martedì 26 giugno 2018

Corriere 26.6.18
Si è sgretolato il mito del popolo rosso
di Pierluigi Battista


C’erano una volta le «Regioni rosse». C’erano, e ora con le elezioni di Massa, Pisa, Siena, Imola, Terni e di tanti altri comuni passati nel campo degli Infedeli si sono celebrate le loro esequie. Le Regioni rosse non erano solo un poderoso arsenale, ora svuotato, di voti per la sinistra. Erano un mito, una leggenda, un’immagine inamovibile nel paesaggio politico, umano e antropologico dell’Italia repubblicana. Erano l’ultima trincea del «popolo». Il «popolo» vero, non quello della folla solitaria in cui gli individui sono connessi (appunto) solo attraverso la virtualità della rete. Il popolo strutturato, organizzato. La comunità del popolo, che nelle Regioni rosse si rinsaldava attraverso i legami di una socialità attiva e avvolgente, della concretezza territoriale, del senso di appartenenza, e che ora si è dissolta. Fine, quel mito si è esaurito. Si è chiusa un’epoca. L’insieme delle Regioni rosse, quel polmone rosso che faceva respirare all’unisono l’Emilia-Romagna e le Marche, la Toscana e l’Umbria, è solo un ricordo del passato.
E solo chi ha l’età per ricordare quel passato può capire come le Feste dell’Unità nelle città e nei mille paesi delle Regioni rosse siano state l’ultimo santuario da cui emanasse un qualche sentore di spirito «popolare»: le cucine delle feste con i volontari a friggere e a cuocere salsicce, le balere dove si ballava il liscio che piaceva al popolo, le famiglie e le generazioni riunite, i film da vedere insieme. Quelle che sono rimaste, di Feste senza il giornale da cui prendevano il nome, sono solo il pallido simulacro di quelle che c’erano prima. E solo chi conta qualche anno alle spalle ricorda Roberto Benigni che raccontava le «case del popolo» della Toscana un tempo rossa, e che si chiamavano case del popolo perché appunto c’era il popolo, e dove si giocava a briscola, si beveva vino, si chiacchierava dei fatti locali. E si parlava di politica, anche, ma non sempre. Il tempo libero non era mai solitario, le Regioni rosse vivevano infatti di una mitologia collettivista che aveva qualche tratto comune con la Germania dell’Est, Stasi a parte. Lucio Colletti, il filosofo che aveva abbandonato il marxismo, spirito caustico e cinico, diceva che non avrebbe mai potuto andare ad abitare a Bologna, dove pure risiedevano i suoi affetti, per paura delle intrusioni poliziesche del «capo-caseggiato», come quelli che spadroneggiavano nell’est Europa. Era un’esagerazione, ma c’era un più di un briciolo di verosimiglianza. Ogni segmento della vita non lavorativa aveva la sua rappresentanza politicamente inquadrata: i luoghi del «dopolavoro», così si chiamava, o il capillare associazionismo sportivo targato Uisp, o le donne dell’Udi, o l’Arci Caccia, che tanto fa imbestialire, è il caso di dire, ambientalisti e animalisti.
E il lavoro, e tutto ciò che era connesso al lavoro, dava nelle Regioni rosse forma, organizzazione, struttura, cultura, non solo economia, ma anche valore esistenziale. L’integrazione tra mondo agrario e mondo industriale (peraltro in misura non lieve portato del fascismo, che in Emilia-Romagna, attraverso i suoi ras, aveva una forza tutta speciale: dal rosso, al nero, al rosso di nuovo) riduceva al minimo le tensioni sociali. Il sindacato era una potenza. Il credito delle banche popolari raccontava amicizia e sostegno per generazioni e generazioni: incalcolabile sul piano simbolico è stata negli ultimi anni la distruzione di un rapporto di fiducia e di compenetrazione con la «nostra» banca. E come calcolare il sentimento di delusione e frustrazione per le poco gloriose acrobazie a Siena del Monte dei Paschi? Il «nostro» non c’è più. Lo sposalizio del popolo con il credito elargito per far respirare il territorio si è deteriorato. E il sistema delle cooperative, non come normale impresa omologata al resto delle imprese, ma come arcipelago di imprese speciali, dove il popolo si riconosceva, che fine ha fatto? I partiti della sinistra selezionavano il loro personale politico da questo mondo legato alle cose, alle cifre, al concreto. L’amministrazione dei territori grandi e piccoli era la scuola politica più affidabile: non c’era solo ideologia e sol dell’avvenire, ma attenzione di governo. Sbagliato o giusto, ma governo. Realismo.
Non era un idillio, non c’è niente da rimpiangere dal passato, ma era «popolo», e quel popolo era la sinistra. Senza quel popolo organizzato, strutturato, inquadrato, la sinistra svanisce e le Regioni rosse cessano di vivere, nella realtà e nell’immaginario. Anche le Regioni bianche erano popolo, erano la cassaforte elettorale di un grande partito popolare come la Democrazia Cristiana. Ma il cuore delle Regioni bianche ha trovato un erede nella Lega, specialmente nel Veneto bianco e in una parte della Lombardia, che ha occupato quel territorio «popolare» (dinamismo economico e conservatorismo culturale con forti venature scioviniste, «la polenta contro il cous cous») in una misura che la sinistra non è mai riuscita davvero a capire, stupendosi ogni volta del seguito leghista. Nelle Regioni rosse la rivoluzione della post-modernità, l’avvento della società liquida, l’economia dell’immateriale sono passate come un rullo compressore su quella dimensione popolare, organica, comunitaria, coesa. Non era un idillio, soprattutto per chi restava fuori da quel sistema così compatto e cementato, in cui la politica si intrecciava con la società in ogni sua nervatura. Ma era stabilità: ecco perché le Regioni rosse continuavano a essere rosse. In futuro ci potranno essere elezioni del riscatto, capovolgimenti politici, come a Bologna, in cui la sinistra si è ripresa la città dopo lo choc Guazzaloca: in politica, in una democrazia dell’alternanza in cui comunque l’Italia fortunatamente continua a vivere, nulla è totalmente irreversibile. Ma quel cemento popolare si è sgretolato per sempre. Le Regioni rosse hanno smesso di essere, per una scelta del destino, la roccaforte inespugnabile della sinistra. E infatti.