Corriere 19.6.18
La ricerca (spericolata) del consenso
di Massimo Gramellini
Dopo
due settimane parlate pericolosamente, l’irresistibile linea
«cattivista» di Salvini conosce il primo inciampo. Succede per colpa di
un vocabolo — censimento — che ha ancora il potere di evocare fantasmi,
quando viene associato a una minoranza etnica. Nella sua inesausta
attività social, il ministro dell’Interno e delle interiora (intese come
pulsioni profonde) ha annunciato, in singolare coincidenza temporale,
il censimento dei campi rom e una sua imminente visita al Papa meno
salviniano che si possa immaginare. Finora le sortite del leghista in
capo avevano goduto di una certa benevolenza mediatica.
Dettavano
l’agenda politica senza incontrare altri ostacoli che l’indignazione,
ininfluente e scontata, della sinistra in disgrazia. Stavolta invece
qualcosa è andato storto. Mentre la Santa Sede negava l’esistenza di un
incontro ufficiale tra Francesco I e Matteo II, il poliministro Di Maio
alzava per la prima volta la voce contro il dinamico sodale di
contratto, ricordandogli che schedare le persone è una pratica
incostituzionale. A stimolare l’orgoglio pentastellato non sarà stato
estraneo l’ultimo sondaggio sulle intenzioni di voto degli italiani, che
annunciava il clamoroso sorpasso della Lega sui grillini (29,2% a 29),
al culmine di una tendenza che nei primi cento giorni trascorsi dalle
elezioni ha visto Salvini crescere inesorabilmente e Di Maio altrettanto
inesorabilmente calare. Fiutato il rischio di finire fuori strada, il
leader della Lega ha innestato una marcia finora poco usata, quella
indietro, spiegando che per censimento dei rom non intendeva certo una
schedatura, ma il sopralluogo dei loro campi. Non ha potuto però
smentire l’esito da lui auspicato di quel sopralluogo: l’espulsione dei
rom stranieri, dato che «gli italiani purtroppo ce li dobbiamo tenere». E
quel «purtroppo» conteneva l’essenza del suo pensiero. Sarà
interessante vedere come evolverà il salvinismo. L’uomo che lo
interpreta è in sella all’umore del Paese. Gramsci direbbe che ne ha
conquistato l’egemonia culturale, premessa di quella politica. È lui,
non i grillini, a dare il tono al discorso pubblico. Del reddito di
cittadinanza non si parla già più, mentre la retorica nazionalista
domina la scena, svariando dal tema della sicurezza a quello delle
vacanze autarchiche, consigliate proprio ieri da un Salvini in versione
tour operator, nell’ennesima intervista televisiva rilanciata da un
tweet e ripresa in un post. Nel momento in cui la Lega diventa
virtualmente il primo partito italiano, con un vento talmente in poppa
da renderla impermeabile persino agli scandali, il suo leader si trova
di fronte a un passaggio decisivo. Ai disagi creati dall’immigrazione di
massa si può infatti reagire in tre modi. Il primo, scelto fin qui
dalla sinistra, è quello di negarne l’esistenza e di irridere come
insensibili o razzisti coloro che pagano sulla propria pelle le
difficoltà di un’integrazione male pensata e peggio gestita. Il secondo è
il metodo finora proposto da Salvini e consiste nel non limitarsi a
denunciare la questione, ma nell’esasperarla, come ha spiegato sul
Corriere di ieri Antonio Polito. Un vero leader non si limita a cercare
il consenso, ma è disposto persino a metterlo in gioco per affrontare
sul serio i problemi. E nessun problema complesso come l’immigrazione è
mai stato risolto con parole a effetto. Serve un’azione lenta e
paziente, a tratti noiosa, non condensabile in un tweet e nemmeno in un
post. Sarebbe questa la terza strada, finora poco battuta da tutti, e si
chiama politica.