Il Fatto 26.6.18
Il Bergman ripudiato
“Ciò non accadrebbe qui”. Troppo Usa per essere vero
Noir anti-comunista . Gli attori di “Ciò non accadrebbe qui” sono esuli dal baltico rifugiati in Svezia
di Anna Maria Pasetti
Nessuno
è perfetto, neppure Ingmar Bergman. Ma da genio creativo quale era ne
nutriva l’umana consapevolezza. L’incidente di percorso è datato 1950 e
s’intitola Ciò non accadrebbe qui, traduzione letterale dello svedese
Sånt händer inte här, opera mai uscita fuori dai confini svedesi e
danesi. Il motivo? Il grande regista fece di tutto per ostacolarne la
diffusione perché quel film Bergman lo odiava.
A portarlo stasera
nel Belpaese in premiere mondiale è il festival Il Cinema Ritrovato in
corso a Bologna in occasione delle celebrazioni per il centenario della
nascita dell’artista svedese. A concederne la copia è la Svensk
Filmindustri – che lo produsse – e la Ingmar Bergman Foundation: una
“concessione” speciale perché entrambi sono ben consapevoli di quanto il
regista si adoperò affinché il film sparisse dalla circolazione e dalla
sua coscienza, disconoscendolo fin dai primi giorni di riprese.
Ma
il compianto co-direttore artistico del festival – il finlandese Peter
von Bagh deceduto nel 2014 – teneva molto a quest’opera sapientemente
celata ed evitata persino dalle più complete retrospettive dedicate a
Bergman: dunque eccola in cartellone a Bologna nella luminosità di una
digitalizzazione del 2017.
In sostanza si tratta di una spy story a
tinte noir, anzi nerissime, pregna dell’assorbimento da parte del
cineasta di un genere impreziosito sia dai francesi che dagli americani.
Ed è proprio sulla “questione americana” che si è sviluppato il
malessere di Bergman nei confronti del film nato su commissione, da lui
né ideato né sceneggiato: Ciò non accadrebbe qui è un testo “a tema”, ed
è smaccatamente anti-comunista, quasi di ispirazione maccartista.
Lontanissimo
da influenze sull’efferata caccia alle streghe rosse, il regista si
accorse subito di essersi intrappolato in un progetto che non sentiva
proprio, al di là dell’aggravante che Ingmar Bergman può considerarsi
fra quegli immensi autori non a proprio agio nel cinema di genere, per
quanto le etichette vadano sempre usate con cautela in questi contesti.
Il
film si ambienta a Stoccolma e mette al centro una coppia dalla
relazione tormentata: lui viaggia segretamente, lei lavora da chimico
forense e ha un amante poliziotto. Con loro interagisce una comunità
compatta (molto bergmaniana) che si capisce essere costituita da
profughi fuggiti da un Paese sotto dittatura ora rifugiata in Svezia.
Nello sviluppo della narrazione si comprende che anche la protagonista e
suo marito provengono da questa nazione “maledetta”, indicata nel film
con l’immaginario territorio della Liquidatzia, nome fittizio a
designare l’Unione Sovietica. Si tratta di individui sofferenti e
contraddittori, alla ricerca di una nuova identità ma profondamente
segnati da un’appartenenza culturale difficilmente estirpabile. Su
volere del regista, gli stessi attori della “comunità” erano esuli da
zone del baltico rifugiati in Svezia e a tal riguardo il commento di
Bergman raccolto nel suo libro di memorie Immagini, è illuminante su
quanto poco aderisse al film: “Conobbi gli attori baltici esuli che
dovevano partecipare al film. Fu uno shock. All’improvviso capii che
genere di film avremmo dovuto fare. Tra gli attori scoprii una tale
ricchezza di storie ed esperienze di vita che l’intreccio malamente
sviluppato di Sånt händer inte här mi sembrava quasi osceno”.
Un
intreccio thriller e appunto di spionaggio che, ponendosi dal punto di
vista della protagonista femminile e del suo amante svedese, metteva in
cattiva luce il di lei marito che di fatto era diventato una spia
comunista e quindi andava punito: in lui, tormentato e ambiguo, si
concentra forse il massimo grado di presenza bergmaniana dell’intera
opera. Complessivamente, dunque, è difficile dar torto al grande Ingmar
per aver rifiutato questo suo infausto tassello dalla filmografia,
sebbene essa rappresentasse solo il suo nono film a partire dall’esordio
nel 1945 con Crisi.
Non mancano comunque momenti riusciti, a
partire dalla scena iniziale che punta lo guardo su un cielo di nubi
ammassate e inquietanti (splendida la fotografia di Gunnar Fischer) per
continuare nella scena più bella dell’intera opera con la comunità
nascosta nelle quinte di un cinema il cui grande schermo sta proiettando
un cartoon di Paperino: un contrasto visivo e sonoro fortissimo e degno
di uno statement politico scevro di retorica qualunquista.
In
attesa dell’inedito Ciò non accadrebbe qui, i festeggiamenti per Bergman
sono iniziati ieri sera in Piazza Maggiore con la proiezione della
copia restaurata della suo capolavoro più iconico, Il settimo sigillo
(1956), preceduta dal bel documentario dell’amica e discepola Margarethe
von Trotta, Searching for Ingmar Bergman, che arriva direttamente dalla
premiere mondiale tenutasi a Cannes lo scorso maggio.