Corriere 14.6.18
La nuova inchiesta corrotti il copione si ripete
di Giovanni Bianconi
Tra
le intercettazioni del costruttore Luca Parnasi che costituiscono
l’ossatura della nuova inchiesta romana sulla corruzione, ce n’è una che
per i magistrati inquirenti è una sorta di «confessione
stragiudiziale»; la rappresentazione plastica del metodo lavorativo
dell’imprenditore accusato di corruzione. «Ci sono le elezioni... Io
spenderò qualche soldo sulle elezioni, che poi vedremo come vanno girati
ufficialmente, coi partiti politici eccetera. Questo è importante
perché in questo momento noi ci giochiamo una fetta di credibilità per
il futuro. Ed è un investimento che io devo fare... molto moderato
rispetto a quanto facevo in passato quando ho speso cifre che manco te
lo racconto... però la sostanza è che la mia forza... è quella che alzo
il telefono».
Sono parole registrate il 9 gennaio 2018, all’inizio
della campagna elettorale, quasi perfettamente sovrapponibili a quelle
intercettate cinque anni prima — il 20 aprile 2013, alla vigilia delle
elezioni comunali a Roma — durante il colloquio di un altro
imprenditore, di diverso livello ma ugualmente importante: «Tu devi
essere bravo perché la cooperativa campa di politica. Finanzio giornali,
eventi, pago segretaria, pago cena, pago manifesti... Questo è il
momento che paghi di più perché ci stanno le elezioni comunali, poi per
cinque anni... mentre i miei non li paghi più, poi quell’altri li paghi a
percentuale su quello che fanno ... Mo’ c’ho quattro cavalli che
corrono... col Pd, con il Pdl ce ne ho tre, e con Marchini c’è...».
A
parlare era Salvatore Buzzi, il capo delle cooperative condannato a 19
anni di reclusione in primo grado per associazione per delinquere
finalizzata alla corruzione; lo stesso reato per cui è stato arrestato
Parnasi. A cinque anni di distanza, la situazione non sembra cambiata di
molto. Con un elemento in più: la scoperta del «mondo di mezzo» di
Buzzi e del suo complice Carminati ha di fatto determinato il cambio di
Giunta a Roma, ma adesso il metodo corruttivo contestato a Parnasi
investe in qualche modo anche la nuova amministrazione capitolina
targata Cinque Stelle. Che proprio dello svelamento del «metodo Buzzi»
si era giovata per conquistare il Campidoglio.
Data per scontata
la presunzione di innocenza degli indagati e l’avvertenza che siamo di
fronte solo a una ricostruzione dell’accusa, i magistrati ritengono di
aver individuato un altro esempio di una prassi che non cambia a
dispetto dei mutamenti politici e del ricambio degli interlocutori
all’interno della pubblica amministrazione. Per il giudice che ha
ordinato gli arresti siamo di fronte a un «ordinario e non certo
eccezionale ricorso a condotte illecite», utilizzato come «strategia
indispensabile per la realizzazione di qualsivoglia progetto»; secondo
la Procura questa vicenda dimostra che «il metodo corruttivo verso
esponenti istituzionali, appartenenti alla politica e alla burocrazia»
s’è trasformato in «un significativo asset d’impresa».
Se Buzzi
aveva puntato su «cavalli» con le insegne di tutti i principali partiti,
nell’indagine su Parnasi sono coinvolti a vario titolo esponenti del
centrodestra, del centrosinistra e dei Cinque Stelle. In un’altra
intercettazione del novembre scorso, riassunta nelle carte dell’accusa,
l’imprenditore arrestato dice di voler «capitalizzare il super rapporto»
instaurato con il Comune di Roma «nella direzione di altri progetti
imprenditoriali/immobiliari» dopo quello dello stadio. E in una
conversazione di marzo, quasi si rallegra che un articolo di giornale
parla di suoi presunti finanziamenti alla Lega, visto che tutti lo
consideravano più vicino a personaggi del Pd: «Invece io sono comunque
uno che apre».
È l’immagine di un sistema in cui la trasversalità
del malaffare è diventato un valore aggiunto. Gli eventuali processi
diranno se tutto questo ha fondamento o si tratta di parole in libertà
(come diceva nei suoi colloqui Buzzi), che non hanno valore penale.
Tuttavia, al di là dell’esito dell’inchiesta, il mosaico composto finora
dai pubblici ministeri fornisce un quadro allarmante. Perché se fosse
vero, vorrebbe dire che anche i ricambi più radicali servono a poco. E
che forse, ancora una volta, le burocrazie e le loro antiche abitudini
hanno la meglio sui più ambiziosi programmi di rinnovamento.
Probabilmente
è proprio questo il cuore del problema che non si riesce a risolvere:
la convinzione che la vecchia pratica delle «mazzette», seppure sotto
forme che si rinnovano in continuazione anche per sfuggire ai controlli,
sia l’unica via sicura per aggiudicarsi lavori e affari. Di qui i
pagamenti a «mediatori nei confronti dei pubblici ufficiali», e a
seguire la «promessa o dazione di denaro o altre utilità» agli esponenti
politici con responsabilità amministrative. Gli inquirenti spiegano che
in questa storia lecito e illecito si mescolano, annunciando nuovi
sviluppi. Ma il fatto che l’indagine nasca da quella che ha portato alla
sbarra il costruttore ottantenne Sergio Scarpellini, il quale ha
spiegato di aver dato soldi all’ex capo del personale del Campidoglio
Raffaele Marra «perché è uno che conta, mi piaceva avere un amico», la
dice lunga sui metodi che si perpetuano nonostante indagini e processi.