizia, della carica di
violenza che è insita nell’utopia, della rivoluzione che inesorabilmente
è destinata ad autodistruggersi. Ma anche qui scarsa verosimiglianza
storica.
Purtroppo, mette in chiaro Le Bohec, i testi antichi che
fanno esplicito riferimento a questa vicenda sono pochi («per
l’essenziale, cinque autori in tutto»), brevi («una decina di pagine
ciascuno»), non sempre si sovrappongono, e così non è facile metterli a
confronto. Anzi, «quasi a complicare il nostro lavoro», talvolta si
contraddicono. Di conseguenza, «a volte chi li utilizza deve proporre il
verosimile in mancanza del vero» che «è il peggior metodo storico
possibile»; ma «è anche l’unico, a meno di proporre ipotesi multiple e
lasciare che a scegliere sia il lettore».
Il bersaglio esplicito
di Le Bohec sono gli storici che — sostiene — dovrebbero «costruire le
proprie argomentazioni sui testi e non sulle illusioni». Il libro offre
un’ampia panoramica di studi sul capo della rivolta compiuti con grande
scrupolo nei Paesi ex comunisti. Naturalmente, scrive le Bohec, «è
logico che gli autori dell’Europa dell’Est, tutti marxisti prima della
caduta del Muro di Berlino, si siano interessati in modo particolare a
questo ribelle, fino a trasformarlo in un mito». Molti testi «scritti in
questo spirito» sono stati pubblicati — soprattutto, ma non solo — in
russo, in polacco, in rumeno, in ceco e in tedesco (nell’ex Germania
orientale). In tal modo e «in perfetta buona fede» questi storici hanno
spostato l’attenzione verso «una problematica che oggi appare del tutto
secondaria», lasciando da parte, nella migliore delle ipotesi, «o
addirittura occultando», nella peggiore, questioni ben più importanti.
Per loro contava solo che si trattasse di «un caso esemplare di lotta di
classe nell’antichità». A dire il vero oggi, ironizza Le Bohec,
«nessuno si domanda più se Spartaco sia stato un precomunista, un
protocomunista, un comunista perfetto o non sia stato affatto un
comunista»; e discutere «per stabilire se abbia condotto o meno una
lotta di classe, ormai interessa solo a qualche nostalgico di questa
ideologia». In generale «non ci si preoccupa più di stabilire in che
modo gli eventi si accordino con il catechismo e il credo marxisti».
Ma
non c’è solo questo. Si è scritto, ad esempio che Spartaco era stato un
soldato romano, che aveva disertato, poi era stato preso e condannato
alla gladiatura. Ma dove sono le prove di questa ricostruzione storica? E
«anche se fosse stato davvero un soldato — cosa che resta ancora da
dimostrare — questo tracio certamente non ebbe accesso alle unità
combattenti, né alle legioni, né ai gradi superiori». Essendo tracio, e
non romano, «avrebbe al massimo potuto essere un ufficiale subalterno
nei ranghi degli alleati, i socii». «Al massimo!», sottolinea Le Bohec.
Per quanto riguarda la tattica e la strategia, quindi, «Spartaco non
superava il livello di un odierno sottufficiale che presti servizio in
una caserma di provincia». I gladiatori, poi, non avrebbero potuto
sconfiggere i legionari per varie ragioni: prima di tutto «erano
addestrati unicamente per il combattimento individuale»; in secondo
luogo, «le loro armi erano destinate esclusivamente allo spettacolo e
non alla guerra»; infine «praticavano una scherma diversa da quella in
uso sul campo di battaglia». È facile farsi un’idea di ciò che un
reziario, con la sua rete e il suo tridente, avrebbe potuto fare contro
un fante pesante: «assolutamente niente».
Spartaco — per quel che
se ne sa — nacque intorno al 93 a.C. in un popolo seminomade della
Tracia. Vittima di una razzia, è stato condotto a Roma dove ha tentato
di rivendicare la sua condizione di uomo libero, ma un tribunale
ingiusto non ha accolto la sua domanda, sicché è stato venduto al
proprietario di una scuola di gladiatori di Capua. Lì ha provocato una
rivolta. È divenuto quindi un capobanda e ha condotto i suoi compagni
sul Vesuvio. Il propretore Glabro non è riuscito a sconfiggerlo e
neanche il pretore Varinio, i consoli Lentulo e Gellio. In pochissimo
tempo ha saputo reclutare numerosi combattenti e la banda si è
trasformata in una compagnia, poi in un vero esercito.
Per
«garantire la sopravvivenza ai suoi uomini, per trovare rinforzi e
perché era la regola delle guerre antiche, ha saccheggiato la Campania e
poi la Lucania».
Bisogna «mettere da parte le utopie del XIX e
del XX secolo». Gli schiavi «non si battevano per stabilire la giustizia
sulla terra, né la libertà per tutti, ma semplicemente per sfuggire
alla propria condizione». Non erano «colmi di bontà», ma esperti delle
«crudeltà che contraddistinguevano tutti i conflitti dell’epoca: rapine,
violenze, incendi, stragi». E Spartaco «non si comportava né come un
missionario della democrazia né come un difensore della libertà».
Probabilmente voleva soltanto ritornare in Tracia e «non aspirava ad
altro che alla sua liberazione»; poiché «non poteva ottenerla da solo,
ha sfruttato questo esercito di schiavi che si era costituito secondo le
circostanze» (ma su questo punto molti storici ancora oggi non
concordano e, pur non facendone un precursore della lotta di classe,
attribuiscono al tracio disegni più ambiziosi).
Poi ha condotto i
suoi «compagni di sventura» verso nord, per «fuggire attraverso i passi
alpini», saccheggiando durante questo transito il Piceno. Avendo fallito
in questo disegno, è tornato a sud, «saccheggiando di nuovo lo
sventurato Piceno», con la speranza di prendere il mare per abbandonare
l’Italia. Ma questa volta Roma gli ha mandato contro Crasso con un
esercito adeguato «per quantità e qualità». Dopo essersi divincolato,
Spartaco si è diretto verso l’estremo sud della penisola, «senza trovare
le imbarcazioni di cui aveva bisogno». A questo punto non gli restava
che cadere con le armi in pugno, provocando il maggior danno possibile
ai suoi nemici. Spartaco «è morto da comandante di guerra», conclude Le
Bohec.
C’è da notare in tutta questa vicenda una incredibile
mancanza di disegno strategico. Anche se fossero riusciti ad andarsene
dall’Italia, dove avrebbe trovato rifugio quella gran quantità di
uomini? E, soprattutto che cosa resta della rivolta degli schiavi? Gli
schiavi, risponde l’autore di questo libro, «non avevano un progetto
così unitario come è stato affermato, tranne che su un punto»: nessuno
di loro «pensò mai all’abolizione della schiavitù». D’altronde, scrive
Le Bohec, anche ai giorni nostri i migliori difensori della schiavitù
sono proprio coloro che la subiscono. Ciò era a tal punto evidente
duemila anni fa che «gli autori antichi non menzionano mai un simile
progetto». Mai, neanche una volta. Anzi, si spingono anche oltre,
«descrivendo la vita e, a volte, la morte dei “buoni schiavi”
sacrificatisi per il padrone».
Gli scrittori antichi, tutti,
«dimostrano chiaramente che l’obiettivo di Spartaco e dei suoi non era
quello che gli è stato attribuito». Ma, ironizza Le Bohec, «sarebbe
stato necessario leggerli». Contrariamente a quanto hanno pensato gli
storici del XX secolo, scrive Le Bohec, «alcuni personaggi hanno giocato
un ruolo importante per i loro contemporanei»; erano quelli che, un
tempo, gli accademici chiamavano con ironia e disprezzo i «grandi
uomini». E Spartaco «anche se non fu un uomo grandissimo, va annoverato
fra questi grandi uomini che fanno la storia e non la subiscono».
Scrive
lo storico che l’esercito romano del I secolo a.C. era divenuto il
migliore del mondo, che Spartaco ebbe il coraggio di attaccarlo, ma mai
avrebbe potuto sconfiggerlo ed era naturalmente destinato a perdere la
«battaglia decisiva». Nonostante questo «ha compiuto l’impresa di
trasformare in veri soldati uomini che non erano nati per questo
mestiere e per più di due anni ha saputo e potuto tenere a bada le
legioni». Nel contempo ha fatto venire alla luce «che lo Stato romano e
la società di cui esso era espressione conoscevano uno straordinario
dinamismo». E, secondo Le Bohec, la «crisi descritta con gusto dagli
storici» fu in realtà una «crisi di crescita». In quel mondo «gli
schiavi occupavano un posto certamente molto scomodo» e «i gladiatori,
in particolare, vivevano continuamente nell’orrore». Attenzione, però:
le loro condizioni erano in realtà «assai diversificate». E «gli schiavi
dalle mani pulite non si lamentavano troppo», anzi «pensavano
probabilmente che il sistema nel quale vivevano non fosse per loro il
peggiore possibile». Ma se le cose stavano in questo modo, resta un
mistero su quale fosse il punto d’approdo di quella grandissima quantità
di rivoltosi. Talché si ha l’impressione che nuovi studi dovranno dare
una risposta — quantomeno in via ipotetica — a questa non irrilevante
domanda.