mercoledì 27 giugno 2018

Gramsci per la scuola di Giuseppe Benedetti e Donatella Coccoli (Asino d’oro ed.)
Repubblica 27.6.18
Le lettere di Corrado Augias Se Gramsci fosse qui, cosa farebbe?
risponde Corrado Augias


Caro Augias, lei ha dato questo titolo a un suo recente racconto su Repubblica. it: “ Gramsci è vivo e lotta insieme a noi”. Forse mancava un punto interrogativo. Magari lo fosse, qualcuno potrebbe riconoscerlo e recepirlo! Non dico tutti perché è difficile pensare che la cultura giunga a tutti in tempi in cui il potere economico o politico è concentrato sul desiderio di venderti qualcosa. Stiamo attraversando una fase di grandi mutazioni. Ho però il dubbio che molte trasformazioni siano filtrate più dalla pancia che dal cervello. Come si sa i processi digestivi sono più vicini alle impurità animalesche di cui pure siamo fatti che non all’attività intellettuale. Penso agli Usa, alla Turchia ma anche a noi, un Paese dove Salvini capeggia, la mafia dilaga ma il problema è Saviano o un barcone di migranti o, zuccherino sulla torta, Scajola che torna come sindaco di Imperia. Scajola? In una situazione del genere lei scrive che Gramsci lotta insieme a noi? Non pensa che se Gramsci fosse vivo si chiederebbe per cosa ha lottato e sofferto? Se fosse vivo non direbbe piuttosto: “Aiuto! Fatemi scendere”?

Gabriella Rovatti

Non credo che chiederebbe di scendere, per ciò che valgono simili illazioni credo che si metterebbe a studiare con l’acume e l’accanimento che gli furono propri se e in che modo sarebbe possibile uscire dal disastro. Quel titolo comunque voleva avere anche una certa valenza scherzosa, suscitare una qualche curiosità come infatti è avvenuto con un numero enorme di condivisioni e contatti. Si trattava di segnalare un libro meritevole di ogni attenzione: Gramsci per la scuola di Giuseppe Benedetti e Donatella Coccoli (Asino d’oro ed.) un insegnante e una giornalista che hanno messo insieme un’estesa antologia di scritti gramsciani, ognuno dei quali presentato e commentato, relativi soprattutto al lavoro intellettuale che era poi per Gramsci inscindibile dal lavoro politico — la cultura intesa come vita. Confesso che la lettura di quelle pagine suscita un doppio sentimento fatto, insieme, di ammirazione e di sconcerto. Si resta ammirati dalla lucida forza di volontà di un uomo che, in carcere, malandato in salute, è stato capace di una tale elaborazione dovendo superare cento ostacoli anche pratici e con una documentazione quasi sempre insufficiente. Sconcerto di fronte all’abisso che separa quel tipo di elaborazione politica e intellettuale dagli attuali balbettamenti, o urla, da comizio. Quel titolo infatti non era solo scherzoso, voleva anche richiamare la forza di un tale atteggiamento, la vitalità di cui ha dato prova un uomo segregato dal mondo, posto dal regime fascista nella condizione di non nuocere. La sinistra democratica e liberale italiana avrebbe, nella sua storia, uomini e punti di riferimento fermi e validi anche oggi. Basterebbe pensare al patrimonio concettuale elaborato da uomini come Antonio Gramsci e Piero Gobetti, al loro sforzo di mettere insieme le istanze di libertà con quelle dell’uguaglianza.

La Stampa 27.6.18
L’infinito, “mostro di malizia”
Aborrito dai greci per la sua smisuratezza continua a eludere gli sforzi dei matematici
di Paolo Zellini


Il senso religioso dei Greci ha considerato l’infinito, non secondo l’anelito moderno, come il punto più alto e desiderabile per l’uomo, ma come un male e una condanna, e ha risolutamente bandito nel Tartaro i Titani che ne erano la personificazione divina. L’infinito e i Titani erano entrambi senza misura. Fra i Titani, Tantalo è tormentato da una sete inestinguibile, infinita; Sisifo ripete di continuo, coattivamente, lo stesso gesto: spinge faticosamente in salita un masso, che poi rotola giù, ed è costretto a riportarlo in cima ogni volta. L’impresa di Sisifo, indefinita, priva di orientamento e di scopo, è precisamente ciò che Hegel chiamava il cattivo infinito.
Ma esisteva per i Greci un’infinità compatibile con il limite e la misura, di segno opposto a quella del mondo violento e smisurato dei Titani? Eccezioni e sfumature a parte, la risposta è no, un’infinità di questo genere non esisteva. L’infinito greco, l’ápeiron, era propriamente l’indefinito, il senza-limite. Ed era proprio la parola «senza» a decretare la negatività dell’infinito greco, la sua smisuratezza e la sua affinità con l’assenza e la privazione, con ciò che i Greci chiamavano stéresis. La stéresis traccia la linea di separazione tra il potenziale e l’attuale e significa in breve che «non tutto può diventare tutto» e che «non tutto ciò che una cosa per sua natura può diventare, è già». [...]
Aristotele
Aristotele fece della stéresis, della privazione, un principio del divenire, accanto a forma e materia. Una condizione perché il bronzo diventi una statua o che assuma una qualsiasi altra forma è che ne sia inizialmente privo. Le dottrine cabalistiche del XIII secolo ripresero le teorie aristoteliche, fino a prospettare la privazione dell’infinito come l’essenza stessa di Dio, alla cui contrazione e autolimitazione il mondo doveva la propria esistenza. Lo stesso destino dell’essere umano ne era segnato: uno stare sul crinale tra finito e infinito, un essere in bilico sul bordo che separa Dio dal mondo del divenire. Si apre così un abisso al darsi di ogni qualcosa. «Nessun essere è completo, ma ciascuno è per sua natura spezzato e incompiuto», perché la sua vera radice «è piantata nel nulla divino».
Per rimarcare l’affinità tra ápeiron e stéresis, tra infinito e privazione, Aristotele spiegava che l’infinito non è ciò al fuori di cui non c’è nulla, ma ciò al di fuori di cui c’è sempre qualcosa. L’infinito era puro divenire, pura potenza; era sempre incompleto e diventava sempre «altro» (állo). [...]
L’infinito era un percorso dispersivo e straniante, un pericolo per l’anima, perché, avvertiva Platone, non c’è nessuna speranza di verità nel lasciarsi portare da una cosa all’altra, nel lasciarsi sedurre indefinitamente da ciò che, diventando sempre altro, si riduce a immagine errante e illusoria. Nella tarda antichità Boezio avrebbe chiamato l’infinito dedecus malitiae, un «mostro di malizia». [...]
La matematica greca proiettava il numero nello spazio geometrico, dimostrando che semplici costruzioni geometriche consentono di concepire entità che con i numeri non si possono rappresentare. Ma la geometria aveva due volti: uno visibile, disegnabile, oggetto della phantasia e dell’immaginazione; l’altro invisibile, nascosto e accessibile alla sola sfera noetica, alla comprensione intellettiva. Noi non vediamo, ad esempio, l’incommensurabilità tra due grandezze, non percepiamo con i nostri sensi, neppure nell’evidenza di un disegno, l’impossibilità di trovare una comune unità di misura per il lato e la diagonale di un quadrato oppure di un pentagono regolare. Siamo però in grado di catturarne l’idea per mezzo di postulati e dimostrazioni. [...]
Nel XIX secolo i matematici furono tentati dall’impresa più ambiziosa: concepire l’infinito come entità positiva, un infinito attuale di numeri concepiti come un tutto. Ma i numeri infiniti introdotti da Georg Cantor potevano disporsi in insiemi ordinati di ampiezza vertiginosa, aumentabili a loro volta all’infinito, e rivelavano allora una singolare affinità con la natura elusiva ed enigmatica del continuo matematico, con quelle grandezze infinitamente divisibili e senza lacune che erano già state dominio dei paradossi di Zenone. Lo stesso Cantor diceva di pensare l’insieme [infinito] come un abisso. [...]
Il Novecento
Tuttavia nel primo ‘900 la fede nell’esistenza matematica dell’infinito cominciò a vacillare e subentrò una drammatica crisi dei fondamenti che durò qualche decennio. L’infinito era il principale indiziato, perché erano di solito gli insiemi infiniti a generare contraddizioni. Nei commenti dei più eminenti matematici di allora sembra così di riudire in controcanto la diffidenza per l’infinito già espressa, nel corso dei secoli, nelle pagine di Plotino, di Spinoza, di Hegel, di Kierkegaard e di Leopardi. [...]
Più intransigenti sarebbero stati i matematici nel XX secolo, nel ribadire che l’infinito non esiste da nessuna parte, che le teorie di Cantor sugli insiemi infiniti erano contraddittorie, che il continuo geometrico o aritmetico è una nostra idealizzazione, di cui lo spazio reale potrebbe anche fare a meno. Con la matematica dell’ultimo secolo la negatività dell’infinito riaffiora e si riafferma in tutta la sua evidenza. [...]
L’inafferrabilità dell’infinito come entità attuale e perfetta è una conseguenza delle ricerche della logica e della matematica del ‘900, ma resta comunque un’insopprimibile esigenza della nostra mente, che non cessa di elaborare costruzioni simboliche capaci di rappresentarlo. Compito della matematica è sempre stato quello di garantire la solidità di quelle costruzioni, e di mantenersi anche oscuramente consapevole [...] che la meta a cui siamo orientati supera di gran lunga quella che possiamo raggiungere con i nostri calcoli.

Corriere 27.6.18
Droga. è allarme tra i giovanissimi
«A 11 anni la prima sniffata di coca»
Segnalazioni cresciute del 39% in due anni: Mattarella: ragazzi non cedete la libertà
di Alessandra Arachi


ROMA La droga colpisce sempre di più i più giovani. Che cominciano a sniffare cocaina anche a undici-dodici anni. E tra quelli che l’hanno provata, nove ragazzini su dieci finiscono per eleggerla a «sostanza preferita».
Questi sono numeri che vengono dall’Osservatorio della Comunità di San Patrignano, migliaia e migliaia i tossicodipendenti passati qui in quarant’anni. Migliaia e migliaia i dati a disposizione sulla galassia droga che sono stati resi noti ieri, giornata mondiale per la lotta agli stupefacenti.
È scomparsa, o quasi, l’eroina, il 43% dei nuovi entrati a San Patrignano non ne ha mai fatto uso, mentre svetta l’uso della cannabis, diffusa nell’87 per cento dei casi, anche qui sempre di più tra i più giovani. Aumentano anche le donne tossicodipendenti.
«Il dipartimento per il contrasto alla droga sarà potenziato», garantisce Lorenzo Fontana, il ministro della Famiglia che ha la delega sugli stupefacenti. E aggiunge: «È proprio ai più giovani che dobbiamo rivolgere la nostra attenzione, vittime primarie della commercializzazione attraverso il web».
Sono passati 31 anni da quando l’Onu ha deciso di istituire la Giornata mondiale della lotta alla droga, e ne sono passati quaranta da quando la comunità di San Patrignano apriva i suoi battenti per volontà di Vincenzo Muccioli. Ieri il presidente della Repubblica Sergio Mattarella è proprio a San Patrignano che è voluto andare per lanciare il suo appello. Un messaggio sentito quello del capo dello Stato: «Ai giovanissimi di questo Paese che possono entrare in contatto con le droghe dico che non cedano la libertà a droghe vecchie e nuove. Recuperino fiducia in loro stessi e costruiscano rapporti, coltivino dei sogni per il loro futuro».
Anche i radicali dell’Associazione Luca Coscioni ieri dal Senato hanno voluto lanciare il loro appello nella giornata per la lotta agli stupefacenti: rivedere la legge Jervolino-Vassalli, approvata 28 anni fa. Nel Libro Bianco presentato ieri, infatti, si evidenzia che crescono in maniera esponenziale le persone segnalate per consumo di droghe: da 27.718 del 2015 a 38.613, ovvero il 39 per cento in più in soli due anni. «Il 30 per cento dei detenuti entra in carcere a causa della droga, ovvero oltre 14 mila dei 48 mila ingressi in cella avvenuti nel 2017», si legge nel Libro bianco che oltre all’Associazione Coscioni è stato redatto da Antigone, Forum droghe, Cgil, Coordinamento nazionale comunità accoglienza, Cnca.
In particolare nel libro si evidenzia che a cadere nella rete della repressione penale sono soprattutto i «pesci piccoli», che sono cresciuti dell’8,5 per cento in un anno. Il 34,5 per cento dei detenuti lo è — secondo i radicali — soltanto per questo Testo unico sulle droghe da rivedere. «Colpisce i pesci piccoli e tiene fuori dalle carceri i grandi consorzi criminali», ha sottolineato il radicale Marco Perduca.

Corriere 27.6.18
Io, papà che ha paura, dico ai figli: non buttate via la vita
di Maurizio de Giovanni


Ciao, papà. Io esco. E magari è mezzanotte, e uno sta per mettersi a letto dopo l’ultimo zapping di cattive notizie dal mondo. Ciao, papà. Io esco. E nemmeno puoi chiedere dove vai a quest’ora, perché ormai è grandicello e uno non può mica tenerli sotto una campana di vetro, e poi non sono più i tempi che la voce di un padre era cassazione, forse parli e quello ti fa una risata in faccia ed esce lo stesso.
E poi, si finisce di essere quello che dialoga: a uno che ti impedisce di fare le cose non racconti un problema se ce l’hai. Tu sei quello che deride gli altri quando dicono che hanno litigato col figlio; non puoi diventare all’improvviso come loro.
E allora fai un sorriso, gli dai un’occhiata rassicurante. Dov’è, che vai?, butti là, col tono fintamente distratto. Facciamo un giro. Vorresti dire: chi, facciamo? Con quale mezzo? E chi guida? Quale giro? Il giro dei bar? Dei locali, delle discoteche? Cosa berrete? E che cosa berrà chi guida al ritorno? Poi pensi che oramai è grande; e che è un bravo ragazzo, che ha la testa sulle spalle. Che in gruppo non gli può succedere niente.
Da quel momento in poi, da quando senti la porta chiudersi alle spalle e lui che fischietta per le scale, il motore che si mette in moto e la piccola sgommata di partenza, è proprio allora che le strade si diversificano. Perché c’è il papà che comincia a riflettere sui fatti suoi e poggia di lì a poco la testa sul cuscino e dorme profondamente, e chi invece continua a danzare coi fantasmi senza riuscire a chiudere occhio.
Vorremmo dire che non c’è pericolo; che i ragazzi sono ragazzi, certo qualcuno un po’ così ci sarà pure, ma andrà tutto bene. Benissimo. E no, per niente; il rapporto del nono Libro bianco delle droghe parla chiaro e i dati li trovate in queste pagine. Quattordicimila arresti, e chissà quanti tra questi dall’arresto hanno avuta salva la vita, con un muro o un albero o un’altra auto innocente che li aspettava in fondo alla strada; più di trentottomila segnalati, una robusta crescita del 40% circa in due anni, e cambia anche la materia prima: piccole pillole non controllabili e senza evidenza, da mandare giù con un sorso di Margarita, e via nella notte con quella scossa in corpo così bella, così terribile.
Abbiate paura, cari papà. Non sentitevi tranquillizzati dalla pretesa conoscenza dei vostri figli, non siate rassicurati dall’immaginazione della conoscenza dei compagni e degli amici. Ci sarà sempre qualcuno che per pagarsi la moto o la vacanza farà girare qualche pillola, e che male c’è, mica ti ammazzano, ti fanno solo divertire di più; e quell’euforia malata può incontrare anche la lama di un coltello, o una ragazza che non vuole alla quale usare violenza.
Abbiate paura, perché se si ha paura si cercano rimedi. Abbiate paura, perché quarantamila in più sono tantissimi; e tra loro ci può essere anche qualcuno di conosciuto. Abbiate paura di tacere, non di parlare. Di dire, come il sottoscritto: «Non buttare la vita, che è bella, bellissima».

Corriere 27.6.18
Dai malesseri alle psicosi. Quali sono le conseguenze
di Adriana Bazzi


L’Italia si conferma un Paese ai primi posti in Europa per il consumo di droghe, soprattutto fra i più giovani e soprattutto per la cannabis. Analizziamo il fenomeno con Riccardo Gatti, direttore del Dipartimento per le dipendenze dell’Azienda Santi Paolo e Carlo di Milano.
Qual è la situazione?
«Sui giovani esiste una forte pressione, anche mediatica, perché consumino sostanze “stupefacenti”. È una questione di mercato. E parliamo di cannabis, marijuana, persino di cocaina, ma anche di alcol. È un business: si promuove la domanda, spesso attraverso i social network, e l’offerta arriva. Ma ora si stanno affacciando droghe che non sono più “quelle di una volta”. Più difficili da individuare (come quelle sintetiche, ndr)».
Con quali conseguenze?
A parte gli effetti acuti (sbronze, sballo o altro, ndr), il consumo di queste sostanze comporta, a lungo andare, un aumento di malattie mentali perché altera l’equilibrio psichico, fino a provocare vere e proprie psicosi. E, nella minore delle ipotesi, possono incidere sulle relazioni interpersonali, sulle capacità lavorative e, non da ultimo, interferire anche nei rapporti sessuali».
Come correre ai ripari?
«Bisogna rendersi conto che le sostanze oggi in circolazione sono diverse dal passato. E occorre che le leggi si adeguino per contrastarle».
In questi giorni si è avuto uno stop alla vendita di Cannabis light da parte del Consiglio superiore di sanità.
«Sì, ma non si tratta di un prodotto per uso umano. È venduto come profumatore di ambienti, per esempio. Poi c’è qualcuno che lo usa per altri scopi. Da indagare».

il manifesto 27.6.18
Il voto come un’antica festa crudele. Vince la cattiveria
Destre. La cifra del cambiamento è un’inversione morale, che gli elettori hanno approvato. Come scriveva Luciano Gallino, per Pd e 5Stelle vale, a pari merito, « il trionfo della stupidità»
di Marco Revelli


Domenica il mondo è andato giù di nuovo. In modo più radicale, però, più definitivo, se possibile, rispetto al 4 marzo (il mondo della sinistra, intendo). Per un fattore simbolico, con la scomparsa della cosiddetta “zona rossa”.
Che ancora, pallidamente, a marzo s’intravvedeva sia pur slabbrata, e le roccaforti della Toscana, dell’Umbria, dell’Emilia consegnatesi senza colpo ferire all’avversario di sempre. Gomene d’ancoraggio tagliate dal colpo di scure di Matteo Salvini e dei suoi bravi. E poi perché questo secondo crollo viene dopo più di tre mesi di gestazione del nuovo governo. Tre mesi in cui tutti i protagonisti si sono esibiti en plein air, illuminati dalla luce cruda dei riflettori mediatici.
LA GENTE ORA SAPEVA benissimo chi votava. Sapeva di votare la “cattiveria” di Salvini, la sua politica della “crudeltà” (lo vota proprio per quello). Sapeva di votare la guerra alle navi che salvano, quelli che ne invocano la messa al bando e magari, nei casi estremi, che ne richiedono l’affondamento. Sapeva di approvare quell’”inversione morale” che già Minniti aveva sdoganato lo scorso anno (con la benedizione di quasi tutti, compresi i “nemici” del Fatto) e che ora diventa pratica conclamata del governo del cambiamento. Anzi, la cifra del cambiamento. In questa seconda “prova” il voto ha assunto il profilo dell’antica “festa crudele”.
C’È UN INSEGNAMENTO drammatico in tutto questo. Ed è che la “narrativa” intorno a cui si è strutturata in questi tre mesi l’opposizione al nascituro governo che oggi imperversa, non solo non ha funzionato. Ma si è rovesciata nel suo contrario: carburante nel motore “populista”. Per ottanta giorni e passa i pallidi dirigenti del Pd ma soprattutto la stampa mainstream non hanno smesso un secondo di irridere, stigmatizzare, denunciare il pressapochismo, il dilettantismo, la “mancanza di cultura di governo” (o di cultura tout court) dei “vincitori-non vincitori”, sfoderando sorrisetti di superiorità, senz’accorgersi che così non li si delegittimava ma al contrario li si rafforzava. Che ogni derisione dei congiuntivi mancati di Di Maio gli portava sporte di voti. Che ogni sarcasmo sul curriculum di Conte lo nobilitava anziché diminuirlo. Perché in fondo siamo un popolo senza congiuntivi. E anche senza curriculum. Dovremo inventarci una narrativa diversa – opposta – a quella snob del partito dei media perbene, se vorremo opporci all’onda nera che sale, con una resistenza “popolare”.
C’è poi un altro insegnamento in questa seconda fine del mondo. Ed è la conferma di quello che Luciano Gallino chiamava il “trionfo della stupidità” (la quale, purtroppo, un peso ce l’ha negli eventi storici, e anche grande nei momenti topici). Mai come ora possiamo constatare quanta stupidità politica ci sia stata nella scelta del Pd di non tentare tutto il possibile per impedire la saldatura dell’asse Cinque Stelle-Lega: l’unica strategia politica adeguata allo scenario aperto dal voto di marzo. Cancellata con un tweet e una comparsata da Fabio Fazio del devastatore Matteo Renzi: quello che ha impresso l’immagine del suo volto come una maschera funeraria sul corpo del suo partito e dell’intera sinistra rendendola respingente per chiunque.
E DALL’ALTRA PARTE quanta stupidità politica alligni tra gli strateghi dei 5Stelle (vero Toninelli?), per non permettergli di capire che lo spazio lasciato alla retorica del disumano di Salvini è mortale per loro. Li espone alla cannibalizzazione da parte dell’alleato-nemico. Reintrodurre almeno un po’ d’intelligenza nella politica sarà impresa lunga e ardua, dopo questa regressione epocale.
MA C’È QUALCOSA CHE VA OLTRE, o sotto, la superficie della riflessione razionale sulla politica in questo voto impietoso (così privo di pietas) e distrattamente feroce. Qualcosa che va oltre i nostri stessi confini, che coinvolge un’Europa preda di nuovi nazionalismi fuori tempo insieme a un Occidente avvelenato da nuovi egoismi fuori misura che sanno di guerra. E che ha probabilmente a che fare con ciò che la discorsività democratica non dice, perché affonda le radici in un livello più profondo, e torbido. O incandescente. Un brillante politologo latino-americano, Benjamin Arditi, in un saggio sul populismo come “periferia interna” della politica democratica ha evocato la categoria freudiana della “terra straniera interiore” dell’Ego, nella quale il populismo pescherebbe le proprie pulsioni: oscure paure, frustrazioni rimosse, perdita di naturalità e di coscienza di sé, tutto il non detto dell’edificante narrazione liberal-democratica. Una sorta di inconscio individuale, ma soprattutto collettivo (più junghiano che freudiano), che proietta sullo “straniero” vero, sul corpo “alieno” che viene da fuori, i propri terrori ancestrali che da sempre il nostro originario genera e che ora, caduto lo scudo protettivo del benessere e dell’ascensore sociale, si sfoga. È una sfida che parla della nostra alienazione umana (di un disagio radicale dell’esistenza), prima che della nostra incapacità politica. E forse, prima di metterci a ricostruire una sinistra così sinistrata, avremmo bisogno tutti di un buon trattamento mentale, se vogliamo esorcizzare queste baccanti feroci che minacciano di squartare la nostra democrazia.

il manifesto 27.6.18
La soffocante Rete delle passioni tristi
Saggi. «Dieci ragioni per cancellare subito i tuoi account social» di Jaron Lanier per il Saggiatore. Il pamphlet del pioniere delle realtà virtuali contro l’«ideologia californiana» della gratuità. La parola d'ordine è: disconnettersi dai social network perché minacciano la democrazia e veicolano l’odio verso le minoranze
di Benedetto Vecchi


Limitano la libertà di scelta, favoriscono comportamenti gregari, trasformano uomini e donne in «stronzi», minano la verità, cancellano ogni autonomia individuale, distruggono la capacità di provare empatia nelle relazioni umane, rendono infelici, negano ogni dignità a chi lavora, riducono la politica in barzelletta, distruggendo così la democrazia, odiano i singoli e le società. Sono questi i dieci validi motivi per cancellare i propri account nei social network. L’invito, che rimbalza da una pagina all’altra in questo pamphlet, viene da Jaron Lanier, guru della network culture (Dieci ragioni per cancellare subito i tuoi account social, Il Saggiatore, pp. 211, euro 10).
SCRITTO IN UNO STILE niente affatto accattivante o analitico, il libro sembra la stenografia di un incontro tra due vecchie conoscenze in un bar. Tra un caffè e un drink, uno degli interlocutori non usa mezzi termini per esprimere il disgusto e la diffidenza verso l’ideologia della Silicon Valley. La tecnologia è una cosa buona, così come ottime persone sono molti informatici che vi lavorano, ma le big five (Google, Facebook, Amazon, Twitter e Apple) hanno il potere di corrompere tutto quel che «toccano», afferma più volte l’autore prima di lanciare grida d’allarme per uno stile di vita messo in pericolo dai social network, variamente qualificati come fregatura o sistema che riduce uomini e donne a feroci dementi che tirano fuori il peggio di sé quando sono on line.
Non è la prima volta che Jaron Lanier si scaglia contro i padroni della Rete. Pioniere delle realtà virtuali alla fine degli anni Ottanta, venture capitalist e imprenditore di successo nei decenni successivi è da tempo convinto che il modello di business dominante in Rete ha portato sull’orlo dell’abisso il capitalismo e la società americana. Per evitare che tutto precipiti, propone di disconnettersi dalla Rete per far entrare in crisi proprio quel modello di business.
È DAI TEMPI di Tu non sei un gadget (Mondadori) che Lanier guarda criticamente al modello di business dominante nella Rete, cioè a quello scambio tra cessione dei propri dati personali e alcuni servizi gratuiti garantiti dalle imprese. Allora, siamo nel 2010, il business model veniva criticato perché leva usata per scardinare interi settori economici (le industrie discografica, cinematografica, editoriale). Il «vangelo» della gratuità veniva diffuso perché sarebbe stata la pubblicità la fonte dei profitti e il pozzo dove attingere capitali e il denaro necessario per avere tutto senza pagare. Temi ulteriormente sviluppati ne La dignità ai tempi di Internet (il Saggiatore).
In questo libro, invece, da buon liberal, Lanier trasuda empatia verso l’immagine di una classe media laboriosa e spina dorsale della società americana, divenuta però vittima sacrificale sull’altare della economia digitale fondata sulla gratuità. Dopo la denuncia è però venuto il tempo di passare all’azione, scrive perentoriamente Lanier, proponendo così la disconnessione dai social network e social media.
Molti degli j’accuse presenti nel libro sono condivisibili, a partire dal fatto che Facebook, Twitter, ma anche Amazon, Apple, Google fanno della manipolazione dell’opinione pubblica l’oggetto quotidiano della loro attività. Il software, gli algoritmi, le tecniche di intelligenza artificiale messe in campo dai mastini della Silicon Valley servono a condizionare, influenzare, manipolare le scelte individuali e collettive.
NON ACCADE però solo per i consumi, ma anche per condizionare elezioni presidenziali (negli Usa, ma non solo), referendum nazionali (la Brexit), elezioni politiche. A farlo politici scaltri (Donald Trump o Putin, per citare i più noti). Lanier sostiene, facendo riferimento alle inchieste giudiziarie in corso negli Usa, che i russi hanno usato il web per screditare Hillary Clinton, favorendo così Trump; oppure apprendisti stregoni come Steve Bannon, che hanno alimentato il suprematismo bianco, mentre qualcuno nell’ombra usava account falsi di presunti attivisti afroamericani per mettere in cattiva luce «Black Live Matter».
CONDIVISIBILE è anche la denuncia delle «tempeste di merda e odio» scatenate contro gay, afroamericani, donne, transessuali e lesbiche. E i migranti, come accade al di là e al di qua dell’Atlantico. Gli imprenditori della paura sono nel frattempo diventati presidenti degli Usa, ministri degli interni, presidenti del consiglio, premier di paesi a est e ovest dell’Elba in Europa. Tutti accomunati dalla capacità di muoversi e alimentare il mondo della cosiddetta «post verità» e delle «fake news», dopo aver magari messo all’indice i vecchi media, denunciati come bugiardi nella critica delle élite per poi diventare spacciatori di «post verità» una volta entrati nelle stanze del potere.
Il pamphlet affronta argomenti già noti, ma comunque utili da ricordare per capire come funziona il business plan della «fregatura» (i social network), a partire dall’uso di algoritmi adattivi, la miscellanea tra software open source e algoritmi blindati da brevetti e copyright; il ruolo rilevante delle machine learning come leva affinché la manipolazione delle relazioni e degli scambi comunicativi risulti oggettiva e «naturale», occultando così la non neutralità del software.
IL LIMITE DEL LIBRO non sta nella denuncia della grande fregatura o nell’afflato nostalgico verso la logica economica del passato celato proprio dalla proposta di disconnessione pensata come un ritorno ai valori di un sano capitalismo, ma nella rimozione della precarietà dei rapporti di lavoro, nella violenza dell’espropriazione delle capacità innovative del lavoro vivo, nelle politiche di «cattura» a monte (le materie prime) e a valle (i contenuti) operati dalle imprese del web e non solo. Lanier si limita solo a una disconnessione e a indicare un business model alternativo a quello della gratuità, cioè a quella «peak tv» di Netflix, cioè nel pagamento di un canone mensile per i servizi che può fornire un social network o un social media. Più o meno, cioè, del business plan alla base di iTunes della Apple che non è certo il paradiso in terra per, ad esempio, gli operai della Foxxconn. Secondo il modello di business alternativo proposto, il pagamento del canone renderebbe possibile la non cedibilità dei propri dati personal, perché i profitti non verrebbero solo dalla pubblicità ma proprio dal pagamento dei canoni. Verrebbe così meno il dogma della gratutità in cambio della mercificazione della propria vita, mettendo così fine al grande disordine del capitalismo delle piattaforme. Difficile immaginare che due miliardi di uomini e donne si disconnettano dalla Rete o che imprese come Google o Facebook rinunciano alla loro montagna di profitti per diventare imprese compassionevoli. Dunque, tutto ciò è più un desiderio che l’adesione a un principio di realtà.
AL DI LÀ DELLA DEMONIZZAZIONE della gratuità, c’è da mettere a critica un aspetto che percorre il libro di Lanier senza trarne le dovute conseguenze: il business model dominante in Rete parte dal presupposto che la formazione dell’opinione pubblica sia un settore produttivo a tutti gli effetti.
Il monitoraggio della Rete, la tracciabilità dei comportamenti individuali, la loro «astrazione» quantitativa sono un aspetto fondamentale nell’accumulo dei Big Data, che vengono plasmati, impacchettati, scomposti e ricomposti come merce da vendere per strategie pubblicitarie mirate. Ma come hanno evidenziato le audizioni di Mark Zuckeberg dopo lo scandalo di Cambridge Analytica, tutto ciò a che fare con la produzione di opinione pubblica. È su questa faglia che si gioca la partita, sbrogliando il bandolo della matassa che anche Jaron Lanier contribuisce a definire.
NELL’OTTAVA RAGIONE per cancellare i propri account, l’autore si pone il problema del modo di produzione dentro e fuori la Rete. Emerge la dimensione della precarietà diffusa, del lavoro gratuito eletto a sistema dominante dentro la produzione di innovazione sociale e tecnologica, la concentrazione monopolistica nel capitalismo contemporaneo. Nella costruzione di bacini del lavoro vivo, scanditi da una alternanza e copresenza di alta qualificazione e abissale dequalificazione, di alti salari e di working poor. Di una totalità che vede politiche di rapine nel Sud del mondo e intelligenza artificiale messa in produzione. È su questo elemento che si gioca la partita. Ed è su questo crinale che c’è appropriazione privata dei dati personali.
È questo l’arcano del business model dominante nel capitalismo contemporaneo. Una volta svelato, il tema della produzione dell’opinione pubblica e della sua manipolazione perde il sapore acido di una critica moralistica per restituire la sua dimensione materiale, dove la questione del potere e dei rapporti sociali diventa finalmente di nuovo centrale.
Le shit storms, gli imprenditori politici della paura, il populismo postmoderno trovano infatti legittimità in questo totalità. Più che disconnetersi da essa, fattore che salva l’anima e niente più, occorre semmai sabotarla, farla deflagare. Ma qui serve un surplus di pensiero critico, quello che occorre per immaginare una politica della liberazione.

il Fatto 27.6.18
Lo storico Luciano Canfora: “Il Pd va incenerito. Per Tucidide, la speranza porta alla rovina della città”
“Quell’area non esiste più. Mica c’è sempre la soluzione”
di Antonello Caporale


Domenica sul “Fatto”, Antonio Padellaro ha illustrato la strategia del “Ronf ronf” del Pd, un partito dormiente che dimentica i suoi sei milioni di elettori e quelli che potrebbero tornare. Dopo Massimo Cacciari, oggi interviene Luciano Canfora.
“Caro amico, natura non facit saltus”.
Il professor Lu-ciano Canfora sta invitando chi ha sempre votato a sinistra a sistemarsi paziente e attendere che la destra esaurisca negli anni venturi la sua energia vitale.
“Chiedere a un pensatore il rimedio per una situazione divenuta scabrosa, prima che disastrosa, rasenta il velleitarismo. La sinistra non esiste più. Punto. Il Partito democratico è da liquidare, anzi incenerire. Mica si può sempre avere una soluzione a tutto? In alcuni casi si impone la chirurgia demolitoria”.
Pensavo che offrisse almeno la lucina di una speranza.
Il grande e sapiente Tucidide ci ammonisce al riguardo: la speranza porta alla rovina la città.
Lasciamo stare la speranza allora, ma almeno la passione.
Ecco, va già meglio: la passione è coscienza morale vigile.
Cosa impone dunque la coscienza a un elettore di sinistra?
Vediamo cosa ci dice il nostro intelletto. Matteo Salvini, e questa nuova cultura fascistoide governativa è il regalo, l’ultimo, che ci ha fatto Matteo Renzi che liquidò nel famoso discorso televisivo ogni ipotesi di accordo tra il Pd e i Cinquestelle.
Lei riteneva possibile quell’accordo?
In Parlamento sono tre gli aggregati politici, c’era bisogno che dei tre almeno due fossero d’accordo. Semplice. Persino Piero Fassino l’ha capito. E dirò di più: se Renzi avesse lasciato che Martina facesse quel che doveva fare con il presidente della Camera, persino il mediocre Luigi Di Maio avrebbe lasciato perdere la Lega e il suo deposito di becerume. Ma niente.
Oggi è tutto compromesso, dunque?
Subiamo l’inferiorità di pensiero nell’opinione pubblica, con un popolo sfiancato dai mille cattivi esempi.
Il Pd deve chiudere bottega.
Svegliarsi improvvisamente da questo sonno della ragione è speranza vana. L’unica cosa che si può chiedere, immaginando che esistano ancora circoli e militanti attivi del Pd, è che si affrettino a liquidare lo stato maggiore.
E poi attendere.
Carlo Alberto Biggini, ministro dell’educazione di Mussolini, spiegò egregiamente il carattere del nostro Paese: “L’Italia è la patria del fascismo”. Non aggiungo Gobetti e la sua riflessione sul fascismo come autobiografia della Nazione.
Ma la destra è avanti ovunque nel mondo, egemone in Europa, al comando nelle Americhe.
Da noi la situazione è ancora più acuta, ma certo la situazione è grave ovunque, convengo. La Francia ha risolto il dilemma eleggendo il fringuellino Macron che a Bardonecchia punta i fucili contro i migranti meglio della Le Pen e attua la politica coloniale in Africa.
In Germania la Merkel è asfissiata dal peso dell’opinione di destra sempre più radicale.
Le ricordo che nell’est d’Europa, gridando il nostro amore per la libertà, abbiamo fatto sì che i regimi socialisti venissero attaccati e sconfitti. Oggi ci ritroviamo l’Ungheria di Orban, il patto di Visegrad, i fratellini clerico-fascisti polacchi. Che bel bottino per la democrazia!.
Lei dice che dobbiamo toccare il fondo del pozzo. E se il pozzo non avesse fondo?
Quando il 29 giugno dello scorso anno, Repubblica dà conto nel titolone di prima pagina che il governo Gentiloni è pronto a chiudere i porti ai migranti; quando il ministro dell’Interno Minniti ritiene di presentarsi alla festa di Fratelli d’Italia vantando, tra i sorrisi, la scrivania che fu di Mussolini, allora capisce che ogni idea di sinistra si è intorbidita fino a corrompersi nel profondo.
Ma a sinistra non c’è solo il Pd. Non è che chiediamo troppo, tanto a un partito che ha dismesso da tempo i colori che lei ama?
Parzialmente vero. Alle scorse politiche ho votato Leu, e sembrava che quella formazione dovesse addirittura raggiungere il dieci per cento. Invece è stata superata dal principio di realtà.
Indro Montanelli, parlando di Silvio Berlusconi, spiegò come lui fosse “una malattia che si cura solo con il vaccino, con una bella iniezione di Berlusconi a Palazzo Chigi”. Dopo un trentennio Berlusconi è ancora tra di noi.
Non per sembrare fastidioso, ma il grazie va dato sempre al nostro Renzi che, compiutamente, ritenne di fare cosa buona e giusta resuscitandolo col patto del Nazareno.
Ora Salvini ministro. Un altro vaccino con la sua prova di governo?
La politica è verità e noi dobbiamo avere della speranza la stessa considerazione di Tucidide, come le ho appena ricordato.

Corriere 27.6.18
L’opposizione alla ricerca di un progetto che manca
La politica è la capacità di trovare interlocutori anche lontano dalle proprie mura pericolanti
Altrimenti la sinistra rischia sempre più una dissiluzione
di Paolo Franchi


Nell’Italia governata dall’alleanza (si vedrà quanto stabile) tra due populismi non c’è niente che somigli, magari a grandi linee, a un’opposizione. La cosa non sembra interessare troppo analisti e commentatori. Ma, tra le tante, clamorose novità introdotte dal voto popolare, questa non è né la meno significativa né la meno inquietante.
E’ vero, il Pd ha subito una sconfitta di dimensioni inaudite, che meriterebbe prima di tutto una riflessione storico politica di cui non si intravede la minima traccia: e c’è poco da sorprendersene, la botte dà il vino che ha. La durezza estrema della sconfitta — anzi, delle ormai ricorrenti sconfitte, vista la caduta, domenica, di alcune di quelle che, per pigrizia giornalistica, continuiamo a chiamare, chissà perché, «roccaforti rosse» — non basta, però, a spiegare perché il Pd se ne stia sulla scena politica come un pugile così suonato da far quasi tenerezza. Forse ormai lo ricordano solo gli anziani. Ma nell’armamentario dei partiti, soprattutto di quelli in difficoltà grave, c’erano una volta lo spariglio, la mossa del cavallo o, più semplicemente, l’iniziativa politica. Cui ci si affidava per tentare intanto di aprirsi dei varchi utili a rompere l’assedio, allargare i contrasti in atto o potenziali nel campo avversario, e cercare (si diceva così) di rimettere la situazione in movimento.
Storie vecchie? Sì, ma fino a un certo punto. Specie in un’Italia che si è fatta di nuovo, seppure in forme vagamente surreali, proporzionale e proporzionalista, e nella quale dunque all’opposizione non si chiede più soltanto, come al tempo del maggioritario, del bipolarismo e dell’alternanza, di controllare l’operato del governo e farsi le ossa per vincere le elezioni successive, ma di stare in campo come chi sa che, fino al fischio finale, tutto può succedere. Concretamente. Chi scrive non era affatto convinto, quando Luigi Di Maio si dichiarò disponibile a stipulare un «contratto di governo» tanto con la Lega quanto con il Pd, che quest’ ultimo dovesse abboccare, e predisporsi a buttar giù con i Cinque Stelle un compitino da portare dal notaio. Ma pensava, e a maggior ragione continua a pensare oggi, che un partito (sconfitto e stremato, sì: ma un partito) degno di questo nome avrebbe dovuto rilanciare e prendere, appunto, un’iniziativa politica. Chiamando il vincitore (o quello che all’epoca sembrava, numeri elettorali alla mano, il principale vincitore) a un confronto aperto, pubblico, su pochi punti programmatici fondamentali, per verificare non necessariamente in streaming, ma comunque in faccia al Paese, se ci fossero sì o (più verosimilmente) no le condizioni minime per governare insieme.
Una simile proposta, però, non è mai stata avanzata. I motivi, arcinoti, sono tutti o quasi riconducibili allo stato comatoso in cui versa un partito-non-partito come il Pd, che, chiamato a prendere dolorosamente atto del fallimento della politica seguita in questi anni, e trarne qualche conseguenza, non può farlo, perché chi la ha incarnata, ancorché dimissionario, ne è tuttora il dominus, nemmeno tanto occulto. E nulla, o quasi, lascia presagire che questo (desolante) stato delle cose sia superabile rapidamente. Il fatto è, però, che l’intesa, o, se preferite, l’attuazione del contratto di governo stipulato tra Cinque Stelle e Lega, si sta già rilevando più difficile di quanto i suoi protagonisti vogliano, nelle loro dichiarazioni, far intendere. Magari esagera chi pensa che Matteo Salvini stia mettendo legna in cascina sulla scorta di un piano preciso e preordinato per andare a nuove elezioni di qui a non moltissimo. Ma è altrettanto certo che il ministro degli Interni, cavalcando senza concedersi un attimo di tregua i suoi temi «a costo zero», a cominciare dall’immigrazione, e tirando ogni giorno un po’ di più la corda, mette la sua personale impronta su tutta l’azione di governo; crea difficoltà crescenti ai Cinque Stelle, dei quali non fatica a mettere in evidenza la pochezza politica; e soprattutto impingua clamorosamente i consensi alla Lega, stimata ormai da tutti i sondaggi come il primo partito.
Il Pd e quel po’ di sinistra che c’è fuori dal Pd possono, naturalmente, disinteressarsi della cosa, o rimarcare con dichiarazioni sarcastiche, tweet al vetriolo e comparsate televisive di aver sempre pensato che sarebbe andata a finire così. Questa, però, è solo (maldestra) propaganda. La politica è un’altra cosa. Anche nel Terzo millennio richiede, o forse sarebbe meglio dire: richiederebbe, progetto, programma, e prima ancora (chi avesse dubbi in materia farebbe bene a guardare con preoccupazione anche maggiore, ma meno spocchia moralistica, proprio a Salvini) identità e valori condivisi. Ma pure (ci risiamo) iniziativa. Movimento. Capacità di individuare interlocutori anche lontano dalle proprie mura, peraltro periclitanti. Non ci dovrebbe voler molto a capire che, altrimenti, rischierebbero di dissolversi, consegnando (senza nemmeno combattere) il Paese, e per chissà quanto tempo, a una destra assai diversa e assai più inquietante di quelle che abbiamo sin qui conosciuto, almeno nella storia repubblicana. Forse potrebbe bastare l’istinto di sopravvivenza. Non è affatto detto, però, che a sinistra ci sia ancora.

il manifesto 27.6.18
Benvenuti in famiglia, non è mai troppo tardi.
«Il Fatto Quotidiano» ha inaugurato ieri un bel dibattito intitolato «C’è vita a sinistra».
Il dibattito aperto il 26 giugno 2018 sul Fatto


I lettori e le lettrici del «manifesto» ricorderanno, per avervi partecipato numerosi, che «C’è vita a sinistra» è stato il titolo di un lungo confronto che iniziava con un editoriale in cui scrivevo una sorta di Decalogo delle urgenze per dare un futuro alla sinistra italiana.
Eravamo nell’estate del 2015, pieno agosto, e per alcuni mesi dubbi, critiche, speranze, passioni espresse da molte voci della società, della cultura e della politica intervennero insieme a moltissime lettrici e lettori.
Si discuteva del nuovo soggetto politico e della mutazione genetica del Pd renziano.
Poi, a novembre, uscì in edicola un corposo fascicolo che raccoglieva il dibattito, in pratica un «congresso» su come ricostruire una forza larga e popolare. In copertina un bianco coniglio che usciva dal classico cilindro del prestigiatore. Perché un po’ di magia per ritrovare la sinistra certo non guasterebbe.
Sfogliarlo potrebbe tornare utile anche ai giornalisti del «Fatto Quotidiano» che, come si dice a Roma, adesso si buttano a sinistra.

Il Fatto 27.6.18
Il dibattito tra Calenda e Salvini a Tor Bella Monaca: un incubo
di Antonio Padellaro


Questo diario ha fatto un(brutto)sogno. Siamo a Roma e in una piazza di Tor Bella Monaca (cassonetti colmi, cinghialotti a zonzo), Carlo Calenda – l’ultimo e forse proprio ultimo iscritto al Pd – sfida in un duello dialettico Matteo Salvini. Ricordo solo poche battute. Salvini: “È finita la pacchia” (vivi applausi degli astanti). Calenda: “Non rispondo alle fesserie di Salvini. Occorre un piano Marshall per sconfiggere l’analfabetismo funzionale e così riassociare il futuro alla speranza” (una voce: “basta co ’sti negri”). Salvini: “La pacchia è strafinita”. Calenda: “Occorre un fronte repubblicano per andare oltre il Pd, una segreteria costituente larga che progetti una grande assise…” (la folla lo circonda minacciosa, lui con un balzo inforca lo scooter e scappa in direzione Parioli).
Per fortuna era solo un incubo. Purtroppo però le frasi dell’ex ministro dello Sviluppo, compreso il piano Marshall, sono proprie le sue (intervista al Messaggero di martedì). Purtroppo (per il Pd) domenica scorsa eravamo stati facili profeti nel pronosticare un’ulteriore fuga degli elettori di sinistra verso l’ignoto. Avevamo invitato i dirigenti del Nazareno a uscire dal sonno, a dire qualcosa, a indicare una via d’uscita a un popolo, il loro, sempre più smarrito. Purtroppo ci hanno dato retta.
Oltre alla lotta di Calenda contro “l’analfabetismo funzionale” si è udita forte e chiara la voce del reggente Maurizio Martina. “Dobbiamo scrivere una pagina nuova”, ammette, “riconoscere gli errori per non rifarli”. Insomma “cambiare e ricostruire con umiltà e coraggio” (Corriere della Sera). Ha mancato solo di aggiungere non ci sono più le mezze stagioni e dobbiamo tornare tra la gente (forse consapevole dei rischi connessi).
Allusivo Nicola Zingaretti: “Non bastano semplici aggiustamenti e tantomeno povere analisi di circostanza” (boh). Senza confini Matteo Orfini: “Serve lavorare a un soggetto europeo che vada da Macron a Tsipras”. In sintonia con Calenda, Romano Prodi teorizza l’oltrismo (“necessario andare oltre il Pd”). Ventennale copy di Ferdinando Adornato, con il celebre saggio Oltre la sinistra (“c’è solo la destra”, subito chiosò Massimo D’Alema e infatti Adornato finì con Berlusconi). Su di giri il renzianissimo Andrea Marcucci: “Il Pd ha perso anche senza Renzi”. A cui fa eco un esultante Michele Anzaldi: “Senza Renzi e con i vecchi notabili non si vince”. Sono soddisfazioni ma almeno costoro esprimono senza ipocrisie l’unico sentimento che accomuna il gruppo dirigente Pd: l’odio vigilante (per il vicino di banco). Nell’attesa di assistere allo scontro finale tra oltristi, renzisti , repubblicani, rettiliani e vesuviani qualche banale osservazione.
Primo: dopo aver ingrossato le file del M5S, nei ballottaggi di domenica molti ex elettori Pd si sono rifugiati nell’astensionismo. Dove sono destinati a rimanere fino a quando l’attuale sinedrio non mollerà la presa (Massimo Cacciari: “I nuovi capi siano estranei al passato”). Vastissimo programma.
Secondo: battere la canea leghista non è impossibile. Come dimostrato, per esempio, dal successo della tavolata multietnica (10mila persone) organizzata dal sindaco di Milano Giuseppe Sala al Parco Sempione. C’è un problema: organizzare, condividere, coinvolgere, cucinare, apparecchiare e sparecchiare costa fatica. Più comodo progettare nuovi soggetti, segreterie costituenti e grandi assise.
Una volta a chi gli chiedeva la formula della buona letteratura Ernst Hemingway rispose: “Uno per cento ispirazione creativa, novantanove per cento traspirazione, impegno, sudore”. “Ma questo”, aggiunse, “vale per tutte le cose che contano”.

Repubblica 27.6.18
La riflessione
Identità e valori La sinistra riparta da zero
La sinistra vada oltre La sinistra
di Ernesto Galli della Loggia

Per il Partito democratico quanto è accaduto domenica 24 giugno 2018 è qualcosa di ben diverso da una sconfitta, sia pure assai grave. È qualcosa di molto vicino a una autentica espulsione dalla storia che significa anche la fine di una storia. Una storia cominciata male, in modo ambiguo e pasticciato 25 anni fa: una forte matrice comunista mai rivisitata e indagata ma semplicemente rimossa, un vantato innesto con il cattolicesimo politico di tutte le tinte (da don Sturzo a Livio Labor), e infine la costruzione di un Pantheon di presunti antenati messo insieme come un mazzo di carte (Giovanni Amendola accanto a Nelson Mandela, Primo Levi con don Milani). Cominciata male, e proseguita peggio: staccandosi progressivamente dalla realtà di carne e sangue del Paese, identificandosi con tutti i peggiori settori di establishment disponibili, e assistendo compiaciuto (non rendendosi conto di assistere in realtà al proprio suicidio) alla trasformazione dell’antica egemonia culturale all’insegna di Marx e Gramsci nel fighettismo à la page del «ceto medio riflessivo» sotto l’alto patronato di Roberto Benigni e del prof Paul Ginsborg.
Ciò detto bisogna anche aggiungere però che solo dagli uomini e dalle donne che in qualche modo hanno avuto a che fare con il Pd, solo da spezzoni della sua vicenda, da qualcuno dei suoi molti retroterra, può ricominciare la storia di un’opposizione in Italia.
Certamente non da Forza Italia, da Berlusconi costruita come un partito di plastica e di camerieri che oggi si apprestano a chiedere di essere assunti da un altro padrone. Ma per avere qualche speranza di successo deve essere una storia totalmente altra. Non bastano le sempre invocate «facce nuove» e neppure qualche idea nuova. Deve trattarsi di un’identità nuova. Un’identità diversa dal passato, e dunque pronta anche a contaminarsi con valori e prospettive che non abbiano a che fare con la sinistra tradizionalmente intesa. Per la semplice ragione che ormai è il mondo che non ha più molto a che fare con il mondo tradizionalmente raffigurato dalla Sinistra; e che la storia stessa ha imboccato vie inaspettate e contraddittorie. Sicché la società italiana, ad esempio, è oggi, sì, sospinta verso il futuro e ansiosa del sempre nuovo, ma insieme appare anche percorsa dal desiderio di ritorno a un po’ di ordine e di disciplina antichi, di recupero di una certa etica pubblica, del sentimento del lavoro eseguito con scrupolo, di servizi che funzionino, di una scuola fatta bene, del rispetto delle competenze e delle deontologie professionali. È un desiderio che riflette anche il bisogno di un rapporto effettivo tra politica e senso civico, tra politica e morale in cui l’opinione pubblica migliore ancora vuole credere (e del resto, a pensarci bene, non c’è forse proprio un tale sacrosanto bisogno in tanta agitazione contro la «casta»?).
Da tutto questo l’ovvia conseguenza che la nuova opposizione — non più del Pd, ma semplicemente di ascendenza Pd — non possa che avere un’identità colpevolmente «moralistica» ed «eclettica» agli occhi dei custodi di tutte le ortodossie cadaveriche delle varie Sinistre italiane (da quella marxista a quella liberal-democratica) ancora in cattedra a dispetto delle continue bocciature della storia. È il rischio inevitabile che oggi ciò che è nuovo deve correre per non assomigliare al vecchio. E consapevole di correre anch’io un rischio uscendo dal vago mi avventuro a mettere nero su bianco come secondo me dovrebbe più o meno essere il partito della nuova opposizione di domani, lontano parente del Pd di oggi:
1 sentirsi (e magari anche dirsi) culturalmente cristiano. Per ridare senso alla politica c’è bisogno di un’ispirazione alta e forte che oggi però non può venire da dottrine e valori esclusivamente politici. La «democrazia benevola» che vogliamo non è quella né di Pericle né di Cicerone: deve ad essi cose anche importanti ma è nata qui in Occidente dallo spirito delle Sacre Scritture rese universali dal Cristianesimo. E alla fine, come ha ben detto Massimo Cacciari, solo il Cristianesimo può tenere a bada i demoni della scienza, dell’economia e della tecnica riuniti assieme che incombono sul nostro futuro; e in generale, direi, anche quelli di ogni potere che si pretenda assoluto. Mi sembrano cose di una certa importanza.
2 essere orientato alla modernità, ma non progressista. Progressismo è sinonimo di un ottimismo sempre alquanto ridicolo, di questi tempi poi decisamente ingiustificabile. Disfarsi disinvoltamente del passato per principio, come è tipico del progressismo di massa da tempo in voga, testimonia solo di una micidiale superficialità.
3 essere un partito italiano. Il che significa rifiutare ogni autoreferenzialità nazionalistica ma, per dirne un paio, sentire come cosa propria il patrimonio storico-culturale della Penisola (non lasciando che l’istruzione vada a ramengo e che accadano altre empietà consimili), ovvero fare politica cercando di avere (e di comunicare) un’idea del passato del Paese e del suo futuro. Significa soprattutto avere in mente che nell’arena europea e mondiale l’interesse della sovranità italiana non sempre coincide con quelle altrui: e che per difenderlo si può anche alzare la voce. Non è scritto da nessuna parte che a farlo debba essere solo la Destra.
4 essere orientato in senso comunitario, multietnico e internazionalista ma non già multiculturale e cosmopolita. Per stare insieme una società ha bisogno di un legame più forte e profondo della Costituzione e delle leggi (che servono ma non bastano). Ha bisogno di sentirsi una comunità caratterizzata da una storia e da una cultura. Solo in una comunità siffatta chi è di un’etnia diversa o viene da un’altra cultura può davvero integrarsi: no di certo in una compagine multiculturale. D’altra parte, mentre internazionalismo vuol dire solidarietà, vuol dire ideali e cause condivise con altri individui e popoli, il cosmopolitismo, invece, è quasi sempre solo la versione supponente di un individualismo privo d’identità. Non a caso la Croce Rossa e il Primo Maggio continuano a essere dovunque più popolari dell’Onu.
5 dichiararsi a favore di una «patrimoniale». Non soltanto è il modo più semplice per far capire da che parte si sta quando si tratta di economia, ma a un partito di sinistra le risorse così ottenute potrebbero servire per due impieghi importanti: a usarne la metà per ridurre sia pure di poco il debito del Paese (dando così un segnale importantissimo ai «mercati» e facendosi altresì carico di un compito nazionale decisivo quale l’inizio della liberazione del Paese dal cappio finanziario), e l’altra metà usarla, invece, per un grande progetto sociale a favore dei ceti più disagiati: ad esempio per un piano nazionale di risanamento e ristrutturazione delle principali periferie urbane.
Lo so che è una misura che provoca in tanti un moto di rivolta: ma come ci si può rassegnare al fatto che chi in Italia detiene grandi quote di ricchezza si sottragga sempre in un modo o nell’altro all’obbligo dell’equità fiscale? Se lo si ritiene utile al Paese (personalmente è per questo che io sono disposto a dire sì a tale misura) un partito che si rispetti deve avere il coraggio di sfidare l’impopolarità.
6 non temere di difendere con forza certi valori etico-culturali. In politica contano non solo gli interessi e i diritti, contano anche gli ideali e i sentimenti: e forse sempre più conteranno nei domani che ci aspettano. Un partito, specialmente se di sinistra, non può essere un partito solo di gestione, deve essere anche il portatore di una speranza e di qualche forma di rinnovamento forte. Ad esempio i tempi sono maturi, io credo, per un partito che riprendendo un filone sotterraneo cha va da Mazzini a Simone Weil, metta all’ordine del giorno una tematica dei doveri e del «limite» contro l’ideologia del menefreghismo edonistico e del «tanto non faccio male a nessuno», nonché contro la pratica orgiastica del futile e del superfluo. Nel fondo dell’animo la gente desidera vivere per qualcosa di più e di meglio che una vacanza alle Maldive o fare sesso nell’auto ultimo modello.
7 proporre l’introduzione del servizio civile a 18 anni per tutti i ragazzi e le ragazze. Compiti: manutenzione del territorio (pulizia spiagge, greti dei corsi d’acqua ecc.), attività di protezione civile, assistenza a disabili, servizi di ambulanza, ecc. Tra ludopatia, alcol, impasticcamento e disgregazione familiare la gioventù italiana si sta perdendo: una svolta nel Paese dovrebbe cominciare anche da qui.
8 per quel che riguarda la politica estera, invece, entrare nell’idea che in linea di massima a noi italiani conviene essere sempre diffidenti della Russia, con gli occhi ben aperti verso la Germania, emuli della Francia, legati alla Grecia e alla Spagna, nutrire simpatia per la Gran Bretagna e gli Stati Uniti. Da soli possiamo poco, ma siamo necessari a molti per fare cose importanti.
9 essere un partito europeista ma nel modo che attualmente è urgente e necessario: cioè proponendo che per arrestare la valanga migratoria che altrimenti ci sommergerà, almeno meta dell’intero bilancio dell’Unione sia devoluto ad un programma di assistenza e sviluppo dell’Africa subsahariana. Oggi il massimo interesse dell’Europa non è la crescita del reddito del Crotonese o della Bucovina, è lo sviluppo economico del Gambia e del Congo.
10 prendere l’iniziativa per qualcuna, o magari tutte, delle seguenti misure: a) abolire il bicameralismo e il Cnel (è il caso di riprovarci); b) regolamentare lo sciopero nei servizi pubblici; c) reintrodurre il finanziamento pubblico dei partiti in misura adeguata ma in forme rigidamente controllate; d) separare le carriere dei magistrati; e) eliminare la presenza di rappresentanti designati dai sindacati in tutte le sedi direttive, amministrative e/o gestionali di qualunque ente, istituzione o organismo pubblico o azienda a partecipazione pubblica; f) sottrarre a tutti i Comuni dichiarati soggetti a a pericolo d’infiltrazione criminale la gestione degli appalti superiori ai 50 mila euro e affidarli alle prefetture.
Non so — e in fin dei conti m’interessa assai poco — se i suggerimenti fin qui dati possono essere considerati di sinistra. Almeno storicamente alcuni di essi di certo non lo sono. Di una cosa però mi sembra di essere sicuro: che oggi — come del resto forse sempre — per essere di sinistra non bisogna essere solo di sinistra.

Repubblica 27.6.18
Intervista a Carlo Lucarelli
«La Sinistra ha perso tutte le parole E la paura va ascoltata»
di Michele Smargiassi

La paura si costruisce, parola di grande giallista. «Ma è troppo facile dare la colpa alle parole della paura. Se la gente non ti vota più, il problema sei tu, che hai perso le tue parole». A Imola Carlo Lucarelli è affezionato, non solo perché vive a Mordano, pochi chilometri giù nella calda piana padana. Qui ha mosso i suoi primi passi da scrittore, qui ha lavorato come giornalista di cronaca nera. Alla candidata del centrosinistra si era offerto come consulente volontario per i problemi della sicurezza.
Ma il bastione rosso è crollato.
La sua reazione, Lucarelli?
«Molto dispiaciuto. Ma non disperato. Dovremmo imparare a non nasconderci dietro reazioni irrazionali.
Imola è stata amministrata bene, pensavo potesse continuare e migliorare, Carmen Cappello sarebbe stata un buon sindaco civico. Ma non è salito al potere il Terzo Reich.
Gli imolesi sono ancora gli stessi, hanno scelto amministratori diversi, bisogna semmai chiedersi perché lo hanno fatto».
Che cosa succederà a Imola?
«Non credo nulla di tanto diverso da quello che successe a Bologna con Guazzaloca. Una democrazia deve prevedere il ricambio. Bologna sopravvisse, poi cambiò ancora. Chi governerà Imola troverà una città solida, ben gestita. E gli imolesi in fondo sono gli stessi che votavano Pd… C’è una inerzia positiva delle città civili che può salvarci dagli stravolgimenti. Del resto, i Cinquestelle non sono la Lega».
Non la preoccupa la loro saldatura politica?
«Molto, soprattutto sul piano nazionale. Il timore è che i Cinquestelle si lascino sopraffare dalla Lega. Il governo dice e fa solo le cose della Lega, le cose dei Cinquestelle non le ho viste. Il rischio vero è questo, il prevalere dei disvalori della Lega oltre il suo vero peso».
Che cosa può far vincere quei disvalori?
«La costruzione della paura. E la risposta. Voglio dire, alla richiesta di più sicurezza notturna il nuovo sindaco propone dieci vigili in più: può essere una risposta sbagliata, ma sarebbe diverso se la risposta fosse il coprifuoco».
Lei è un esperto di costruzione della paura. Nei libri.
«Il meccanismo è uguale. Prima devi creare una sensazione di isolamento: buio, solitudine, abbandono. Poi arredi quel buio di rumori inquietanti. Poi fai “buh!”. E il panico non torna più indietro».
Siamo a questo punto?
«Io sono presidente di una associazione che lavora con le vittime della violenza. La gran parte del nostro sostegno va a persone che hanno subito aggressioni domestiche, bambini maltrattati. Una donna magari torna a casa di notte incolume, poi in salotto il marito la picchia… Ma quando la città comincia a sentirsi spaventata, dice “non possiamo uscire la notte”, la prima condizione è già in atto. La cosa peggiore che puoi fare è negare. La gente può avere paura di qualcosa che non esiste, ma la sua paura esiste».
La paura è di destra?
«La paura non è di destra né di sinistra. La risposta lo è. La paura non si insegue, ma si ascolta.
Devi dare l’altra risposta. Non c’è stata».
Quale poteva essere?
«Immaginiamo una situazione di paura. Notte, attraversi la strada troppo buia. Un tizio nell’ombra beve una birra, ha una faccia straniera. Non succede nulla, ma tu sei nel panico. La risposta della destra è la più semplice: hai ragione ad avere paura, quell’uomo è il tuo nemico. La risposta della sinistra, purtroppo, è complessa: chi è quell’uomo? Puoi conoscerlo? Puoi capire se è davvero una minaccia? Lo dico da giallista: a quel punto è più facile far arrivare la polizia. Ma la politica non può funzionare come un libro giallo».
In una lettera aperta, lei ha rimproverato alla sinistra di aver perso le parole per descrivere la realtà, addirittura per capirla.
“Pioveva e uscivamo in maglietta”.
«La destra ha saputo trovare slogan micidiali per le sue semplificazioni: “è finita la pacchia”, o “portateli a casa vostra”. Del resto il fascismo fu un grande inventore di slogan.
Ma anche la sinistra aveva parole d’ordine semplici, “pane” e “lavoro”… Non ha saputo cambiarle. Adeguarle. Che cosa è il “pane” per un lavoratore precario? La “pacchia” è una espressione assurda, ma per far capire che lo è devi raccontare un’altra storia, una storia migliore. “Antifascismo” è stata una parola fantastica, poteva essere il collante di un paese intero. Hanno messo quella parola su un altare, intoccabile, come le parole sacre che si possono dire solo in chiesa, e alla fine gli antifascisti hanno avuto paura a usarla, perché faceva vecchio partigiano e i moderati non ti votavano, l’hanno lasciata invecchiare senza adeguarla ai tempi. Ma quello che fai con le parole lo fai con la realtà».
Ovvero?
«Prenda questa terra, l’Emilia, la mia terra. La “roccaforte rossa”… Com’è sbagliata anche questa parola, che danni ha fatto, che idea di chiusura ha dato. Siamo sempre stati certi che non si poteva tornare indietro, che certi valori non potevano cambiare. C’è qualcosa di vero.
Se metto seduti qui davanti uno che ha votato Lega, uno che ha votato Cinquestelle, e discutiamo, forse ci ritroviamo e condividiamo molte cose. Del resto, magari quei due avevano votato Pci. Se sono le stesse persone, perché l’hanno fatto? Ti rispondono: perché non mi ascoltavano. Erano presuntuosi.
Erano inefficienti. Erano antipatici. Cerchiamo di non evitare queste risposte scomode, anche se è più comodo dare colpa alla gente che “va a destra” chissà perché».
Prodi dice che il Pd, neanche il Padreterno lo salverà…
«Forse siamo davvero allo zero.
Anche se ci sono ancora leader che mi piacciono, penso che se faranno tutti un passo indietro sarà meglio. Se la gente ce l’ha con te, sei tu che non vai. Ci saranno pure dei giovani che sanno scegliere parole efficaci per riattivare i valori di libertà e solidarietà».
Sempre che quei valori abbiano ancora valore per qualcuno.
«Io non credo che gli italiani abbiano barattato la libertà per la sicurezza. Certo, si può scivolare in una dittatura passo dopo passo, ma nulla è inevitabile e siamo ancora prima del crinale.
Se davvero quei valori fossero evaporati, ce ne saremmo già accorti. Non potremmo neppure fare questa intervista. Siamo ancora in tempo».

Repubbica 27.6.18
L’opposizione senza voce
di Michele Ainis


Questo governo è tutto: destra e sinistra, tecnici e politici, maggioranza e opposizione. Il vicepremier Salvini spara sui vaccini? S’oppone Grillo, ministra della Salute. L’altro vicepremier Di Maio accelera sul reddito di cittadinanza? Frena Tria, il ministro tecnico dell’Economia. Evviva, la maggioranza è viva. Anche troppo, verrebbe da osservare. Però in democrazia la dialettica politica dovrebbe consumarsi fra maggioranza e minoranza, non fra i maggiorenti della stessa maggioranza. E invece la minoranza dov’è, dove si è nascosta? Assente, silente, ancora penitente, mentre si succedono le batoste elettorali. E quando parla la sua voce non risuona, non ha abbastanza decibel per toccare l’uditorio.
Insomma, una débâcle, un paesaggio di rovine. Quelle del vecchio leader (Renzi), disarcionato dai propri errori, non da nuovi leader. Lasciando perciò un partito senza un comandante in capo, con i suoi colonnelli in lite perenne sulla rotta da seguire. Problemi loro, diranno i tifosi del nuovo esecutivo. Dopotutto pure l’altra minoranza (Forza Italia) non scoppia di salute. Però il Pd ha ottenuto più voti alle politiche, e non si era presentato in alleanza con un partito ( la Lega) che adesso siede sui banchi del governo. Quindi la prima responsabilità dell’opposizione è tutta sua. Se non riesce a esercitarla, i suoi problemi diventano anche i nostri, diventano un guaio per la democrazia italiana nel suo insieme. Perché la democrazia è potere controllato, bilanciato da un contropotere. Altrimenti il potere degenera in onnipotenza, e dunque in prepotenza. È esattamente a questo, a scongiurare questo pericolo letale, che servono le regole istituzionali e costituzionali. E fra tali regole ce n’è una che può tornare utile nei tempi di potere solitario che stiamo attraversando: la formazione d’un governo ombra.
L’idea è stata allevata in Inghilterra, e da lì esportata in India, in Canada, in Australia, in varie altre contrade. Ha lo scopo di rendere visibile un’alternativa di governo, sia nelle persone sia nei provvedimenti. Sicché la minoranza con più seggi in Parlamento forma uno Shadow Cabinet: tanti ministri quanti sono i membri dell’esecutivo in carica, con gli stessi dicasteri, sia pure virtuali. E lo Shadow Cabinet sviluppa un programma contrapposto al programma del governo, lo fronteggia, lo incalza su ogni iniziativa. Ma al tempo stesso il premier ombra viene sempre consultato dal premier ( quello vero) sulle questioni d’interesse nazionale, sulla politica estera, sulle più gravi emergenze. Perché in Inghilterra si tratta di un’istituzione seria, che loro prendono sul serio. Tant’è che i suoi poteri vengono regolati, nero su bianco, dalla legge. Anzi: Jeremy Corbyn, l’attuale capo dello Shadow Cabinet, riceve perfino uno stipendio dall’erario. Nulla di strano, se l’opposizione indossa un abito di Stato, se agisce nell’interesse stesso dello Stato.
E in Italia? Manca la legge, ma soprattutto fin qui è mancata la cultura. Sicché le nostre esperienze in questo campo sono state episodiche, talvolta caricaturali rispetto al modello inglese. Nel 1989 ci provò il Pci di Occhetto, innescando una diatriba permanente all’interno del partito. Nel 2008 ci riprovò Veltroni, con risultati migliori. Nel 2014 fu la volta di Rotondi, a nome della destra; ma del suo governo ombra nessuno vide neanche l’ombra. Tuttavia questi trascorsi negativi non bastano a giustificarne la rinuncia, adesso e per tutti i secoli a venire; altrimenti non dovremmo più tentare una riforma della Costituzione, dopo gli insuccessi collezionati negli ultimi decenni. Significa che far peggio sarebbe pressoché impossibile, mettiamola così. E far meglio, viceversa, significa rilanciare un’opposizione costruttiva, favorendo la stessa ristrutturazione del Pd. Significa restituire linfa al Parlamento, il solo luogo abitato dalla minoranza. Significa, in ultimo, misurarsi sulle cose, uscendo dalla nuvola dei tweet, dei post, delle parole pungenti e fastidiose come vespe che volano nei cieli della Rete. Non è poco.

Repubblica 27.6.18
La crisi e la povertà
Sono i giovani a pagare il conto
di Chiara Saraceno


Iminorenni e i giovani fino ai 34 anni costituiscono quasi la metà — 2.320.000 — di tutti coloro che si trovano in povertà assoluta in Italia. È un dato ormai strutturale.
L’aumento della povertà assoluta avvenuto dal 2005, e in particolare dalla crisi del 2008, è fortemente concentrato tra i più giovani. In un Paese in cui ci si lamenta che non nascono abbastanza bambini, una percentuale altissima delle giovani generazioni non ha abbastanza da vivere. E se qualche giovane si azzarda a formare una famiglia prima dei 35 anni, corre seri rischi di povertà per sé e per i suoi famigliari.
Sarà anche vero che c’è la ripresa. Ma non ha ancora toccato le aree e i gruppi più svantaggiati, facendo anzi aumentare i divari tra Centro-Nord e Mezzogiorno, tra giovani e anziani, tra famiglie senza figli o con un solo figlio e famiglie con più figli, oltre che tra famiglie giovani e famiglie di anziani. È un fenomeno che non riguarda gli stranieri, che pure presentano tassi di povertà quasi cinque volte più elevati rispetto agli italiani e corrispondono a un quinto di tutti i poveri assoluti.
Se a questi dati si accostano quelli sui Neet — oltre due milioni di giovani tra 15 e 29 anni che non studiano né lavorano né fanno tirocini, anch’essi fortemente concentrati nel Mezzogiorno — emerge lo spaccato di un paese che sta lasciando andare alla deriva, insieme ad una parte sostanziosa delle giovani generazioni, anche le proprie stesse risorse per il presente e il futuro. E mi limito solo ai dati sulla povertà assoluta, i più drammatici e incontrovertibili.
A fronte di questi numeri non c’è più tempo da perdere. Sono necessarie azioni sistematiche a più livelli. In primo luogo, occorre iniziare ad attuare gli obiettivi del reddito di cittadinanza rafforzando ed estendendo il “Reddito di inclusione”: alzandone il livello per avvicinarlo alla soglia della povertà assoluta e finanziandolo in modo sufficiente da coprire almeno tutti i poveri assoluti. In attesa di una riforma dei centri per l’impiego, che richiede tempo e risorse, sarebbe opportuno affiancare al “Rei”, per coloro che sono abili al lavoro, gli assegni di ricollocazione approvati e finanziati dal governo precedente, ma mai veramente decollati. Ma occorre anche rivedere il sistema frammentato e inefficiente di sostegno al costo dei figli, in modo da evitare il più possibile la povertà delle famiglie nonostante ci sia almeno un occupato (riguarda quasi il 12% delle famiglie con persone di riferimento operaio o assimilato, di più se si considera la povertà relativa).
È anche indispensabile investire in modo capillare, sul territorio, nell’individuazione e accompagnamento dei Neet, offrendo loro occasioni stimolanti ed efficaci di valorizzazione delle capacità. Infine, occorre investire nei servizi di base, in quelli per l’infanzia, nella scuola, non solo per favorire l’occupazione delle madri, ma per contrastare gli effetti della povertà sulla salute e lo sviluppo, fisico e cognitivo, dei bambini, i più danneggiati dall’esperienza di povertà.

il manifesto 27.6.18
Istat, è record di poveri: oltre 5 milioni. Di Maio rilancia: «Subito il reddito di cittadinanza»
di Roberto Ciccarelli


Workfare all'italiana. L'Istat conferma il boom dei poveri assoluti dal 2005. E il vicepremier, ministro del laqvoro e dello sviluppo, Luigi Di Maio rilancia il «reddito di cittadinanza» - un sussidio condizionato alla scelta obbligatoria di un lavoro attraverso un sistema di centri per l’impiego oggi inesistente. Proposta contro la quale il ministro dell’economia Giovanni Tria ha eretto un muro di gomma. Il Pd preme per estendere un’altra misura, però in vigore: il reddito di inclusione. In questa grande confusione chi ci rimette sono i poveri e i precari

L’Istat ha confermato il record di poveri assoluti in Italia: sono 5 milioni e 58 mila individui, il numero più alto dal 2005. Crescono anche i poveri relativi, coloro che pur avendo un lavoro arrivano con difficoltà alla fine del mese: nel 2017 erano 9 milioni 368 mila individui (il 15,6% contro il 14% del 2016). Più si è giovani, under 35, più si è poveri. L’indigenza è aumentata soprattutto a Sud, nelle grandi città e nei centri fino a 50 mila abitanti. Il fenomeno è tuttavia presente anche nei centri e nelle periferie delle aree metropolitane del Nord.
IN TUTTI QUESTI CASI il lavoro non basta per neutralizzare la realtà della povertà: nelle famiglie con il capofamiglia operaio, il disagio economico è più che doppio rispetto a quelle con un pensionato come persona di riferimento. Le più malmesse sono le famiglie degli stranieri residenti: rappresentano il 27% di quelle povere nel nostro paese, oltre una su quattro, più di un terzo sul totale degli indigenti. Matteo Salvini non ha fatto mancare la sua pillola di saggezza: «I dati confermano la giustezza del nostro obiettivo: mettere al centro gli italiani e dare priorità assoluta alle loro necessità». Se ne deduce che in nome del «prima gli italiani» si intenderebbe colpire un terzo dei poveri assoluti in Italia, gli stranieri. Come? Ad esempio escludendoli dal «reddito di cittadinanza» che il governo intende istituire. Se così fosse la battaglia xenofoba avrebbe due fronti: la guerra contro i profughi nel mediterraneo e quella contro i poveri stranieri che lavorano in Italia. Non è chiaro se Di Maio condivida questo approccio.
IL MINISTRO DEL LAVORO e dello sviluppo ieri da Confartigianato ha rilanciato la proposta di fare partire «subito» «entro la fine del 2018» il «reddito di cittadinanza» – in realtà un sussidio condizionato alla scelta obbligatoria di un lavoro attraverso l’istituzione di un sistema di centri per l’impiego oggi inesistente. Proposta contro la quale il ministro dell’economia Giovanni Tria ha eretto un muro di gomma: la legge di stabilità non investirà un euro. Se ne riparlerà nel 2019. A Di Maio non basta. Ha bisogno di una bandiera contro l’avanzata della Lega. Alla ricerca di sostegni contabili Di Maio ha citato il procuratore generale della Corte dei Conti Alberto Avoli che, nel giudizio sul rendiconto generale dello Stato per il 2017, ha definito il reddito «un diritto importante a sostegno delle fascecolpite dalla prolungata crisi occupazionale». E ha ricordato di rispettare i «doveri di cittadinanza».
LA PREMURA DI DI MAIO non è dovuta solo all’urgenza di ottenere visibilità politica. Il problema è anche tecnico: in attesa che il «reddito» entri in vigore, e non sarà a breve, il ministro deve decidere cosa fare del «reddito di inclusione» («ReI»), misura fallimentare del governo Gentiloni. Potrebbe usarlo come soluzione ponte, o come chiede il Pd con l’Alleanza contro la povertà (a cui aderiscono Acli, Caritas, i sindacati confederali) estenderlo. Di Maio, per ragioni politiche, non offre sponde, ma non spiega cosa fare, subito, contro l’emergenza. Così si espone a una pioggia di critiche. Mara Carfagna (Forza Italia) ad esempio sostiene che il reddito è «irrealizzabile» e chiede «un assegno universale per i bambini in povertà assoluta».
DAL PRIMO LUGLIO IL «REI» diventerà «universale». Per accedere non sarà più necessario che in famiglia ci sia un minore, una persona con disabilità, una donna in stato di gravidanza o un disoccupato over 55. La platea dei potenziali beneficiari salirà da 1,8 a circa 2,5 milioni. Il massimale sarà incrementato del dieci per cento: da una media di 485 a circa 534 euro mensili per un anno. Per ottenerlo bisognerà essere poverissimi: avere un reddito Isee da 6 mila euro e uno Isre da 3 mila. Ben più alta è la soglia stabilita dai Cinque Stelle: 780 euro a testa per 14 milioni di persone. Attenzione: questo è il tetto massimo. Se il beneficiario ha una rendita di 400 euro, il reddito è di 380 euro. Per questa miseria sarà obbligato a partecipare per 12-18 mesi ai corsi dei centri dell’impiego; ad accettare una proposta di lavoro su tre pena la perdita del sussidio; a lavorare gratis otto ore a settimana per lo Stato. Resta il nodo delle risorse per il «reddito» e i centri per l’impiego (17+2 miliardi). Di Maio pensa ai fondi europei Fse-Plus. Proposta bocciata dalla commissaria Ue al welfare Marianne Thyssen:i fondi che non sostituiscono la spesa nazionale né vanno usati per politiche «passive», gli ammortizzatori sociali per disoccupati. Di Maio vuole dimostrare che la sua è una «politica attiva del lavoro». Avere chiamato il «workfare» per quello che non è – un «reddito di cittadinanza» – non aiuta. Strumentalmente gli si rinfaccia l’«assistenzialismo», mentre è il contrario: si vuole mettere al lavoro i poveri obbligandoli a fare lavori poveri e volontari.
DALLA SAGRA DEGLI EQUIVOCI è esclusa l’idea che il reddito possa essere incondizionato. La lotta contro la povertà non va distinta da quella contro la burocrazia. Di Maio pensa che la burocrazia danneggi solo le imprese. No, quella delle politiche attive che vuole costruire può stritolare i poveri. E così si va avanti al buio senza prevedere le conseguenze mentre la povertà continuerà a crescere ancora.
***Non è mai troppo tardi per un reddito di base. Di cosa parliamo quando parliamo di “reddito” in Italia

Repubblica 27.6.18
L’istat
Quei 5 milioni di italiani poveri
di Dario Di Vico


Nonostante dal 2015 l’economia sia ripartita a un discreto ritmo, in Italia nel 2017 la povertà assoluta è aumentata rispetto all’anno precedente. A dirlo sono i dati Istat. Dunque, la ripresa non sta dando frutti tangibili a favore delle fasce più deboli: sono ben cinque milioni gli italiani che vivono in povertà assoluta. E il dato, il più alto dal 2005, è peggiorato in soli sei mesi.
La notizia è sintetizzabile così: nonostante dal 2015 l’economia sia ripartita a un ritmo discreto la povertà assoluta in Italia nel 2017 è aumentata rispetto all’anno precedente. Lo dicono i dati dell’Istat che servono a fare chiarezza su un tema che, dopo anni di grave dimenticanza, gode ora di un’assoluta centralità nel dibattito politico. La prima riflessione da fare, dunque, è che i vantaggi della ripresa — come si dice in gergo — “non si scaricano a terra” ovvero non danno frutti tangibili a favore della fascia bassa della società. Infatti vivono in una condizione di povertà assoluta circa 1,8 milioni di famiglie che corrispondono a più di 5 milioni di persone. Nel giro di soli dodici mesi il peggioramento è stato sensibile: era indigente il 6,3% delle famiglie e oggi siamo saliti al 6,9%, gli individui poveri assoluti erano il 7,9% della popolazione e a fine ‘17 siamo arrivati all’8,4%. Parte di questo incremento è puramente tecnico-statistico, legato al computo dell’inflazione (due decimali) ma colpisce che tutto ciò avvenga in una fase di ripresa e non di recessione e che, come annota l’Istat, entrambi i valori siano i più alti dal 2005, inizio delle serie storiche. La crescita del Pil, quindi, non riesce a mitigare le disuguaglianze ed è una novità non da poco perché in passato comunque le ripartenze avevano prodotto effetti positivi anche in basso.
Per avere qualche riferimento concreto sui valori delle soglie di povertà è utile ricordare che vengono calcolate sulla spesa per consumi di una famiglia. Ad esempio, per un adulto (di 18-59 anni) che vive solo, la soglia di povertà è pari a 826,73 euro mensili se risiede in un’area metropolitana del Nord, a 742,18 euro se vive in un piccolo Comune settentrionale, a 560,82 euro se risiede in un piccolo Comune del Mezzogiorno. Tra gli individui in povertà assoluta si stima che le donne siano 2,5 milioni (incidenza pari all’8,0%), i minorenni 1,2 milioni (12,1%), i giovani di 18-34 anni 1,1 milioni (10,4%, valore più elevato dal 2005) e gli anziani 611 mila (4,6%).
Nella mole di dati prodotti dall’Istat si possono pescare molti dettagli interessanti: ad esempio come la condizione professionale di operaio si abbini per l’11,8% a quella di povero (è il fenomeno dei cosiddetti working poor ), mentre il valore massimo di indigenza si registra nelle famiglie in cui il capo è in cerca di occupazione (26,7%) e resta invece al di sotto della media tra le famiglie di pensionati (4,2%). Quanto all’incidenza territoriale rispetto al 2016, le famiglie residenti nelle periferie delle aree metropolitane e nei grandi Comuni del Nord hanno visto peggiorare la propria condizione, con un’incidenza di povertà assoluta che si porta a quota 5,7% da 4,2% del 2016. Nel Mezzogiorno, invece, l’incidenza della povertà assoluta cresce verticalmente nei centri delle aree metropolitane (da 5,8% del 2016 a 10,1%) e nei Comuni fino a 50 mila abitanti (da 7,8% al 9,8%).
Dai dati alle scelte politiche dei nostri giorni il passo stavolta sembra breve. Domina la scena la proposta del reddito di cittadinanza avanzata in campagna elettorale dal Movimento 5 Stelle e oggi parte integrante del programma del governo Conte. In una prima fase il ministro Luigi Di Maio aveva indicato il rifinanziamento dei Centri per l’impiego come condizione indispensabile per implementare il nuovo provvedimento, ieri però è intervenuto per ribadire che il reddito di cittadinanza deve partire già dal 2018. Al di là della tempistica restano poco chiari la platea interessata e le coperture finanziarie assieme a un equivoco di fondo che è ricorrente. Il reddito che ha in mente Di Maio è una misura contro la povertà o contro la disoccupazione? È vero che le due figure sociali in parte coincidono, ma solo in parte. Se si dovesse optare per considerarlo una misura anti-indigenza si potrebbe lavorare sull’impianto del Rei, il reddito di inclusione varato dal governo Gentiloni, e potenziarlo. Nell’altro caso le soluzioni sono tutte da inventare e lo stesso ministro nei giorni scorsi aveva ventilato l’ipotesi di ripescare la formula del lavoro socialmente utile.

Il Fatto.27.6.18
L’Istat, i poveri, le urne, la merda e la cioccolata: politica e teologia
di Marco Palombi


Il rituale è il solito, i risultati pure. Ieri Istat ha diffuso i dati sulla povertà degli italiani per l’anno 2017 ed è stata l’ennesima ecatombe di record (nel senso che i poveri sono al livello più alto dacché esiste questo sistema di misurazione, cioè dal 2005): in povertà assoluta sono 1 milione e 778mila famiglie (il 6,9% di quelle residenti in Italia) nelle quali vivono 5 milioni e 58mila individui (l’8,4% del totale); in povertà relativa sono 3 milioni 171mila famiglie (12,3%) e 9 milioni 368mila individui (15,6%). Ovviamente i dati sono peggiori nelle famiglie numerose, laddove c’è disoccupazione, bassa scolarizzazione, nel Mezzogiorno, tra gli stranieri. Ora a fronte di questi numeri, ieri il capogruppo Pd in Senato, Andrea Marcucci, renziano, spiegava che la débâcle dem nelle urne è colpa di “un errore di comunicazione palese”: “Eravamo tutti occupati a fare provvedimenti e anche ad annunciarli però poi mancava la sintonia col Paese che era in difficoltà. Anche una buona legge non aveva effetti immediati e non determinava quel sollievo che noi comunicavamo e questo ha provocato una frattura che si è poi via via ampliata”. Insomma, c’hanno avuto la malattia alla comunicazione sennò i cittadini del Kansas city a quest’ora pensavano tutti che la merda – per così dire – è cioccolata. Tra un po’ scopriremo se questo peculiare processo di transustanziazione via spin doctor riuscirà invece a quelli che “tagliando le tasse ai redditi alti ci guadagnano pure quelli bassi” (flat tax): a occhio le due sostanze tendono ad avere sapore differente, ma chissà…

Corriere 27.6.18
La ripresa non ferma la povertà
Le famiglie in indigenza assoluta nel 2017 salite fino a 1,8 milioni
di Dario Di Vico


Il dibattito sul reddito di cittadinanza e chi potrà beneficiarne
La notizia è sintetizzabile così: nonostante dal 2015 l’economia sia ripartita a un ritmo discreto la povertà assoluta in Italia nel 2017 è aumentata rispetto all’anno precedente. Lo dicono i dati dell’Istat che servono a fare chiarezza su un tema che, dopo anni di grave dimenticanza, gode ora di un’assoluta centralità nel dibattito politico. La prima riflessione da fare, dunque, è che i vantaggi della ripresa — come si dice in gergo — “non si scaricano a terra” ovvero non danno frutti tangibili a favore della fascia bassa della società. Infatti vivono in una condizione di povertà assoluta circa 1,8 milioni di famiglie che corrispondono a più di 5 milioni di persone. Nel giro di soli dodici mesi il peggioramento è stato sensibile: era indigente il 6,3% delle famiglie e oggi siamo saliti al 6,9%, gli individui poveri assoluti erano il 7,9% della popolazione e a fine ‘17 siamo arrivati all’8,4%. Parte di questo incremento è puramente tecnico-statistico, legato al computo dell’inflazione (due decimali) ma colpisce che tutto ciò avvenga in una fase di ripresa e non di recessione e che, come annota l’Istat, entrambi i valori siano i più alti dal 2005, inizio delle serie storiche. La crescita del Pil, quindi, non riesce a mitigare le disuguaglianze ed è una novità non da poco perché in passato comunque le ripartenze avevano prodotto effetti positivi anche in basso.
Per avere qualche riferimento concreto sui valori delle soglie di povertà è utile ricordare che vengono calcolate sulla spesa per consumi di una famiglia. Ad esempio, per un adulto (di 18-59 anni) che vive solo, la soglia di povertà è pari a 826,73 euro mensili se risiede in un’area metropolitana del Nord, a 742,18 euro se vive in un piccolo Comune settentrionale, a 560,82 euro se risiede in un piccolo Comune del Mezzogiorno. Tra gli individui in povertà assoluta si stima che le donne siano 2,5 milioni (incidenza pari all’8,0%), i minorenni 1,2 milioni (12,1%), i giovani di 18-34 anni 1,1 milioni (10,4%, valore più elevato dal 2005) e gli anziani 611 mila (4,6%).
Nella mole di dati prodotti dall’Istat si possono pescare molti dettagli interessanti: ad esempio come la condizione professionale di operaio si abbini per l’11,8% a quella di povero (è il fenomeno dei cosiddetti working poor), mentre il valore massimo di indigenza si registra nelle famiglie in cui il capo è in cerca di occupazione (26,7%) e resta invece al di sotto della media tra le famiglie di pensionati (4,2%). Quanto all’incidenza territoriale rispetto al 2016, le famiglie residenti nelle periferie delle aree metropolitane e nei grandi Comuni del Nord hanno visto peggiorare la propria condizione, con un’incidenza di povertà assoluta che si porta a quota 5,7% da 4,2% del 2016. Nel Mezzogiorno, invece, l’incidenza della povertà assoluta cresce verticalmente nei centri delle aree metropolitane (da 5,8% del 2016 a 10,1%) e nei Comuni fino a 50 mila abitanti (da 7,8% al 9,8%).
Dai dati alle scelte politiche dei nostri giorni il passo stavolta sembra breve. Domina la scena la proposta del reddito di cittadinanza avanzata in campagna elettorale dal Movimento 5 Stelle e oggi parte integrante del programma del governo Conte. In una prima fase il ministro Luigi Di Maio aveva indicato il rifinanziamento dei Centri per l’impiego come condizione indispensabile per implementare il nuovo provvedimento, ieri però è intervenuto per ribadire che il reddito di cittadinanza deve partire già dal 2018. Al di là della tempistica restano poco chiari la platea interessata e le coperture finanziarie assieme a un equivoco di fondo che è ricorrente. Il reddito che ha in mente Di Maio è una misura contro la povertà o contro la disoccupazione? È vero che le due figure sociali in parte coincidono, ma solo in parte. Se si dovesse optare per considerarlo una misura anti-indigenza si potrebbe lavorare sull’impianto del Rei, il reddito di inclusione varato dal governo Gentiloni, e potenziarlo. Nell’altro caso le soluzioni sono tutte da inventare e lo stesso ministro nei giorni scorsi aveva ventilato l’ipotesi di ripescare la formula del lavoro socialmente utile.

il manifesto 27.6.18
Buona Scuola addio. Firma Miur-sindacati: stop chiamata diretta
Riforme Renziane Rottamate. Confederali e Gilda firmano il contratto che rimette la mobilità in capo agli uffici scolastici territoriali. Anche per i nuovi assunti. 'È un risultato importante che colpisce al cuore la riforma, già cambiata con la contrattazione. Ora cambiare l’alternanza scuola lavoro', commenta di Francesco Sinopoli, Flc Cgil
di Massimo Franchi


È il caposaldo della Buona scuola. Lo strumento con cui ogni istituto assomiglia più ad una azienda – con un manager a guidarla – che ad un presidio pubblico di formazione. La chiamata diretta dei docenti da parte dei dirigenti scolastici – la norma più criticata dagli stessi docenti – è stata abrogata. Ancor più incredibile lo strumento con cui si è arrivati a questa decisione: un accordo sindacale. L’opposto delle norme imposte ai docenti con la Buona scuola, la «legge 107 del 2015», come preferiscono chiamarla i sindacati.
E PROPRIO FLC CGIL, CISL Scuola, Uil Scuola e Gilda ieri pomeriggio al Miur hanno firmato il contratto nazionale per l’assegnazione del personale docente. L’accordo prevede che una procedura da parte degli Uffici scolastici territoriali, gli ex provveditorati. Con l’accordo viene archiviato questo contestato istituto anche in considerazione del ritardo sui tempi della mobilità. Si procederà, quindi, ad assegnare le sedi ai docenti mediante graduatoria utilizzando i punteggi delle domande di trasferimento.
In dettaglio, il testo prevede due fasi. Nella prima è prevista la copertura dei posti disponibili prioritariamente con personale che ha ottenuto la mobilità su ambito con una delle precedenze (previste dall’articolo 13 del contratto sulla mobilità). La seconda prevede la copertura dei posti residuati col restante personale, secondo il punteggio di mobilità. Questi ultimi docenti nella presentazione della domanda, che avverrà a partire dal 27 giugno con procedura apposita on line, indicherà la scuola da cui partire. Nel caso di mancata indicazione sarà considerata «scuola capofila dell’ambito». Queste operazioni saranno concluse entro il 27 luglio.
LA CHIAMATA DIRETTA È ABOLITA anche per le nuove assunzioni. Successivamente infatti saranno effettuate le operazioni per l’assegnazione della sede per il cosiddetto «personale neo immesso in ruolo». Anche in questo caso si seguirà il punteggio di graduatoria. I vincitori di concorso ordinario precederanno i docenti provenienti dalle graduatorie ad esaurimento, le cosiddette Gae. Una norma, quest’ultima, che rischia però di sollevare critiche da parte dei docenti precari.
L’assegnazione della sede di incarico avverrà contestualmente all’assegnazione dell’ambito di titolarità, superando le discrasie degli anni precedenti.
UN CAMBIAMENTO COSÌ importante è stato comunicato inaspettatamente dai soli sindacati. Il ministro Marco Bussetti – tecnico in quota Lega ed ex provveditore regionale lombardo – non era presente alla firma e ha commentato solo a tarda sera l’accordo: «L’eliminazione della chiamata diretta dei docenti era preciso impegno di governo. In attesa dell’intervento legislativo di definitiva abrogazione, che e’ mia intenzione proporre nel primo provvedimento utile».
«IL MINISTRO NON C’ERA, MA aveva annunciato in un’intervista la contrarietà alla chiamata diretta – spiega il segretario generale della Flc Cgil Francesco Sinopoli – . Per noi è un risultato importante che colpisce al cuore una delle norme più discusse della legge 107. In realtà con l’accordo sulla mobilità dello scorso anno e con l’accordo di ieri con l’anticipo di un anno del bonus docenti allargato ai docenti precari avevamo già cambiato profondamente la riforma con la contrattazione». Sul rapporto con il nuovo governo, Sinopoli ricorda che «la cancellazione era prevista nel contratto di governo: la chiamata diretta non difendeva più nessuno nella scuola, se non qualche renziano giapponese. Sicuramente c’è stata un’accelerazione dei cambiamenti, ma ora ci aspettiamo un intervento sull’alternanza scuola-lavoro, riducendo le ore per i licei e selezionando meglio le aziende»,
SODDISFATTI ANCHE GLI ALTRI SINDACATI. «L’accordo prevede che le operazioni avvengano attraverso una procedura trasparente e oggettiva, superando una modalità inutilmente farraginosa», commentano Cisl e Uil. Rino Di Meglio, coordinatore Fgu-Gilda, ricorda che negli ultimi due anni solo la Gilda – insieme ai Cobas – non ha sottoscritto i contratti sulla mobilità proprio per contrarietà alla chiamata diretta. Critici sullo stop invece i dirigenti scolastici. «Ancora una volta si pretende di modificare una norma di legge imperativa con un accordo contrattuale tra parti, cosa che nel nostro ordinamento non sarebbe consentita».

Repubblica 27.6.18
Accordo ministero-sindacati
Prof, addio chiamata diretta primo colpo alla Buona scuola
c. z.


La prima promessa elettorale di Lega e Cinque Stelle sulla scuola — la fine della chiamata diretta dei docenti per l’arruolamento in cattedra — è stata rispettata. Ieri pomeriggio il ministro dell’Istruzione Marco Bussetti e i sindacati, dopo otto ore di trattative, hanno firmato l’accordo, un contratto transitorio, che prevede che il personale docente venga assegnato dall’Ufficio scolastico territoriale all’istituto scelto attraverso la graduatoria e utilizzando i punteggi delle domande di trasferimento. Dunque, per il passaggio degli insegnanti dall’ambito territoriale alla scuola non ci sarà più la cosiddetta chiamata diretta del dirigente scolastico, prevista dalla “ Buona scuola” renziana.
La Flc Cgil, che ha firmato con Cisl, Uil e Gilda, fa sapere: «Questo atto rende oggettivo e non discrezionale l’arruolamento». I posti saranno innanzitutto assegnati seguendo il punteggio acquisito per la mobilità. Alla presentazione della domanda, che avverrà a partire dal prossimo 27 giugno e sarà come sempre on line, il docente indicherà la scuola — una soltanto, prima erano cinque — da cui partire. Le operazioni dovranno essere concluse entro il 27 luglio. Successivamente sarà effettuata l’assegnazione della sede per maestri e professori appena immessi in ruolo: i vincitori di concorso, che avranno priorità, e i supplenti provenienti dalle graduatorie ad esaurimento (le Gae), anche qui in ordine di punteggio. L’accordo, firmato alla vigilia delle nomine degli insegnanti, prevede una seconda parte attraverso la quale si abolirà la chiamata per competenze (dizione più corretta) anche per via legislativa: « La proporrò al prossimo Consiglio dei ministri » , fa sapere Bussetti. « Era un impegno del governo del cambiamento, dovevamo sostituire uno strumento troppo discrezionale e con inefficienze ».
Dura l’associazione nazionale presidi: «L’abolizione fa male all’utenza. Consentiva di scegliere i docenti più adatti per l’offerta formativa della scuola e permetteva di adattare il servizio alle esigenze dei ragazzi».

Repubblica 27.6.18
Roma e Il Vertice sui profughi
L’opzione del veto
di Federico Fubini


Il negoziato sui migranti mette a nudo il divorzio fra politica e realtà in Europa. Il prossimo atto andrà in scena da domani a Bruxelles, quando i 28 leader si riuniranno per salvare Merkel che dal suo ministro dell’Interno ha ricevuto un ultimatum: un accordo europeo che autorizzi la Germania a respingere alla frontiera i richiedenti asilo e scardini il trattato di Dublino.
P oche questioni mettono a nudo il divorzio fra la politica e la realtà in Europa come il negoziato sui migranti. Il prossimo atto andrà in scena da domani a Bruxelles, perché i leader dei 28 Paesi non si riuniscono per trovare una solu-zione al problema oppure per punire o, al contrario, compiacere l’Italia. Stavolta l’obiettivo è soprattutto salvare Angela Merkel. Tutti, i critici più severi della cancelliera tedesca, capiscono che la rimpiangerebbero se un fallimento nei prossimi giorni a Bruxelles aprisse la strada a una svolta d’impronta più nazionalista a Berlino.
Merkel rischia perché Horst Seehofer, il ministro dell’Interno espresso dalla Csu bavarese, le ha dato un ultimatum: la cancelliera ha pochi giorni per ottenere un accordo europeo che autorizzi la Germania a respingere alla frontiera i richiedenti asilo già registrati altrove nell’Unione europea. In gran parte si tratta di persone in arrivo dall’Italia e Seehofer minaccia di ritirare l’appoggio dei cristiano-sociali al governo se Merkel fallisce nel negoziato. Dopo oltre dodici anni di potere, sarebbe l’ultimo atto della cancelliera.
Il divorzio fra politica e realtà è completo perché questo sembra in buona parte un problema risolto: un totem attorno al quale coalizzare elettori prima del voto di ottobre in Baviera. Come nota Matteo Villa dell’Ispi sulla base di dati raccolti da Tagesspiegel (che ha interpellato la polizia di frontiera tedesca), tra gennaio e aprile di quest’anno i tentativi di ingresso irregolare dall’Austria in Germania sono stati 3.800 e nel 55% dei casi sono finiti con il respingimento; sono bastate le regole di Schengen. Continua dunque il calo negli afflussi irregolari verso la Germania rispetto ai 14.600 del 2017, mentre aumenta la quota delle persone respinte. Rispetto poi ai 167 mila ingressi di migranti e rifugiati senza documenti contati del 2016, il crollo è fortissimo.
Ciò che resta, e potrebbe portare a un veto dell’Italia al vertice europeo, è il problema politico. Per disinnescare la crisi di governo, Merkel ha bisogno che il governo di Roma si impegni a riaccogliere con un consenso automatico chi viene fermato in Germania dopo aver presentato richiesta d’asilo in Italia. Ma la disponibilità del premier Giuseppe Conte al vertice è condizionata a una contropartita: la Germania e gli altri principali Paesi dovrebbero impegnarsi a superare il sistema esistente, che relega la responsabilità per ogni richiedente asilo al primo Paese di arrivo nell’Unione Europea. Poiché l’obbligo legale di salvataggio in mare e di accoglienza in un porto sicuro negli ultimi anni è gravato quasi per intero sull’Italia, ora Conte chiede di rivedere il principio di fondo. Secondo il governo italiano, la responsabilità di gestire le richieste di asilo non può essere solo del Paese di primo approdo.
Thierry Pech di Terra Nova, un centro studi progressista di Parigi, definisce la richiesta del governo di Roma «giusta» e nota che essa, nei suoi aspetti costruttivi, «taglia corto con le provocazioni del ministro dell’Interno Matteo Salvini». Il problema è che né Merkel, né il presidente francese Emmanuel Macron sembrano disposti (per ora) a questa concessione: per loro dovrebbe restare il cosiddetto sistema di «Dublino III», che consegna gli irregolari ai Paesi di primo ingresso nella Ue. Merkel deve proteggersi dalla pressione della Csu. Macron fino a qualche ora fa è parso identificare Salvini con Marine Le Pen, la sua grande avversaria di estrema destra; l’uomo dell’Eliseo vive qualunque concessione all’Italia di Salvini come un’ammissione di vulnerabilità in politica interna.
Il cuore del negoziato di Bruxelles è qui. Molto ruoterà attorno alle frasi delle conclusioni dei leader nelle quali si parla della «condivisione degli oneri» sui richiedenti asilo. Per ora, con quel concetto i diversi leader intendono cose diverse. Merkel e soprattutto Macron vorrebbero che quella «condivisione» fosse di tipo finanziario oppure logistico: gli altri Paesi finanziano l’Italia, come fanno già con la Turchia, quindi sarà l’Italia a gestire gli stranieri irregolari in «centri chiusi» (espressione dello stesso Macron); oppure gli altri Paesi offrono personale per gestire le richieste, di fatto commissariando il sistema giudiziario italiano come accade già in Grecia.
L’Italia chiede invece che le conclusioni del vertice precisino o lascino la porta aperta a una «condivisione degli oneri» nella distribuzione delle persone: Conte vuole rompere il legame tra il Paese di primo approdo e l’obbligo di gestione delle richieste di asilo. Se questo l’Italia potrebbe mettere un veto, se insoddisfatta. C’è però una proposta in più, che potrebbe facilitare il compromesso: l’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr), guidato da Filippo Grandi, dovrebbe presentare un piano di accoglienza dei richiedenti in Paesi terzi come Tunisia o Algeria e di centri di filtraggio lungo le rotte del Sahara. Con indennizzi per chi accetta di tornare indietro.
Se niente funziona, naturalmente Merkel ha ancora uno strumento per salvarsi dalla Csu e sopravvivere politicamente: tagliare l’Italia fuori da Schengen. Ma è l’opzione nucleare, non un bottone che la cancelliera può schiacciare a cuor leggero.

Corriere 27.6.18
Non  si  può   chiudere gli  occhi  sugli  orrori delle  torture  in  Libia
di Maurizio Caprara


Il ministro dell’Interno della Repubblica italiana, vicepresidente del Consiglio Matteo Salvini, ha definito «menzogne» quelle «di chi dice che in Libia si tortura e si ledono i diritti civili». Sono parole in conflitto con una realtà denunciata da numerose fonti. E non si addicono a chi rappresenta il Paese di Cesare Beccaria, maestro (milanese) di civiltà nel XVIII secolo.
Un disabile libico legato al soffitto con catene, percosso fino a fargli perdere conoscenza nel carcere di Mitiga. Uno straniero sospeso a un gancio in una posizione detta «del pollo arrosto» e picchiato con badile. A Nasser Forest un uomo appeso per le gambe, sottoposto a scosse, privato di cibo fino a impedirgli di camminare da solo. Sono alcuni dei casi descritti in un rapporto pubblicato in aprile dall’Ufficio dell’Alto commissario delle Nazioni Unite sui diritti umani e dalla Missione Onu di appoggio in Libia.
Tra una dichiarazione e l’altra il ministro trovi il tempo di leggerlo. Soltanto 41 pagine, in inglese. Si intitola Abuso dietro le sbarre: detenzione arbitraria e illegale in Libia. Un dipendente governativo arrestato senza imputazione nel 2011, e rilasciato nel 2016, ha affermato che le guardie «lo hanno violentato, frustato finché ha perso conoscenza, sospeso a testa in giù per ore e bruciato con un ferro rovente anche su schiena e genitali». Risparmiamo il resto. È ancora più ripugnante.
Nel 2017 si stimavano in 6.500 le persone detenute nelle prigioni ufficiali. Altre migliaia nelle mani di milizie. Il rapporto giudica l’uso della tortura usuale. Riferisce di confessioni fatte recitare ai prigionieri in tv esponendo a vendette le famiglie.
Al precario embrione di governo che ha base a Tripoli non va negato appoggio. Ma sono orrori sui quali è un dovere non chiudere gli occhi. Né tacere.

il manifesto 27.6.18
Sei mesi per blindare i confini. Vienna si prepara a guidare l’Europa
Arrestiamo umani. Dal primo luglio l'Austria sarà presidente di turno dell'Ue
di Carlo Lania


Ha più volte assicurato che vuole fare da pontiere tra gli Stati occidentali e i Paesi di Visegrad, ma è attraverso quel ponte che le politiche sovraniste rischiano oggi di passare e di invadere l’Europa.
Tra pochi giorni, dal primo luglio, il trentunenne cancelliere austriaco Sebastian Kurz sarà il presidente di turno dell’Unione europea e per i prossimi sei mesi spetterà a lui indirizzare le politiche comunitarie mediando tra 28 capi di stato e di governo mai così divisi come oggi. E al contrario della sbiadita presidenza bulgara, c’è da scommettere che il giovane democristiano che governa l’Austria a capo di una coalizione che comprende l’estrema destra del Fpö di Heinz-Christian Strache, farà parlare di sé.
La spettacolare quanto inutile esibizione muscolare che si è vista ieri al confine tra Austria e Slovenia è forse il miglior biglietto da visita per capire quanto potrebbe accadere a partire dalle prossime settimane. Non a caso lo slogan scelto da Vienna per caratterizzare il suo semestre di presidenza è «Un’Europa che protegge», dove il non detto è che protegge se stessa dai migranti. Come Ungheria, Polonia, repubblica Ceca e Slovacchia, il gruppo di Visegrad con cui l’Austria ha rapporti sempre più stretti, Kurz è determinato a spostare le frontiere europee fuori dai confini dell’Unione al punto che nei giorni scorsi ha annunciato una «rivoluzione copernicana» nel caso dal Consiglio europeo che si apre domani a Bruxelles non dovessero arrivare risultati. Il progetto, al quale Vienna starebbe lavorando insieme a Danimarca e altri Paesi – non è certo nuovo visto che ancora una volta si propone di allestire campi nei quali trasferire i migranti e i profughi che sbarcano in Europa.
A differenza però di altre iniziative simili, che collocano i campi in paesi del nord Africa, Vienna propone che vengano realizzati nei Balcani (si è parlato del Kosovo, ma senza conferme), magari facendo leva sulla voglia di questi Paesi di entrare a far parte dell’Unione europea. «Così i profughi potranno avere protezione se necessario, ma non avranno possibilità di scegliere il Paese a loro più congeniale per presentare la richiesta d’asilo», ha spiegato ai primi di giugno Kurz da Bruxelles, dove si era recato proprio in vista della presidenza di turno austriaca. Il primo campo pilota potrebbe vedere la luce entro l’anno. Una proposta condivisa, non a caso, tra gli altri anche dal premier ungherese Viktor Orbán, alleato e amico del vicecancelliere Strache, e che Kurz vorrebbe cominciare a discutere già al vertice informale dei capi di Stato e di governo che si terrà a settembre a Salisburgo. Sembra invece ancora una volta archiviata, per le forti divisioni esistenti tra i 28, la possibilità di arrivare a una riforma del regolamento di Dublino.
Anche se l’Italia fa parte del cosiddetto «asse dei volenterosi» creato di recente con Germania e Austria allo scopo di fermare i migranti a tutti i costi, non è detto che per questo da Vienna non possano arrivare brutte sorprese per il governo gialloverde. Se infatti in Europa lo scontro sui migranti dovesse precipitare, c’è da scommettere che il cancelliere austriaco non esiterebbe a mettere in atto una minaccia più volte ventilata in passato, quando era ministro degli Esteri del precedente governo, vale a dire la chiusura del Brennero contribuendo così a isolare la penisola dal resto dell’Europa. Nel frattempo appoggia la proposta di Bruxelles di rafforzare ulteriormente Frontex per rendere più sicure le frontiere esterne dell’Unione. Capire poi dove l’Europa finisce, se al di là del Mediterraneo o al di qua delle Alpi, è tutto un altro discorso.

il manifesto 27.6.18
Razzismo, quello politico è più ambiguo, come negli anni Venti
Razzismo. Ci sono stati autori, ancor oggi osannati dalla destra in doppio petto, che hanno invitato pubblicamente a discriminare certi gruppi etnici e contemporaneamente hanno scritto che il razzismo era una dottrina priva di qualsivoglia base scientifica. Il razzismo non è affatto per forza di cose una teoria biologica della politica. Esiste, cioè, anche il razzismo politico
di Luca Michelini


A proposito del razzismo e delle politiche razziste esiste, purtroppo, un diffuso malinteso. Si presume, infatti, che politiche discriminatorie siano il frutto esclusivo di ideologie e di prassi apertamente e dichiaratamente razziste. Ci si aspetta che tali politiche e che le ideologie che le sorreggono abbiano necessariamente bisogno di un qualche “Manifesto della razza” e di qualche intellettuale e scienziato disposto a dimostrare che “le razze esistono”. Naturalmente, si deve sapere che il razzismo è anche questo. Ma la storia, e in modo particolare la storia italiana, ci insegna che il razzismo e le politiche discriminatorie hanno anche una origine diversa.
Ci sono stati autori, ancor oggi osannati dalla destra in doppio petto, che hanno invitato pubblicamente a discriminare certi gruppi etnici e contemporaneamente hanno scritto che il razzismo era una dottrina priva di qualsivoglia base scientifica. Il razzismo non è affatto per forza di cose una teoria biologica della politica. Esiste, cioè, anche il razzismo politico. Esiste fin dall’origine un dato caratteristico delle ideologie razziste: la loro profonda ambiguità, il porsi tra il dire e il non dire, tra l’affermazione e la smentita. Tratto caratteristico di queste ideologie è l’uso deliberato della menzogna, che è addirittura teorizzata come funzionale a descrivere ciò che è “verosimile”. C’è sempre un contesto internazionale che costituisce una camicia di forza per la “patria”, rettamente intesa. C’è sempre una “cospirazione” internazionale da debellare.
Il razzismo, dunque, è usato come deliberata arma di propaganda, ma non per fini puramente ideologici, quanto per promuovere attive politiche di aggressione: in particolare lo squadrismo dei primi anni Venti. E fin dalle origini queste prassi discriminatorie hanno invocato“censimenti”: a cominciare dai cognomi e poi redigendo e pubblicando “elenchi” e poi avviando complesse procedure di “riconoscimento” e poi redigendo la geografia economica e istituzionale della “occupazione” che i gruppi avevano fatto e andavano facendo di certi lavori e di certe cariche, diventando quello che viene definito “uno Stato nello Stato”. Tipico di queste ideologie è poi presentare proprio i gruppi discriminati come fomentatori di discriminazione, come i primi e i fondamentali “razzisti”, come gruppi che rifiutano l’integrazione. Il razzismo politico stigmatizza, poi, le ideologie “umanitarie” e “cosmopolite”, che naturalmente nascondo ben circoscrivibili “interessi” o di gruppi o di nazioni. La “epurazione” invocata di questi gruppi si è sempre accompagnata alla loro assimilazione ad altri gruppi che, in un modo o nell’altro, costituivano “uno Stato nello Stato”, dei “traditori”, naturalmente anch’essi da estirpare.
E prima di arrivare alla codificazione legislativa di politiche razziste e discriminatorie, la discriminazione ha cercato la via più semplice: farsi propaganda, titolo di giornale, intervista; poi farsi cemento ideologico di partito; in seguito farsi provvedimento amministrativo apparentemente indolore per la cornice legislativa che lo contiene; poi diventare provvedimento di ordine pubblico, così da criminalizzare il gruppo da discriminare; infine, quando le coscienze sono state abituate alla discriminazione, quando le voci discordi sono rese minoritarie, quando appare politicamente corretto e condiviso tutto quanto sopra descritto, il razzismo diventa codice, legge, organizzazione.

il manifesto 27.6.18
«Londra riconosca le sue colpe verso i palestinesi privi di diritti»‎ ‎
Intervista. Lo chiede con forza lo storico Salim Tamari, docente alla Harvard, in occasione della storica visita del principe britannico William in Israele e Territori palestinesi occupati
di Michele Giorgio

RAMALLAH Nelle settimane passate Buckingham Palace si è affannata a ‎sottolineare la natura “non politica” della visita del principe William ‎in Giordania, Israele e Territori palestinesi occupati. Ma a ovest del ‎fiume Giordano l’arrivo del secondo nella linea di successione al ‎trono britannico, non può non avere una valenza politica e storica. La ‎Gran Bretagna che prese il controllo della regione e la governò sotto ‎un mandato della Società delle Nazioni tra il 1917 e il 1948, se è ‎vista dagli israeliani con (moderata) simpatia per il suo ruolo, in ‎particolare per la Dichiarazione Balfour – del 1917, che assicurava il ‎sostegno di Londra alla creazione di un “focolare nazionale ebraico” ‎in Palestina – nella nascita dello Stato ebraico, è invece accusata dai ‎palestinesi di aver consegnato la loro terra al movimento sionista e di ‎aver gettato i semi del conflitto che devasta ancora il Medio oriente. ‎Motivo di attrito con Israele è il riferimento nel programma del ‎principe a Gerusalemme Est, la zona araba della città, come parte dei ‎Territori palestinesi occupati. Un punto che ha fatto infuriare i ‎politici israeliani che considerano tutta Gerusalemme come la ‎capitale “eterna e indivisibile” dello Stato ebraico. Sul significato ‎della visita del principe William – che ieri ha deposto una corona di ‎fiori al Memoriale dell’Olocausto e ha avuto colloqui con il premier ‎Netanyahu e il capo di stato israeliano Rivlin – abbiamo intervistato a ‎Ramallah lo storico e sociologo palestinese, Salim Tamari, ‎attualmente docente all’università statunitense di Harvard. ‎
Il principe William è atteso (oggi) a Ramallah dove incontrerà il ‎presidente dell’Anp Abu Mazen e giovani dei campi profughi. Una ‎visita nei Territori occupati che non placa la rabbia dei palestinesi che ‎chiedono alla Gran Bretagna di scusarsi per la Dichiarazione Balfour ‎e la politica anti-araba svolta durante il Mandato in Palestina.
Scuse che difficilmente arriveranno e non solo perché il principe ‎William non può svolgere alcun ruolo politico. La premier britannica ‎Theresa May in varie occasioni nell’ultimo anno ha parlato con ‎orgoglio della funzione avuta dal suo paese nella fondazione dello ‎Stato di Israele. Settant’anni dopo la guerra del 1948 e 101 anni dopo ‎Balfour, la Gran Bretagna è sempre più allineata alle posizioni della ‎Casa Bianca. Tuttavia non escludo che (oggi) il principe William ‎possa fare qualche dichiarazione non del tutto in linea con il governo ‎May. La monarchia britannica talvolta prende le distanze ‎dall’esecutivo in omaggio al suo passato imperiale, quando decideva ‎tutto da sola o quasi. Ma è una possibilità remota.‎
La visita al Monte degli Ulivi e il riferimento a Gerusalemme Est ‎come parte dei Territori occupati comunque deviano in parte dai tour ‎preconfezionati in Israele e Cisgiordania che compiono capi di stato e ‎di governo stranieri.‎
Che sia una visita di alto profilo e non solo simbolica è chiaro a ‎tutti. È importante che la Gran Bretagna e i paesi europei, a ‎proposito dello status di Gerusalemme, si mantengano fedeli alla ‎risoluzione 181 dell’Onu del 1947, che ha assegnato alla città (e a ‎Betlemme, ndr) uno status speciale, internazionale, e che non ‎riconoscano, come ha fatto Donald Trump infrangendo il diritto ‎internazionale, Gerusalemme come la capitale di Israele. Ogni ‎segnale, anche piccolo, che il reale britannico darà nella direzione che ‎ho detto sarà positivo per il mantenimento dello status internazionale ‎di Gerusalemme.‎
Alcune voci affermano che il ruolo britannico in Palestina va in ‎parte riscritto perché Londra, prima e dopo il secondo conflitto ‎mondiale, avrebbe preso in maggiore considerazione i diritti dei ‎palestinesi e sostenuto almeno in parte l’idea di uno Stato per arabi ed ‎ebrei, tanto da non votare a favore della partizione della Palestina ‎approvata dall’Onu nel 1947.‎
I dubbi di Londra in quegli anni nei confronti di ciò che stava ‎maturando sul terreno e sulla direzione presa dal movimento sionista ‎sono ormai fatti storici accertati. La discussione in casa britannica su ‎un processo di decolonizzazione in Palestina fu reale. Senza ‎dimenticare che il segretario agli esteri dell’epoca Ernest Bevin fece ‎irritare non poco i leader sionisti, opponendosi persino ad alcune ‎scelte e richieste fatte dal presidente Usa Truman. Tuttavia la ‎Dichiarazione Balfour fatta trent’anni prima aveva ormai segnato un ‎punto di svolta decisivo per il futuro della Palestina. Cent’anni dopo ‎Londra continua a negare le sue responsabilità, anzi ne rivendica la ‎piena consapevolezza dimenticando i diritti mai realizzati dei non ‎ebrei in Palestina che pure sono citati nella Dichiarazione Balfour. ‎